L’espropriazione per pubblica utilità è uno degli istituti cardine del diritto amministrativo e urbanistico italiano, situato al crocevia tra l’interesse pubblico e la tutela dei diritti soggettivi dei privati. La sua disciplina, stratificata tra fonti legislative, regolamentari e giurisprudenziali, si è progressivamente evoluta per rispondere alle esigenze di tutela del territorio, dello sviluppo infrastrutturale e della salvaguardia paesaggistica. La recente ordinanza (anonimizzata) della Corte di Cassazione offre l’occasione per un approfondimento teorico-pratico dei principali profili problematici connessi all’espropriazione per pubblica utilità, con particolare attenzione agli intrecci tra normative urbanistiche, autorizzazioni paesaggistiche e nullità degli atti.
Questo contributo, assumendo un taglio accademico, mira a:
L’espropriazione per pubblica utilità trova il suo fondamento principale nell’art. 42, comma 3, della Costituzione, che stabilisce come “la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale”. Il principio cardine è quello della riserva di legge, che impone una disciplina dettagliata dei presupposti, delle modalità e dei limiti dell’ablazione.
L’espropriazione si caratterizza dunque per:
La disciplina generale dell’espropriazione si rinviene oggi nel Testo Unico in materia di espropriazione per pubblica utilità (d.P.R. 327/2001), che ha razionalizzato e coordinato la materia, superando la precedente frammentazione normativa. Il T.U. prevede un’articolata scansione procedimentale che muove dall’approvazione del progetto, passa per la dichiarazione di pubblica utilità e si conclude con il decreto di esproprio. Restano tuttavia in vigore numerose normative speciali, tra cui quelle relative alle opere pubbliche, alle infrastrutture strategiche, ai vincoli paesaggistici e ambientali.
Il caso oggetto della recente ordinanza della Cassazione concerne la realizzazione di un’opera infrastrutturale (strada tangenziale) nell’agglomerato industriale di una città sarda, affidata mediante contratto di appalto a un’associazione temporanea di imprese. Il contratto, originariamente stipulato per un determinato importo, è stato oggetto di numerose varianti e sospensioni, con conseguente aumento dei costi e insorgenza di contenziosi tra l’impresa appaltatrice e il consorzio pubblico committente.
L’impresa, a seguito della rescissione del contratto da parte del consorzio (ai sensi della legge 2248/1865 e del r.d. 350/1895), ha agito in giudizio chiedendo, tra l’altro, la declaratoria di nullità della rescissione, la risoluzione per inadempimento del consorzio e il risarcimento danni per mancati utili e lavori non pagati. Il consorzio, a sua volta, ha chiesto l’accertamento della legittimità della rescissione e la condanna dell’appaltatrice al risarcimento danni.
La vicenda processuale si è dipanata su più livelli di giudizio, affrontando, tra gli altri, i seguenti snodi:
Secondo la giurisprudenza consolidata, la realizzazione di opere pubbliche (e, di conseguenza, la legittimità degli atti espropriativi ad esse funzionali) richiede, salvo rare eccezioni, il rilascio dei necessari titoli abilitativi edilizi. Tuttavia, per le opere statali o di interesse statale, la legislazione prevede una disciplina derogatoria, affidando l’accertamento della conformità urbanistica non al comune, bensì allo Stato (o, dopo il trasferimento di funzioni, alla Regione), d’intesa con l’ente locale.
L’art. 81 d.P.R. 616/1977 e l’art. 56 d.P.R. 348/1979 (per la Sardegna) stabiliscono che, per le opere da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque insistenti su aree del demanio statale, l’accertamento della conformità urbanistica è effettuato dallo Stato, d’intesa con la Regione. La Cassazione, nella vicenda qui analizzata, ha ribadito la necessità di “un iniziale provvedimento relativo alla predetta compatibilità, emesso all’esito della procedura di intesa di cui all’art. 81 d.P.R. n. 616 del 1977 ovvero dell’art. 56 del d.P.R. n. 348 del 1979 delle opere da eseguirsi nella Regione Sardegna”, la cui mancanza comporta la nullità del contratto e, in via riflessa, degli atti ablativi ad esso collegati.
La tutela paesaggistica, disciplinata originariamente dalla legge 1497/1939 e oggi dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 42/2004), impone il previo rilascio del nullaosta paesaggistico per tutte le opere da realizzare in aree sottoposte a vincolo. La Corte ha chiarito che “l’inserimento nei piani regolatori […] non rileva certo ai fini dell’accertamento di detta conformità”, la quale “si configura come atto autonomo e presupposto” rispetto agli altri titoli abilitativi. La mancanza del nullaosta determina la nullità del contratto di appalto e degli atti ad esso collegati, inclusi quelli espropriativi.
Questo principio è rafforzato dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale, che ha sottolineato l’autonomia e la prevalenza della disciplina paesaggistica rispetto a quella urbanistica, nonché la necessità di una valutazione preventiva e specifica da parte della Soprintendenza.
La carenza dei titoli abilitativi (concessione edilizia, intesa Stato-Regione, nullaosta paesaggistico) comporta:
La dichiarazione di pubblica utilità rappresenta il “cuore” del procedimento espropriativo, in quanto attesta l’esistenza di un interesse pubblico concreto e attuale che giustifica il sacrificio del diritto di proprietà. Tale dichiarazione deve essere adottata nel rispetto delle procedure e delle garanzie previste dalla legge, a pena di nullità degli atti conseguenti. La sua validità è strettamente condizionata alla conformità urbanistica e paesaggistica dell’opera da realizzare.
Il principio di legalità, espressione del più ampio principio di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), impone che ogni atto ablativo sia fondato su presupposti di legittimità e correttezza procedimentale. La mancanza dei titoli abilitativi non costituisce una mera irregolarità formale, ma un vizio sostanziale che inficia radicalmente l’intero procedimento, “a cascata”, fino agli atti di esproprio.
La Suprema Corte, nel caso in esame, ha svolto una fondamentale funzione di nomofilachia, chiarendo che la mancanza del nullaosta paesaggistico e del provvedimento di intesa Stato-Regione comporta non solo la nullità del contratto di appalto, ma anche l’illegittimità degli atti espropriativi e la conseguente impossibilità di riconoscere diritti risarcitori all’appaltatore.
La vicenda analizzata ha posto in luce il delicato tema dell’onere della prova in materia di nullità negoziale e di legittimità degli atti amministrativi. La Corte ha chiarito che spetta a chi eccepisce la nullità del contratto (in questo caso, il consorzio committente) fornire la prova della mancanza dei titoli abilitativi, salvo che la controparte non ammetta espressamente tale circostanza.
La Cassazione ha ribadito che la mancata impugnazione di un capo della sentenza di primo grado comporta la formazione del giudicato interno, precludendo la rimessione in discussione della relativa questione in sede di gravame. Tuttavia, ciò non esclude che il giudice di appello possa fondare la propria decisione su elementi istruttori nuovi o sopravvenuti, purché rilevanti e tempestivamente acquisiti.
La Suprema Corte ha inoltre rimarcato l’esigenza di autosufficienza del ricorso per cassazione, ossia la necessità che i motivi siano corredati da una puntuale indicazione e trascrizione dei documenti su cui si fondano le censure, a pena di inammissibilità.
Un aspetto di particolare rilevanza pratica concerne la determinazione dell’indennità di esproprio in presenza di vincoli paesaggistici. La giurisprudenza di legittimità (Cass. 15704/2001, 10542/2002, 34242/2019) ha stabilito che il semplice assoggettamento del fondo al vincolo paesaggistico non comporta automaticamente l’inedificabilità assoluta e la conseguente riduzione dell’indennità, occorrendo una specifica previsione che escluda lo “ius aedificandi” in concreto.
Il d.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) ha portato a compimento il principio della prevalenza del piano paesaggistico regionale sugli strumenti urbanistici comunali, sancendo l’obbligo per i comuni di conformare i propri strumenti di pianificazione territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici. Tale principio comporta che, in caso di contrasto, prevalgano le prescrizioni di tutela ambientale e paesaggistica, a pena di nullità degli atti amministrativi e negoziali adottati in violazione.
La Corte ha escluso che l’autorizzazione paesaggistica possa essere surrogata da una sorta di autorizzazione “implicita”, derivante dalla partecipazione della Regione all’iter di approvazione urbanistica o dalla successiva adozione di varianti. La disciplina attuale, rafforzata dal d.lgs. 42/2004, esclude la possibilità di rilascio postumo di autorizzazioni paesaggistiche “sananti”, salvo limitate ipotesi di sanatoria previste dalla legge.
La nullità per mancanza dei titoli abilitativi si configura come nullità radicale e insanabile, che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e rilevata d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del procedimento. Gli atti amministrativi e negoziali adottati in violazione della disciplina urbanistica e paesaggistica sono privi di effetti ab origine, con conseguente obbligo di ripristino della legalità violata e, nei casi più gravi, di responsabilità amministrativa e contabile degli organi procedenti.
La Corte costituzionale, già con la sentenza n. 56/1968, ha affermato la natura di valore primario e assoluto del paesaggio, sancendo la necessità di un sistema di tutela efficace e articolato, capace di prevalere su ogni altro interesse, anche economico e infrastrutturale.
Il percorso evolutivo della disciplina paesaggistica ha visto il progressivo rafforzamento degli strumenti di tutela, dalla legge 1497/1939 alla legge Galasso (431/1985), fino al Testo Unico del 1999 e al Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 42/2004). Quest’ultimo ha introdotto una pianificazione congiunta tra Stato e Regioni, nonché un sistema di prevalenza dei valori paesaggistici e ambientali su ogni altra considerazione.
L’analisi approfondita della recente ordinanza della Cassazione conferma la centralità del principio di legalità e della tutela paesaggistica nell’ambito delle procedure espropriative per pubblica utilità. La mancanza dei titoli abilitativi urbanistici e paesaggistici non solo determina la nullità dei contratti pubblici e degli atti espropriativi, ma costituisce un ostacolo insormontabile al perseguimento dell’interesse pubblico, in quanto mina la certezza del diritto e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
La lezione che se ne ricava è duplice:
In prospettiva, la crescente sensibilità per la tutela del territorio e del paesaggio impone un ripensamento delle modalità di programmazione, progettazione ed esecuzione delle opere pubbliche, in un’ottica di sostenibilità, trasparenza e partecipazione.