La sentenza della Corte di Cassazione n. 33937/2024 offre l’occasione per un’ampia riflessione sul tema dell’usucapione di beni di pertinenza di enti morali e fondazioni, con particolare attenzione agli oneri probatori, alla distinzione tra possesso e detenzione, e all’ammissibilità del vizio di travisamento della prova nel giudizio di legittimità. Il caso affrontato, oltre a confermare principi consolidati, consente di analizzare criticamente la giurisprudenza in materia di possesso ad usucapionem e le strategie difensive in sede processuale.
La controversia nasce dalla domanda di rilascio proposta da una fondazione (Opera Pia) nei confronti di privati cittadini che detenevano un terreno di pertinenza di un edificio, già oggetto di atti successori e successivamente trasformato in fondazione. La fondazione agiva in giudizio per ottenere la restituzione del terreno, ritenuto detenuto sine titulo, mentre i convenuti contestavano la domanda affermando di averlo posseduto ad usucapionem.
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere accoglieva la domanda della fondazione, escludendo la sussistenza di un diritto di proprietà per usucapione in capo ai convenuti. La Corte d’appello confermava tale valutazione, valorizzando sia la prova testimoniale sia la consulenza tecnica d’ufficio, che aveva ricostruito la storia del bene e la natura della relazione materiale con il fondo.
Uno dei punti nodali della sentenza riguarda la distinzione tra possesso e detenzione e la conseguente ripartizione dell’onere della prova:
Nel caso concreto, i giudici hanno escluso che i convenuti avessero svolto attività inequivocabilmente riconducibili al possesso uti dominus: la coltivazione del terreno, la raccolta dei frutti, la realizzazione di opere non autorizzate (pozzo artesiano, cordolo di cemento) non sono state ritenute sufficienti, anche in assenza di un titolo esclusivo di accesso. La prova testimoniale e la CTU hanno confermato che l’accesso avveniva attraverso un edificio pubblico (“Palazzo delle Arti”), e che la disponibilità delle chiavi non era esclusiva.
I ricorrenti invocavano la presunzione di possesso ex art. 1141 c.c., secondo la quale si presume possessore chi esercita il potere di fatto sulla cosa, salvo prova contraria. La Cassazione, confermando la ricostruzione dei giudici di merito, ha precisato che la semplice detenzione tollerata (es. facoltà di raccolta frutta concessa dal parroco) non integra possesso utile all’usucapione.
La Corte ribadisce che “la coltivazione del fondo, in mancanza di univoci indizi che tale attività sia svolta uti dominus, non è sufficiente a provare il possesso”, richiamando precedenti consolidati (Cass. 22720/2014; Cass. 4370/1996).
Uno degli aspetti più interessanti della decisione è il rigetto del motivo di ricorso fondato sul presunto travisamento della prova. La Corte ricorda che il travisamento del contenuto oggettivo della prova può essere fatto valere tramite revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c., mentre nel giudizio di legittimità trova ingresso solo nei ristretti limiti dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. e solo in assenza di “doppia conforme”.
Nel caso concreto, sia il Tribunale che la Corte d’appello avevano fornito una valutazione conforme dei fatti (“doppia conforme”), precludendo la possibilità di una nuova valutazione in sede di legittimità. Il ricorso è stato ritenuto inammissibile e la Cassazione ha ribadito che la valutazione delle prove, la scelta delle fonti e la credibilità dei testi sono riservate al giudice di merito.
I ricorrenti avevano allegato, a sostegno dell’usucapione, la coltivazione del terreno e la realizzazione di alcune opere (pozzo artesiano, cordolo in cemento, recinzioni). Tuttavia, la sentenza chiarisce che tali attività, in assenza di autorizzazione e senza la dimostrazione di un animus possidendi, sono insufficienti a dimostrare il possesso utile ad usucapionem, specialmente se tollerate o consentite dall’ente proprietario.
La Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la condanna alle spese per i ricorrenti e l’applicazione delle sanzioni ex art. 96 c.p.c. per responsabilità aggravata, nonché l’obbligo di versamento dell’ulteriore contributo unificato.
Questa pronuncia si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale che tende a interpretare restrittivamente la possibilità di usucapione dei beni di enti morali e fondazioni, anche laddove il possesso sia stato esercitato per un lungo periodo e con attività materiali rilevanti. La tutela della certezza dei rapporti giuridici e la salvaguardia del patrimonio degli enti collettivi prevalgono, in assenza di atti inequivoci di interversione.
Resta aperto il dibattito dottrinale sulla sufficienza della coltivazione e delle migliorie apportate come prova dell’animus possidendi, specie in contesti rurali o in presenza di rapporti storici tra famiglie e istituzioni.
Per i privati che intendano far valere l’usucapione su beni di enti morali o fondazioni, è imprescindibile:
Per gli enti, risulta fondamentale:
La sentenza n. 33937/2024 della Cassazione ribadisce la centralità dell’onere della prova in tema di usucapione, la netta distinzione tra possesso e detenzione e la limitata sindacabilità delle valutazioni di merito in sede di legittimità. La decisione rafforza la tutela degli enti morali e delle fondazioni, ponendo un significativo argine alle pretese usucapive fondate su attività materiali insufficienti.
Il tema della “tolleranza” assume una rilevanza determinante nella giurisprudenza relativa all’usucapione di beni appartenenti a enti morali e fondazioni. La “tolleranza” si configura come quella situazione in cui il proprietario consente ad altri di utilizzare il proprio bene senza che ciò implichi una perdita dell’animus possidendi da parte sua, né l’acquisto di tale animus da parte del terzo (art. 1144 c.c.).
La giurisprudenza è costante nell’affermare che l’uso di un bene da parte di un terzo, se avviene in un contesto di rapporti personali, di vicinato, o soprattutto di rapporti comunitari o assistenziali, deve essere interpretato come tollerato e non come esercizio di un potere corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà. In tali casi, la semplice fruizione del bene, anche prolungata, non è idonea a fondare il possesso utile all’usucapione, in assenza di un atto di interversione chiaro e opponibile all’ente (Cass. 22720/2014; Cass. 4370/1996).
Spesso, nelle controversie tra enti morali e privati, la coltivazione del fondo e la realizzazione di migliorie (impianti, recinzioni, pozzi) vengono invocate come indice di possesso ad usucapionem. Tuttavia, la Cassazione conferma che tali attività, se svolte sulla base di una concessione, di una tolleranza o in virtù di un rapporto fiduciario, non sono sufficienti senza univoci elementi di interversione.
La prassi testimonia come molti enti, per ragioni di utilità sociale o di gestione, consentano ai privati di curare e migliorare i propri fondi. Tuttavia, ciò non comporta un mutamento del titolo della relazione materiale, salvo che il privato compia atti manifestamente incompatibili con il titolo originario.
L’efficacia di una domanda di usucapione nei confronti di un ente morale dipende dalla capacità del privato di fornire prova rigorosa di:
D’altra parte, l’ente dovrà puntualmente documentare le concessioni, la tolleranza, l’assenza di opposizioni e la natura fiduciaria o comunitaria della relazione con il fondo.
Nei principali ordinamenti europei, la possibilità di usucapione su beni di enti morali o collettivi è generalmente esclusa o soggetta a limiti molto rigorosi. In Francia, ad esempio, i beni appartenenti a enti pubblici o di utilità sociale sono considerati imprescrittibili, salvo che non siano stati precedentemente dismessi e privatizzati. L’approccio italiano, seppur meno radicale, si muove nella stessa direzione, con una netta prevalenza dell’interesse collettivo sull’interesse individuale, soprattutto in presenza di beni destinati ad attività di interesse pubblico o religioso.
La materia resta oggetto di vivace dibattito dottrinale, specie in relazione alla funzione sociale della proprietà e all’utilizzo effettivo dei beni. Alcuni studiosi ipotizzano una maggiore apertura all’usucapione in presenza di lunga inerzia dell’ente o di abbandono del bene, per evitare che patrimoni di interesse collettivo restino inutilizzati.
Si discute, inoltre, della possibilità di introdurre una disciplina ad hoc per i rapporti storici tra famiglie e istituzioni, soprattutto nei piccoli centri, ove la linea di confine tra tolleranza, detenzione e possesso è spesso molto labile.
La sentenza n. 33937/2024 della Cassazione rappresenta un punto fermo nella tutela del patrimonio collettivo e nella rigorosa applicazione dell’onere della prova in tema di usucapione. Per i professionisti, è essenziale:
Per i privati, è necessario valutare con realismo le possibilità di successo di una domanda di usucapione nei confronti di enti morali, orientando le proprie iniziative su strumenti negoziali o transattivi.
La giurisprudenza italiana conferma la funzione sociale e la specialità della proprietà degli enti morali, assicurando stabilità e certezza ai rapporti giuridici e valorizzando il ruolo collettivo di questi soggetti nelle comunità locali.