L’espropriazione per pubblica utilità rappresenta una delle massime espressioni del potere della pubblica amministrazione di conformare e, se necessario, comprimere i diritti dei privati in nome dell’interesse collettivo. Il tema della determinazione della base imponibile, e quindi del valore di mercato del bene espropriato o alienato tramite asta pubblica, è di centrale rilevanza sia sotto il profilo tributario che in relazione alla tutela del diritto di proprietà. La recente pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. 5, n. 24907/2024, affronta proprio questi temi in un contesto caratterizzato dalla peculiare natura del bene oggetto di vendita e dalla presenza di procedimenti penali collegati.
Il diritto di proprietà, pur costituzionalmente garantito, può essere compresso per motivi di interesse generale, secondo le modalità previste dalla legge e con il riconoscimento di una giusta indennità. Il Testo Unico sulle espropriazioni per pubblica utilità (d.P.R. n. 327/2001) disciplina i principi generali dell’ablazione coattiva, la trasparenza procedimentale e la determinazione dell’indennità.
L’art. 51 del d.P.R. 131/1986 (Testo unico dell’imposta di registro) stabilisce che la base imponibile, per i trasferimenti di beni immobili, è costituita dal valore venale in comune commercio, da determinarsi secondo criteri oggettivi e riscontrabili.
L’oggetto della controversia è la cessione di un antico complesso immobiliare di circa 11.360 mq, in pessimo stato di conservazione, alienato tramite asta pubblica dopo numerosi tentativi andati deserti. L’Agenzia delle Entrate aveva contestato la congruità del prezzo di aggiudicazione, ritenendolo inferiore al valore di mercato e invocando l’applicazione degli artt. 51 e 52 del d.P.R. 131/1986, nonché dell’art. 44 dello stesso decreto, relativo alle espropriazioni forzate o di pubblica utilità.
Il nucleo centrale della vicenda è il criterio da adottare per la determinazione della base imponibile in caso di vendita all’asta pubblica di un bene immobiliare, e se sia o meno applicabile il criterio previsto per le espropriazioni forzate o per pubblica utilità (art. 44 d.P.R. 131/1986), oppure se il valore vada determinato sulla base del prezzo effettivamente conseguito all’asta pubblica.
La Commissione Tributaria Regionale, confermando la sentenza di primo grado, aveva ritenuto che il prezzo di vendita all’asta pubblica rappresentasse il valore di mercato del bene, anche in considerazione della singolarità dell’immobile (antico complesso in pessimo stato) e della difficoltà di comparazione con altri beni simili. In particolare, la Commissione sottolineava che il prezzo di aggiudicazione, frutto dell’incontro tra domanda e offerta in un contesto di asta pubblica, costituisce il più attendibile parametro di riferimento per la determinazione del valore venale.
L’Agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione, sostenendo, fra l’altro, che la presenza di procedimenti penali collegati (per reati quali turbativa d’asta, truffa, riciclaggio) avrebbe potuto incidere sull’attendibilità del prezzo di aggiudicazione, e che la Commissione avrebbe dovuto procedere a una valutazione incidentale dei fatti penali per verificare la congruità del valore.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ribadendo che:
La Corte ha riaffermato l’autonomia tra giudizio tributario e processo penale, rilevando come la mera pendenza di un procedimento penale collegato alla vendita non costituisca elemento idoneo a mettere in dubbio la congruità del prezzo di aggiudicazione, salvo che vi siano riscontri oggettivi sugli effetti distorsivi della condotta penalmente rilevante.
La Cassazione ha osservato che, in assenza di comparabili e in presenza di un immobile dalle caratteristiche uniche, le valutazioni dell’Ufficio, se non corroborate da riscontri oggettivi, non possono prevalere sul dato risultante dall’asta pubblica, che rappresenta l’incontro reale tra domanda e offerta.
Il caso analizzato, pur non riguardando un’espropriazione per pubblica utilità in senso stretto, presenta numerosi punti di contatto con le vendite coattive e le procedure ablative. In tali casi, la giurisprudenza di legittimità tende a valorizzare il prezzo di aggiudicazione come parametro oggettivo del valore di mercato, a meno che non siano provate irregolarità o manipolazioni.
La sentenza valorizza la trasparenza e la pubblicità delle procedure di vendita all’asta, considerate garanzia sufficiente della congruità del prezzo in assenza di elementi contrari. Il contribuente, dunque, può fare affidamento sulla regolarità della procedura come elemento di tutela, senza dover subire accertamenti suppletivi basati su valutazioni astratte o stime teoriche.
L’autonomia dei giudizi è riaffermata in modo netto: fatti e accertamenti del processo penale possono rilevare nel giudizio tributario solo se concretamente incidenti sull’oggetto del processo e se accompagnati da elementi certi e definitivi.
La pronuncia in esame conferma l’orientamento consolidato della Cassazione, secondo cui il prezzo di aggiudicazione ottenuto mediante regolare asta pubblica rappresenta il miglior indicatore del valore venale di un bene, anche ai fini tributari e, per estensione, in caso di procedure ablative e di espropriazione per pubblica utilità. Solo l’accertata alterazione del libero confronto tra domanda e offerta può giustificare una difformità tra il prezzo d’asta e la base imponibile.
In prospettiva, la sentenza invita gli operatori (pubblica amministrazione, contribuenti, giudici) a privilegiare criteri oggettivi e trasparenti, riducendo il margine di discrezionalità tecnica e valorizzando la funzione di garanzia insita nelle procedure competitive pubbliche.