L’espropriazione per pubblica utilità è uno degli istituti centrali nel diritto amministrativo e urbanistico, fondato su un delicato bilanciamento tra l’interesse collettivo alla realizzazione di opere pubbliche e la tutela della proprietà privata, costituzionalmente garantita. L’attenzione della giurisprudenza e della dottrina si concentra, da sempre, sul modo in cui vengono determinati il valore del bene espropriato, le indennità spettanti al proprietario e sulle modalità di valutazione di vincoli urbanistici, archeologici o paesaggistici che possono incidere su tale valore.
L’ordinanza della Cassazione n. 24122/2024 affronta in modo esemplare questi temi, offrendo spunti di riflessione su questioni chiave come la rilevanza dei vincoli archeologici nella determinazione dell’indennità, la differenza tra vincoli conformativi e vincoli assoluti, la metodologia di calcolo in caso di espropriazione parziale e il ruolo della consulenza tecnica d’ufficio.
L’art. 42 della Costituzione sancisce la proprietà privata come diritto riconosciuto e garantito dalla legge, ma ammette che essa possa essere espropriata per motivi di interesse generale, con il pagamento di una giusta indennità. Questo equilibrio tra interesse pubblico e diritto individuale si traduce nella necessità di un procedimento trasparente, di un adeguato ristoro economico e di tutele processuali effettive.
Il d.P.R. 327/2001 disciplina in modo dettagliato le fasi dell’espropriazione:
Il testo unico regola anche le modalità di stima, i criteri di calcolo per le indennità e la tutela giurisdizionale del proprietario.
Nel caso affrontato dalla Cassazione, un gruppo di proprietari proponeva opposizione avverso la stima dell’indennità di acquisizione sanante ex art. 42 bis d.P.R. 327/2001, relativa all’espropriazione di terreni per la realizzazione di un’area verde attrezzata e la valorizzazione di aree circostanti, connessa a un sito di interesse archeologico. L’indennità era stata inizialmente quantificata in una somma che i proprietari ritenevano irrisoria, contestando la valutazione del valore venale delle aree e il mancato riconoscimento di ulteriori danni.
La Corte d’appello, dopo una CTU, riconosceva la potenziale edificabilità delle aree, determinava il valore venale su base sintetico-comparativa e riconosceva anche un deprezzamento delle superfici residue nella misura del 15%.
La Provincia proponeva ricorso per Cassazione, lamentando:
La Cassazione ribadisce un principio fondamentale: nella determinazione dell’indennità di espropriazione occorre distinguere tra vincoli c.d. conformativi (che discendono da scelte generali di pianificazione e incidono su una pluralità di beni) e vincoli preordinati all’esproprio (che colpiscono beni specifici per la realizzazione di una determinata opera pubblica).
Il vincolo archeologico è tipicamente un vincolo conformativo, volto a tutelare interessi culturali e paesaggistici. La sua presenza comporta una compressione dello “ius aedificandi”, ma non rende necessariamente il terreno privo di valore o di potenzialità economiche alternative.
“…l’ammontare dell’indennità va determinato alla data del provvedimento ablatorio, con riferimento al regime urbanistico vigente, tenendo conto di tutti i vincoli a carattere conformativo, e tra questi del vincolo archeologico, che è idoneo a far classificare il terreno come legalmente non edificabile e comporta una compressione dello ‘ius aedificandi’, a salvaguardia di interessi pubblici di natura culturale, da ritenersi legittima alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale…”
(Cass. 24122/2024)
La Cassazione precisa che il vincolo archeologico non è sempre assoluto. La concreta inedificabilità deve essere valutata caso per caso: se il vincolo si collega all’intero sito, integrando un vero e proprio parco archeologico, l’inedificabilità può essere assoluta; se, invece, è compatibile con attività che non pregiudichino la tutela del bene, il terreno può conservare un valore diverso da quello agricolo.
“…il vincolo di inedificabilità di un’area archeologica non può ritenersi sempre assoluto in astratto, potendosi ipotizzare un’attività edificatoria che non pregiudichi la conservazione dei reperti archeologici esistenti sull’area, fermo restando che il giudice di merito, con apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, può ritenere il vincolo assoluto in concreto…”
(Cass. 24122/2024)
La Corte d’appello, accogliendo le conclusioni del consulente, ha riconosciuto la potenziale edificabilità delle aree, stimando il valore venale a 8,06 €/mq, in luogo dei 10 €/mq richiesti. Questo valore è stato determinato secondo il metodo sintetico-comparativo, basato sul confronto con valori di mercato di beni simili, con attenzione alle potenzialità edificatorie e alle reali destinazioni d’uso.
La Cassazione conferma che la stima del valore venale nelle espropriazioni deve essere fondata su criteri oggettivi e trasparenti, valorizzando anche la redditività e i pregi specifici del bene, in coerenza con la normativa vigente e con la giurisprudenza della Corte EDU in tema di “giusta indennità”.
Un altro punto centrale riguarda il riconoscimento del deprezzamento delle aree residue in caso di espropriazione parziale, secondo il cosiddetto metodo differenziale. Questo metodo consente di calcolare il valore della parte espropriata tenendo conto della diminuzione di valore della parte rimasta in proprietà al privato, garantendo così un ristoro pieno del pregiudizio subito.
La Cassazione ribadisce che il metodo differenziale non è l’unico consentito, potendo essere sostituito o integrato da altri criteri, purché sia garantita la compensazione dell’intero pregiudizio patrimoniale subito.
“In tema di espropriazione parziale, il criterio di stima differenziale… non è vincolante, potendo essere sostituito dal criterio che procede al calcolo del deprezzamento della sola parte residua, per poi aggiungerlo alla somma liquidata per la parte espropriata, purché si raggiunga il risultato di compensare l’intero pregiudizio arrecato dall’ablazione alla proprietà residua…”
(Cass. 24122/2024)
La Cassazione richiama i limiti del sindacato di legittimità sulla valutazione delle prove compiuta dal giudice di merito e sulle conclusioni della CTU. Il travisamento della prova può essere dedotto solo quando ci sia una svista oggettiva, mentre le valutazioni discrezionali e le scelte tecniche restano riservate al giudice di merito.
Viene altresì sottolineata la necessità che i motivi di ricorso siano specifici e autosufficienti: il ricorrente deve indicare precisamente i fatti decisivi, trascrivere gli atti rilevanti e allegare la documentazione necessaria.
La Corte considera non specifiche le censure fondate su rilievi degli esperti di parte, se non accompagnate dalla produzione dell’atto amministrativo costitutivo del vincolo o da una chiara allegazione dei fatti storici. In assenza di tale documentazione, non è possibile configurare il vizio di omesso esame di un fatto decisivo.
Il giudizio di Cassazione mostra grande attenzione per la tutela del diritto di proprietà, richiedendo che la compressione di tale diritto sia giustificata da un interesse pubblico effettivo e che il ristoro economico sia congruo. La presenza di vincoli conformativi, seppur legittima, non può tradursi in un sostanziale azzeramento del valore, salvo che il vincolo sia assoluto e insuperabile.
Il caso in esame evidenzia anche il ruolo della pianificazione urbanistica e della tutela dei beni culturali come strumenti di interesse collettivo, ma sottolinea la necessità di un giusto equilibrio: la presenza di un vincolo archeologico non esclude che il bene possa conservare un valore economico significativo, per la sua funzione sociale, turistica o paesaggistica.
L’ordinanza n. 24122/2024 della Cassazione rappresenta un esempio paradigmatico di come la giurisprudenza abbia affinato negli anni i criteri di determinazione dell’indennità per espropriazione alla luce dei vincoli conformativi, delle peculiarità dei beni espropriati e delle esigenze di tutela del diritto di proprietà. Il riconoscimento dell’importanza della valutazione concreta del vincolo, la valorizzazione delle potenzialità economiche residue e la flessibilità dei criteri di calcolo sono elementi centrali per un sistema equilibrato ed efficiente.
A fronte della molteplicità dei casi concreti, la strada maestra resta la cura nella motivazione dei provvedimenti, la valorizzazione delle risultanze tecniche e la chiarezza processuale, strumenti indispensabili per garantire al proprietario un ristoro effettivo e la legittimità dell’azione amministrativa.