L’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità rappresenta uno degli snodi centrali della disciplina dei rapporti tra privati e pubblica amministrazione nel diritto italiano. Da sempre, la tensione tra tutela della proprietà privata (art. 42 Cost.) e interesse pubblico ha animato dottrina e giurisprudenza, dando vita a una disciplina articolata, oggetto di continui interventi legislativi e interpretativi. In tale ambito, la vicenda oggetto della recente ordinanza della Cassazione (2024) offre un’occasione preziosa per approfondire le tematiche relative ai poteri ablatori dei consorzi industriali, la disciplina speciale del riacquisto delle aree e le intersezioni con le procedure di espropriazione ordinaria di cui al d.P.R. 327/2001.
L’articolo si concentrerà in particolare sui profili dell’espropriazione per pubblica utilità, prendendo spunto dalla pronuncia in esame e approfondendo criticamente il quadro normativo, le ricostruzioni dottrinali, gli orientamenti giurisprudenziali e le ricadute pratiche.
L’espropriazione per pubblica utilità è l’istituto mediante il quale la pubblica amministrazione può privare il privato della proprietà di un bene, dietro corresponsione di una indennità, per finalità di interesse generale. Il fondamento costituzionale si rinviene nell’art. 42 Cost., che subordina la privazione della proprietà privata a “motivi di interesse generale” e al pagamento di una “giusta indennità”.
La disciplina generale è oggi dettata dal d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (“Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità”, c.d. TU Espropri), che struttura dettagliatamente il procedimento ablatorio, le garanzie partecipative, la determinazione dell’indennità e le tutele giurisdizionali. Tra le finalità primarie del TU vi è la sistematizzazione e razionalizzazione delle procedure, in precedenza frammentate tra molteplici leggi speciali.
Il procedimento ordinario prevede, sinteticamente:
Il procedimento è improntato a principi di legalità, ragionevolezza, partecipazione e tempestività, con la previsione di termini stringenti e la possibilità per il privato di far valere le proprie ragioni davanti al giudice delle espropriazioni, tipicamente la Corte d’Appello in unico grado per l’indennità.
Il concetto di pubblica utilità, pur essendo elastico e adattabile alle esigenze mutevoli della collettività, è vincolato da limiti costituzionali e convenzionali (in particolare dalla CEDU, art. 1 Prot. 1). La pubblica utilità deve essere espressa, motivata e non può risolversi in un mero vantaggio economico dell’ente.
L’art. 63 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (“Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo”), introduce una disciplina speciale a favore dei consorzi di sviluppo industriale, attribuendo loro il potere di “riacquistare” la proprietà delle aree cedute a imprenditori o artigiani che non abbiano realizzato lo stabilimento entro il termine di cinque anni dalla cessione, o che abbiano cessato l’attività da oltre tre anni.
La ratio evidente è quella di evitare fenomeni di immobilizzazione speculativa delle aree industriali, garantendo la costante destinazione produttiva dei suoli e la reindustrializzazione delle aree, in funzione dell’interesse pubblico allo sviluppo economico e all’occupazione.
La disciplina si articola su più livelli:
La giurisprudenza qualifica il potere di riacquisto dei consorzi come potestà ablativa pubblicistica, distinta dal potere ordinario di espropriazione, ma anch’essa incidente sul diritto di proprietà. Si tratta di un potere che si esercita unilateralmente, sulla base di presupposti oggettivi (inadempimento dell’obbligo produttivo, cessazione dell’attività), e che determina un effetto traslativo coattivo.
La procedura è semplificata rispetto al modello ordinario: non richiede una nuova dichiarazione di pubblica utilità, in quanto la destinazione industriale dell’area è già insita nel piano regolatore territoriale e nei provvedimenti di perimetrazione consortile. Il bene è già “conformato” all’interesse pubblico.
Nel caso deciso dalla Cassazione nel 2024, il privato aveva acquisito due distinte porzioni di terreno:
A fronte dell’inadempimento degli obblighi produttivi, il Consorzio avviava il procedimento di “riacquisto” delle aree ai sensi dell’art. 63 L. 448/1998, adottando provvedimenti ablativi e determinando l’indennità secondo il “prezzo attualizzato di acquisto”.
Il privato contestava sia la legittimità della procedura (ritenendola inapplicabile alle aree non acquistate dal Consorzio), sia la quantificazione dell’indennità, assumendo la necessità di applicare la disciplina ordinaria dell’espropriazione.
Le principali questioni affrontate riguardano:
La Cassazione conferma che la procedura di riacquisto ex art. 63 L. 448/1998 ha natura ablativa, assimilabile all’espropriazione per pubblica utilità, seppur con peculiarità marcate. Si tratta, infatti, di un potere pubblico che consente la sottrazione coattiva della proprietà privata per finalità di interesse generale (riattivazione produttiva, prevenzione di usi speculativi).
La pubblica utilità risulta “insita” nella destinazione industriale dell’area e nel piano di sviluppo consortile, rendendo superflua una nuova dichiarazione. Ciò distingue la procedura dal modello ordinario, in cui la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera è atto indefettibile.
Il potere ablativo è subordinato a precisi presupposti:
La finalità è quella di evitare che aree destinate a insediamenti produttivi rimangano inutilizzate o siano oggetto di speculazione edilizia.
La Cassazione (e parte della dottrina) valorizza la natura pubblicistica del potere, che si esercita unilateralmente, con effetti traslativi, e si accompagna alla determinazione autoritativa dell’indennità.
Uno dei punti più controversi riguarda l’applicabilità della disciplina del riacquisto anche ad aree non cedute dal Consorzio, ma acquisite dal privato da terzi.
Secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza amministrativa, la facoltà di riacquisto può essere esercitata solo con riferimento alle aree cedute dal Consorzio, non a quelle acquisite dal privato in regime di libero mercato. Il termine “riacquisto” presupporrebbe, infatti, una precedente titolarità del bene da parte del Consorzio e una cessione originaria.
Questa lettura si fonda su un’interpretazione letterale e sistematica della norma, e sulla necessità di evitare un’estensione eccessiva dei poteri ablativi in assenza di garanzie procedurali tipiche dell’espropriazione ordinaria.
Al contrario, la Cassazione e parte della giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato) adottano un’interpretazione estensiva, ritenendo che la disciplina si applichi anche alle aree inserite nei piani consortili, ancorché non oggetto di cessione diretta da parte del Consorzio ma acquisite dal privato da terzi.
Secondo tale ricostruzione, la ratio della norma è garantire la destinazione produttiva dell’intera area industriale, a prescindere dal titolo di acquisto, evitando vuoti produttivi e speculazioni. L’interesse pubblico alla funzionalità delle zone industriali prevarrebbe sull’interesse individuale, ferma restando la necessità di corrispondere una indennità.
Uno dei profili più delicati riguarda la quantificazione dell’indennità spettante al privato.
Nella disciplina speciale, il criterio è quello del “prezzo attualizzato di acquisto”, ossia il prezzo pagato dal privato (al Consorzio o a terzi), rivalutato secondo indici ISTAT fino alla data dell’acquisizione.
Questo criterio si discosta dal modello ordinario del TU Espropri, che prevede la determinazione dell’indennità secondo il “valore venale” del bene, ossia il valore di mercato al momento dell’esproprio. La differenza può essere significativa, specie in aree soggette a rivalutazione nel tempo.
La ratio della scelta legislativa è evitare che il privato possa conseguire vantaggi speculativi dalla cessione, ma la disciplina pone problemi di compatibilità con i principi costituzionali (art. 42 Cost., “giusta indennità”) e convenzionali (art. 1 Prot. 1 CEDU), specie quando vi sia una notevole differenza tra il prezzo storico e il valore attuale di mercato.
La giurisprudenza della Cassazione sembra accettare la specialità del criterio, valorizzando la natura pubblicistica e la funzione disincentivante rispetto a condotte speculative.
La procedura di riacquisto è ispirata a principi di semplificazione:
La Cassazione chiarisce che la competenza della Corte d’Appello in unico grado, prevista dal TU Espropri per le controversie sull’indennità, non si estende alle procedure speciali di riacquisto, che seguono regole proprie.
La materia è segnata da un persistente dualismo interpretativo tra chi ritiene il potere di riacquisto dei consorzi una forma speciale (e più snella) di espropriazione per pubblica utilità, e chi lo vede come un potere autonomo, con presupposti e limiti propri.
La dottrina restrittiva teme il rischio di un potere ablativo troppo penetrante, capace di incidere su diritti di soggetti che abbiano acquisito l’area in buona fede e fuori da logiche speculative. All’estremo opposto, la dottrina estensiva valorizza l’interesse pubblico alla costante destinazione produttiva delle aree, sottolineando che l’inserimento in area industriale comporta già una “conformazione pubblicistica” del bene.
Un punto critico è rappresentato dalle garanzie procedurali in favore del privato. L’assenza di una dichiarazione di pubblica utilità “ad hoc”, il criterio restrittivo per l’indennità e la semplificazione delle forme potrebbero determinare compressioni eccessive della tutela proprietaria.
La giurisprudenza, tuttavia, tende a ritenere sufficiente la garanzia offerta dalla possibilità di opposizione e di ricorso al giudice, nonché dalla predeterminazione dei criteri indennitari.
L’ampiezza del potere di riacquisto attribuito ai consorzi incentiva l’effettiva e costante utilizzazione produttiva delle aree, scoraggiando fenomeni di accaparramento e immobilismo. Tuttavia, impone agli operatori economici una particolare attenzione nella valutazione delle condizioni di acquisto e nella programmazione degli investimenti.
La possibilità di “riacquisto” anche per aree non originariamente cedute dal Consorzio può creare incertezza sul mercato immobiliare, in quanto il privato acquirente potrebbe vedersi privato del bene in assenza di comportamenti colpevoli. Da qui l’importanza di una puntuale informazione e del rispetto delle condizioni imposte dai piani consortili.
Un ruolo centrale è attribuito agli strumenti urbanistici e ai piani consortili, che determinano l’assoggettamento delle aree a vincolo pubblicistico e la possibilità di esercizio del potere ablativo.
La disciplina del potere di riacquisto dei consorzi industriali rappresenta un esempio significativo di procedimento ablativo speciale, che si affianca e in parte si sovrappone all’espropriazione ordinaria per pubblica utilità. La giurisprudenza – specie la pronuncia della Cassazione qui commentata – sembra orientata a valorizzare l’interesse pubblico sotteso all’istituto, estendendo l’ambito di applicazione della disciplina speciale e accettando criteri indennitari differenti da quelli ordinari.
Restano, tuttavia, aperti numerosi interrogativi: dal bilanciamento tra interesse pubblico e tutela della proprietà, alla compatibilità dei criteri indennitari con i principi costituzionali e convenzionali, alle garanzie minime da assicurare al privato.
In una prospettiva di riforma, potrebbe essere opportuno: