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CORTE DI APPELLO DI OMISSIS
OPPOSIZIONE ALLA STIMA
RICORSO
(EX ART. 29 D.LGS. N. 159/2011 ED ART. 54 D.P.R. N. 327/2001)
La societa’ OMISSIS con sede legale in OMISSIS in Via OMISSIS c.f. e p.i. OMISSIS in persona del legale rappresentante p.t. signor OMISSIS rappresentata e difesa nel presente giudizio giusta procura speciale rep. n. OMISSIS del 6.4.2014 per Notaio OMISSIS in OMISSIS (doc. n. 1) dall’Avv. OMISSIS che opera quale procuratore antistatario OMISSIS ed elettivamente domiciliata in OMISSIS presso l’Avv. OMISSIS, spiega il presente giudizio di
OPPOSIZIONE ALLA STIMA
anche nella forma della domanda di determinazione giudiziale della indennita’ di esproprio e di occupazione temporanea
C O N T R O
il PRESIDENTE DELLA REGIONE OMISSIS quale Commissario Delegato ai sensi dell’art.1 comma 2 d.l. n. 74/2012 c.f. OMISSIS.
F A T T O
A seguito dei noti eventi sismici del 20 e del 29 maggio 2012 che hanno interessato il territorio delle province di OMISSIS, con provvedimenti di localizzazione di cui alle ordinanze n. OMISSIS del 10.10.2012, il Presidente della OMISSIS, operando nella qualita’ Commmisario Delegato come previsto dall’art. 1 comma 2 d.l. n. 74/2012, autorizzava l’occupazione in via d’urgenza delle aree destinate alla realizzazione di fabbricati modulari abitativi rimovibili. Tra le aree individuate figurava anche quella gia’ di proprieta’ della ricorrente sita in Comune OMISSIS e distinta in catasto al foglio OMISSIS particella OMISSIS (anziche’ OMISSIS occupata per una superficie di 12.847 mq. (anziche’ di 6.989 mq.), come erroneamente indicato nel relativo verbale dello stato di consistenza e di immissione in possesso redatto in data 19.10.2012 (doc. n. 2).
Con relazione estimativa nota prot. n. OMISSIS del 25.9.2013 (doc. n. 3), l’Agenzia delle Entrate procedeva alla determinazione del valore unitario di mercato ai fini del calcolo della indennita’ provvisoria di esproprio e di occupazione temporanea. In particolare, con la citata relazione, ritenuta la natura non edificabile dell’area di cui trattasi, veniva determinato il valore di mercato nella misura unitaria di euro 6,02 euro/mq., cosi’ espresso alla luce della destinazione urbanistica vigente alla data del sisma del 29.5.2012.
Con nota prot. n. OMISSIS del 17.10.2013 (doc. n. 4), il Commissario Delegato, facendo propri il criterio estimativa e la risultanze della relazione redatta dall’Agenzia delle Entrate, notificava l’offerta della indennita’ provvisoria di esproprio determinata nella misura unitaria di euro 6,02 euro/mq..
Con email del 4.11.2013 (doc. n. 5), la ricorrente segnalava gli errori commessi nella indicazione sia della particella OMISSIS (anziche’ OMISSIS ) sia nella superficie occupata di 12.847 mq. (anziche’ di 6.989 mq.).
Con nota prot. N. OMISSIS del 12.11.2013 (doc. n. 6), il Commissario Delegato informava la ricorrente dell’avvio del procedimento finalizzato alla espropriazione delle aree necessarie alla realizzazione degli interventi emergenziali abitativi.
Con raccomandata del 21.11.2013 (doc. n. 7), la societa’ ricorrente rifiutava l’indennita’ provvisoria offerta.
Infine, con nota prot. n. OMISSIS del 26.3.2014 (doc. n. 8), il Commissario Delegato notificava il decreto di esproprio n. OMISSIS del 28.2.2014 con il quale acquisiva il diritto di proprieta’ dei terreni in catasto al foglio OMISSIS mappali OMISSIS cosi’ individuati a seguito del relativo frazionamento estesi per una superficie di 12.847 mq..
Con il presente giudizio, la ricorrente intende chiedere a codesta Corte di Appello di determinare la giusta indennita’ di esproprio e di occupazione temporanea, da determinarsi nel rispetto della normativa e della giurisprudenza nazionale ma soprattutto della normativa e della giurisprudenza della Cedu.
M O T I V I
Con il ricorso introduttivo del presente giudizio, la societa’ ricorrente ha proposto il giudizio di opposizione alla stima nella forma della domanda di determinazione giudiziale della indennita’ di esproprio e di occupazione temporanea, stante la perdurante mancanza della determinazione in sede amministrativa delle citate indennita’ definitive.
Ai fini di un esatto inquadramento della fattispecie, si rende necessario richiamare l’attenzione sulla relazione al testo unico in materia di espropriazione redatta dal C.d.S. Adunanza Generale del 29.3.2001 (doc. n. 9). A tal fine, appare opportuno precisare preliminarmente che la citata relazione (per l’aspetto che interessa in questa sede e cioe’ la verifica in ordine all’ammissibilita’ o meno della opposizione alla stima di cui all’art. 54 pur in difetto della indennita’ definitiva di esproprio) deve ritenersi tuttora pienamente valida ed efficace. Si rammenta infatti che l’art. 29 d.lgs. n. 150/2011 non ha ne’ abrogato ne’ modificato in alcun punto l’art. 54/1 d.p.r. n. 327/2001, che dunque ha conservato intatto il suo testo originario oggetto della relazione del C.d.S. Adunanza Generale del 29.3.2001.
Cio’ chiarito, con riferimento all’art. 54/1 la richiamata relazione dispone testualmente quanto segue (cfr. punto 36.1).
“I commi 1 e 2 chiariscono che:
Il citato passaggio dunque e inequivoco e chiarissimo.
Con esso, il C.d.S. ha stabilito che il giudizio di opposizione alla stima puo’ essere proposto anche qualora sia ancora mancante la indennita’ definitiva di esproprio (ed in tal caso assume la veste della domanda tesa ad ottenere la diretta determinazione giudiziale delle indennita’), affermando cosi’ il principio esattamente opposto a quello seguito da codesta Corte di Appello.
Peraltro, il passaggio e’ ancora piu’ significativo allorquando si consideri che la relazione dell’Adunanza Generale del 29.3.2001 e’ stata compilata dopo aver sentiti i Consiglieri di Stato Luigi Maruotti, Rosanna De Nictolis e Francesco Caringella i quali, in quanto estensori del testo unico in materia di espropriazione, erano in grado, meglio di ogni altro, di rappresentare quale fosse l’effettiva volonta’ del legislatore ed in particolare quali finalita’ precise la norma fosse preordinata.
Poiche’ la norma era (come in effetti e’) inequivocabilmente diretta a consentire al proprietario che sia stato raggiunto dal decreto di esproprio di rivolgersi immediatamente al giudice per chiedergli “…la diretta determinazione giudiziale dell’indennita’…” anche “…in caso di espropriazione disposta in mancanza di stima…”, ne consegue che deve ritenersi manifestamente ammissibile la presente opposizione alla stima.
Del tutto conforme alla citata interpretazione dell’art. 54/1 d.p.r. n. 327/2001 e’ l’orientamento seguito, tra gli altri, anche dalla Corte di Appello di Salerno che con la sentenza n. 237 del 4.11.2013 (doc. n. 10) ha affermato testualmente quanto segue (cfr. pag. 3):
“Preliminarmente rileva questa Corte che secondo il disposta dell’art. 54 d.p.r. 8.6.2001 n. 327, l’opposizione alla stima va proposta a pena di decadenza entro il termine di trenta giorni decorrenti dalla notifica del decreto di esproprio o dalla notifica dalla stima definitiva, se questa sia successiva al decreto di esproprio.
Nel caso di specie, il decreto di esproprio n. 1 prot. n. 9274 del 27.7.2010 e’ stato emesso allorquando l’ente non aveva ancora provveduto alla determinazione dell’indennita’ definitiva. Pertanto, la presente azione tesa ad ottenere la determinazione giudiziale della indennita’, proposta mediante atto di citazione notificato il 21 gennaio 2011, deve ritenersi ammissibile”.
Conforme anche Corte di Appello di Salerno che con la ordinanza rep. n. 49/13 del 3.5.2013 (doc. n. 11) ha chiarito che “…e’ consolidato insegnamento che per la proponibilita’ dell’opposizione e’ sufficiente la emissione del decreto di esproprio e che il ricorso alla procedura arbitrale e’ meramente facoltativo” (pag. 2 righi 1/4).
Infine, parimenti conforme al citato orientamento e’ anche codesta stessa Corte di Appello di Napoli che con la sentenza del 13.6.2011 (doc. n. 12) ha accordato espressamente al proprietario, una volta emesso il decreto di esproprio, la facolta’ di spiegare il giudizio di opposizione alla stima pur in mancanza della indennita’ di esproprio, affermando testualmente quanto segue (cfr. pag. 4 della sentenza del 13.6.2011):
“Deve inoltre rilevarsi che il soggetto che ha subito l’occupazione (…) puo’ agire per ottenere la determinazione della giusta indennita’ di occupazione senza attendere ulteriori atti, e, in particolare, la comunicazione della stima della p.a.. In sintesi, devono essere dichiarati ammissibili…sia la domanda di determinazione della giusta indennita’ di esproprio, condizionata solo all’emissione del decreto di esproprio, che quella di determinazione della giusta indennita’ di occupazione, condizionata all’immissione in possesso”.
Tanto basta di per se’ per ritenere ammissibile il giudizio di opposizione alla stima spiegato pur in difetto della determinazione della indennita’ definitiva di esproprio.
L’eventuale diversa interpretazione (che sostenesse la necessita’ della previa determinazione della indennita’ definitiva ai fini dellammissibilita’ dell’opposizione alla stima) si porrebbe in diretta violazione con lo stesso art. 29/3 d.lgs. n. 150/2011. Infatti, la citata norma, laddove prevede che “L’opposizione va proposta, a pena di inammissibilità, entro il termine di trenta giorni dalla notifica del decreto di esproprio o dalla notifica della stima peritale, se quest’ultima sia successiva al decreto di esproprio…”, sembra chiaramente orientata a contenere l’operativita’ del termine di decadenza di trenta giorni, ai fini dell’opposizione, all’interno di due ipotesi ben delineate circoscritte:
Come e’ evidente, la norma non contempla direttamente il termine processuale ai fini dell’opposizione alla stima nella diversa ipotesi (oggetto appunto del presente giudizio) caratterizzata dalla notifica del decreto di esproprio intervenuta in mancanza ed in attesa della notifica della indennita’ definitiva di esproprio.
Ritiene questa difesa che la regolamentazione di tale terza distinta fattispecie possa rinvenirsi nell’art. 54/1 d.p.r. n. 327/2001 ed in particolare nella seconda parte della norma laddove essa prevede che “…il proprietario espropriato… può impugnare innanzi all’autorità giudiziaria gli atti dei procedimenti di nomina dei periti e di determinazione dell’indennità, la stima fatta dai tecnici, la liquidazione delle spese di stima e comunque può chiedere la determinazione giudiziale dell’indennità...”.
Si tratta dunque di attribuire il corretto significato all’avverbio “comunque” ed alla espressione “determinazione giudiziale dell’indennita’” utilizzati nella formulazione della parte finale del citato primo comma. Va da se’ che l’interpretazione delle due espressioni letterali deve essere fatta non solo congiuntamente l’una in funzione dell’altra ma anche nel quadro complessivo della norma.
Orbene, si ritiene che il termine “comunque” possa significare anche prima ed anche a prescindere che venga ad esistenza la stima peritale redatta dalla commissione provinciale esproprio o dai tecnici. A sua volta, tale ipotesi (mancata esistenza della stima peritale) comprende necessariamente le due sottoipotesi configurabili e cioe’ sia quella della mancata comunicazione al proprietario dell’avvenuto deposito della stima (art. 54/1 prima parte) sia quella della mancata notificazione della stessa stima peritale (art. 29/3 d.lgs. n. 150/2011).
Cio’ posto, la corretta interpretazione dell’art. 54/1 non puo’ ignorare che la norma contiene due espressioni diverse e distinte:
Si ritiene allora che, ai fini della corretta interpretazione della norma, alla espressione “comunque puo’ chiedere la determinazione giudiziale dell’indennita’” (espressione alla quale pur bisogna attribuire un significato e dalla quale l’interprete non puo’ prescindere e che sembra evocare chiaramente la fattispecie gia’ oggetto della nota sentenza n. 67/1990 della Corte Costituzionale emessa sotto il previgente quadro normativo) debbano coerentemente essere ricondotti un significato ed un contenuto diversi da quelli riconducibili all’altra espressione (parimenti prevista dal primo comma) secondo cui ciascuna delle parti “…puo’ impugnare innanzi all’autorita’ giudiziaria…la stima fatta dai tecnici…” (che sembrerebbe evocare invece l’ipotesi tipica della ordinaria opposizione alla stima). Diversamente, bisognerebbe ammettere (conclusione alla quale e’ pervenuta appunta codesta corte territoriale) che le due espressioni, benche’ formulate in termini e con espressioni del tutto diverse, si riferiscano entrambe alla medesima ed unica fattispecie. Ma e’ evidente che una tale interpretazione si rivela incoerente in quanto non rispettosa dei canoni interpretativi prevista dalla legge (art. 12 preleggi)
Appare invece evidente che la lettera della norma e’ chiaramente orientata ad accordare al proprietario gia’ espropriato la facolta’ di tutelare i suoi diritti, consentendogli di rivolgersi “comunque” al giudice e di chiedergli la “determinazione giudiziale dell’indennita’”, che evidentemente configura una fattispecie diversa e distinta da quella (prevista nello stesso comma) nella quale la parte “…puo’ impugnare innanzi all’autorita’ giudiziaria…la stima fatta dai tecnici…”. In ogni caso, si tratta di una espressione letterale alla quale bisogna pur ricondurre un significato preciso e coerente con il resto della norma.
Ecco allora che pare ragionevole sostenere che l’”incipit” dell’art. 54/1 (“decorsi trenta giorni dalla comunicazione prevista dall’art. 27 comma 2…”) debba intendersi limitato e posto in relazione funzionale solo con la facolta’ dei soggetti interessati che volessero impugnare gli atti dei procedimenti di nomina dei periti e di determinazione della indennita’, la stima fatta dai tecnici e la liquidazione delle spese di stima e non anche invece con la facolta’ di chiedere la determinazione giudiziale dell’indennita’. E’ evidente infatti che dopo che la indennita’ definitiva sia stata gia’ determinata (ipotesi chiaramente evocata dal riferimento fatto dall’art. 54/1 alla comunicazione del suo deposito ai sensi dell’art. 27/2), ha certamente senso prevedere e disciplinare il diritto dei soggetti interessati che ne volessero impugnare il relativo procedimento di determinazione e/o la misura (come si desume chiaramente dalle parole “…il proprietario espropriato…puo’ impugnare gli atti…di determinazione dell’indennita’, la stima fatta dai tecnici…”).
Ma, con altrettanta coerenza, bisogna riconoscere che non sarebbe ne’ logico ne’ ragionevole (quanto meno perche’ del tutto superfluo e non preordinato alla tutela di alcun diritto e/o interesse pubblico) prevedere il diritto dei soggetti interessati a rivolgersi al giudice e chiedergli di voler determinare in sede giudiziale l’indennita’ di esproprio (come si desume dalle parole “…comunque puo’ chiedere la determinazione giudiziale dell’indennita’”), dopo che questa fosse gia’ venuta a giuridica esistenza per essere stata gia’ determinata dalla commissione provinciale espropri ovvero dal collegio dei tecnici.
Tanto premesso, non puo’ sfuggire all’interprete che, nella formulazione dell’art. 54/1 (laddove si fa riferimento alla facolta di chiedere comunque la determinazione giudiziale dell’indennita’) sono troppo evidenti i riferimenti alla nota sentenza n. 67/1990 con cui la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimita’ del previgente art. 19 legge n. 865/1971 nella parte in cui, pur dopo l’avvenuta espropriazione, non consentiva al proprietario di agire in giudizio per la determinazione giudiziale dell’indennita’, pur in mancanza delle relazione di stima prevista dagli artt. 15 e 16 della legge n. 865/1971.
Ecco allora che la corretta interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 54/1 d.p.r. n. 327/2001 (laddove fosse necessario farne ricorso) deve indurre ad affermare che l’opposizione alla stima deve ritenersi ammissibile se proposta (entro il termine ordinario di prescrizione decennale dalla notifica del decreto di esproprio) anche in presenza del solo decreto di esproprio e pur in mancanza della indennita’ definitiva [ipotesi comprensiva sia della mancanza della comunicazione del deposito della stima peritale (art. 54/1 d.p.r. n. 327/2001) sia a maggior ragione della ipotesi della notifica della stima peritale (art. 29/3 d.lgs. n. 150/2011)]. Diversamente opinando, l’esercizio della difesa dei diritti indennitari del proprietario, benche’ gia’ danneggiato per essere stata la proprieta’ gia’ trasferita per effetto della emissione del decreto di esproprio, risulterebbe “sine die” condizionato nell’”an” e nel “quando” alla discrezionale (se non arbitraria) valutazione dell’autorita’ amministrazione (dapprima) nel richiedere o meno la determinazione della indennita’ definitiva di esproprio alla competente commissione provinciale e (successivamente) nell’invio della relativa comunicazione dell’intervenuto deposito al proprietario ed infine nella notificazione della relazione estimativa.
In altri termini, la corretta interpretazione della norma deve condurre alla affermazione del principio che il proprietario gia’ espropriato, spogliato del bene, non puo’ essere costretto a dover attendere la determinazione dell’indennita’ definitiva per poter agire in giudizio. Cio’ perche’, se – come spesso avviene – l’indennita’ definitiva fosse determinata con grande ritardo o, peggio ancora, non fosse mai determinata, il proprietario rimarrebbe definitivamente privo della possibilita’ di esercitare ogni tutela a difesa dei suoi diritti e dunque privo di ogni indennizzo. Va da se’ che una tale interpretazione si porrebbe in aperta violazione delle norme sia della costituzione (art. 3, art. 24 ed art. 42) sia della Convenzione Europea (art. 6 ed art. 1 protocollo 1).
Ecco allora che la citata previsione normativa, contenuta nella parte finale del primo comma del citato art. 54 (“comunque puo’ chiedere la determinazione giudiziale dell’indennita’”) deve ritenersi del tutto indipendente dalla prima parte del primo comma, nel senso che il proprietario gia’ espropriato potra’ chiedere la determinazione giudiziale della indennita’ sia prima della comunicazione del deposito della stima peritale (art. 27/2) ed a maggior ragione sia anche prima della notifica della stessa (art. 29/3 d.lgs. n. 150/2011). Infatti, l’avverbio “comunque” indica che tale azione specifica (nelle forma della richiesta della determinazione giudiziale) e’ esperibile anche prima del deposito della relazione definitiva dei tecnici o della commissione provinciale.
Si insiste dunque nel sostenere che “la determinazione giudiziale dell’indennita’” rappresenta un’azione specifica e speciale accordata dall’ordinamento al proprietario gia’ espropriato il quale, con essa, potra’ chiedere al giudice di determinare direttamente egli stesso in sede giudiziaria la indennita’ di esproprio e di porre cosi’ rimedio all’inadempimento dell’autorita’ espropriante che abbia omesso e/o ritardato di attivarsi per la determinazione in sede amministrativa della indennita’ definitiva ad opera della commissione provinciale. Con l’azione specifica della “determinazione giudiziale dell’indennita’”, il giudice si sostituisce all’autorita’ espropriante inadempiente e la indennita’ di esproprio determinata giudizialmente all’esito della causa si sostituisce alla indennita’ definitiva di esproprio che doveva essere determinata in sede amministrativa. Ecco allora che la previsione di cui all’art. 54/1 d.p.r. n. 327/2001 vuole evitare che proprio la mancanza della indennita’ definitiva possa impedire al proprietario che sia stato gia’ espropriato di chiedere al giudice una pronuncia sul suo diritto ad avere la giusta indennita’ di esproprio. Diritto il cui esercizio, diversamente, resterebbe interdetto (ove fosse indispensabile anche l’esistenza della indennita’ definitiva) a causa dell’inerzia della pubblica amministrazione.
Nel contempo, nella diversa ipotesi invece in cui l’indennita’ definitiva fosse stata gia’ determinata e comunicata (art. 27/2 d.p.r. n. 327/2001), il proprietario espropriato potrebbe spiegare l’azione tipica della ordinaria opposizione alla stima di contestazione della misura della indennita’ di esprioprio (“…puo’ impugnare innanzi all’autorita’ giudiziaria…la stima fatta dai tecnici…”).
Una volta determinata in sede amministrativa la indennita’ definitiva di esproprio, l’autorita’ espropriante e’ chiamata ad approntare due diversi adempimenti dai quali scaturiscono effetti e termini diversi. In particolare, l’autorita’ espropriante:
Orbene, con riferimento al primo adempimento, l’invio della comunicazione dell’intervenuto deposito della stima peritale obbliga il proprietario a rispettare il termine dilatorio di trenta giorni prima di poter proporre l’azione ordinaria di opposizione alla stima, necessariamente nella forma tipica della impugnazione della indennita’ definitiva (“…puo’ impugnare innanzi all’autorita’ giudiziaria…la stima fatta dai tecnici…”).
Con riferimento invece al secondo adempimento, la notifica della stima peritale obbliga il proprietario a proporre il giudizio (tipico) di opposizione alla stima entro il termine perentorio di trenta giorni.
Ma va da se’ (ed e’ questo il passaggio risolutivo) che la mancanza della comunicazione del deposito della stima peritale ed a maggior ragione la mancanza della notifica della stima peritale causate dalla perdurante mancanza della stima stessa perche’ non ancora determinata, non possono certo impedire al proprietario di chiedere “comunque” la “determinazione giudiziale della indennita’”.
E’ appena il caso di precisare che il fatto che l’opposizione alla stima (nella forma della “determinazione giudiziale della indennita’”) sia proponibile anche prima che sia determinata la stima definitiva della indennita’ esproprio (dalla commissione provinciale o dai tecnici) non significa che il proprietario possa rivolgere la sua opposizione avverso la stima provvisoria dell’indennita’ in quanto tale. In realta’, quest’ultima non e’ una vera e propria stima (non essendo il risultato di una valutazione fatta dal soggetti terzi ed indipendenti quali la commissione provinciale o i tecnici) ma assolve esclusivamente alla funzione di consentire la sua accettazione e la conseguente cessione bonaria dell’immobile espropriando. Una volta che non sia stata condivisa dal proprietario, la indennita’ provvisoria perde ogni funzione e l’opposizione alla stima proposta dal proprietario dopo la stima provvisoria ma prima di quella definitiva (ancora inesistente) non e’ in realta’ una vera a propria “opposizione alla stima”. A ben vedere, non si tratta in questo caso di un tipico giudizio oppositorio (perche’ una stima tecnica ancora non esiste) ma bensi’ di un giudizio libero, finalizzato semplicemente a determinare giudizialmente ed a stabilire l’esatto ed il giusto ammontare della indennita’ di espropriazione. Esattamente cioe’ nei termini previsti dall’art. 54/1 d.p.r. n. 327/2001.
L’unica condizione richiesta dalla norma e’ ovviamente l’esistenza del decreto di esproprio (come emerge dalla espressione “proprietario espropriato”) poiche’ e’ con il decreto che il proprietario perde il diritto di proprieta’ che si converte nel diritto alla relativa indennita’. Sotto tale profilo, il decreto di esproprio costituisce notoriamente una condizione dell’azione di opposizione alla stima. Tale conclusione deve ritenersi valida anche con riferimento al quadro normativo vigente dopo la modifica apportata dall’art. 29 d.lgs. n. 150/2011.
Da un primo esame della fattispecie, emerge immediatamente che il passaggio nodale del presente giudizio e’ rappresentato dal criterio che sara’ scelto per l’accertamento della sussistenza o meno della edificabilita’ legale del terreno espropriato.
E’ noto che l’art. 10 (“Ulteriori misure per la ricostruzione e la ripresa economica nei territori colpiti dagli eventi sismici del maggio 2012”) d.l. 22.6.2012 n. 83 ha previsto quanto segue:
In conformita’ al criterio stabilito dal citato art. 10/4 d.l. n. 83/2012:
Intanto, appare opportuno premettere che, stando alla stretta interpretazione dell’art. 10/4 d.l. n. 83/2012, solo “L’indennità di provvisoria occupazione o di espropriazione è determinata dai Commissari delegati entro dodici mesi dalla data di immissione in possesso, tenuto conto delle destinazioni urbanistiche antecedenti la data del 29 maggio 2012”.
In assenza dunque di alcun utile appiglio normativo, non pare ammissibile sostenere che le destinazioni urbanistiche antecedenti la data del 29 maggio 2012 debbano vincolare anche la determinazione della indennita’ definitiva di esproprio e di occupazione temporanea determinata sia dalla commissione provinciale espropri sia (a maggior ragione) dal giudice.
Fermo restando quanto premesso, la completezza di indagine impone tuttavia di precisare ed aggiungere che la citata normativa emergenziale contiene, tra i numerosi altri, un elemento di grave criticita’ che ne impedisce l’applicazione pacifica e non problematica.
Si intende far riferimento in particolare alla previsione dell’art. 10/3 d.l. n. 83/2012 il quale ha previsto quanto segue:
“L’approvazione delle localizzazioni di cui al comma 2, se derogatoria dei vigenti strumenti urbanistici, costituisce variante degli stessi e produce l’effetto della imposizione del vincolo preordinato alla espropriazione. Le aree destinate alla realizzazione dei moduli temporanei dovranno essere soggette alla destinazione d’uso di area di ricovero” (comma 3 prima parte).
Va da se’ che il descritto provvedimento di localizzazione (se derogatorio) da una parte costituisce variante agli strumenti urbanistici (e sotto questo profilo esso produce chiaramente un effetto conformativo) e dall’altro parte produce contemporaneamente l’effetto della imposizione del vincolo preordinato alla espropriazione (e sotto questo profilo esso ha chiara natura espropriativa). Cosicche’, ai fini della determinazione della indennita’ di esproprio, mentre la normativa nazionale esclude coerentemente ogni possibilita’ che possa farsi riferimento al vincolo preordinato all’esproprio, nel caso specifico la normativa emergenziale esclude addirittura anche la possibilita’ di fare riferimento al vincolo conformativo, imponendo cosi’ che l’accertamento della edificabilita’ legale sia fatto con riferimento ad un momento non piu’ attuale e risalente nel tempo ad epoca addirittura antecedente all’avvio dello stesso procedimento di esproprio. Cosi’ facendo, il <vulnus> al diritto di proprieta’ emerge in tutta la sua imponenza, rievocando vecchie problematiche che si pensava fossero state definitivamente superate (Corte Costituzionale n. 5/1980).
1.2) quanto alla normativa ed alla giurisprudenza nazionale (in materia di individuazione del momento storico di individuazione della edificabilita’ legale)
Se dunque appare con sufficiente chiarezza che l’intento prioritario del legislatore emergenziale fosse quello di contenere la spesa pubblica [spostando artificiosamente indietro nel tempo (alla data del sisma del 29.5.2012) il momento stabilito ai fini della sussistenza della edificabilita’ legale e/o di fatto], tuttavia con altrettanta chiarezza il criterio estimativo prescelto rivela numerose e gravi criticita’ sul piano della compatibilita’ con la normativa nazionale ed europea.
In particolare, solleva dubbi inquietanti il riferimento imposto alla destinazione urbanistica pregressa rispetto momento dell’esproprio, risalente addirittura alla situazione previgente all’avvio dello stesso procedimento di esproprio.
In sostanza, nella fattispecie, per effetto della previsione dell’art. 10/4 d.l. n. 83/2012, la pubblica amministrazione ha stabilito che puo’ legittimamente ritenere non edificabili (e dunque indennizzarli come tali) terreni che essa ha invece espropriato per destinarli ad interventi di edilizia residenziale privata. Sono dunque troppo evidenti i richiami alle questioni che confluirono nella notissima sentenza n. 5/1980 della Corte Costituzionale.
Si noti che l’art. 37 d.p.r. n. 327/2001 prevede che “Ai soli fini dell’applicabilità delle disposizioni della presente sezione, si considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione, esistenti al momento dell’emanazione del decreto di esproprio o dell’accordo di cessione…”
Emerge immediatamente che la citata norma ha finito per recepire, attribuendone ora fonte e veste normativa, il principio gia’ affermato dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 442/1993 (emessa a conclusione di una lunga e coerente evoluzione giurisprudenziale) secondo cui “L’art. 42, comma terzo Costituzione esige che l’indennizzo espropriativo – per non risultare astratto – sia quantificato tendenzialmente tenendo conto delle caratteristiche del bene espropriato nel momento in cui il proprietario ne è privato, e non già delle pregresse, ma non più attuali caratteristiche del bene stesso…”.
Si aggiunga altresi’ che anche la pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione fornisce utili contributi a conferma del citato principio.
“Il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 442/93, ha infatti evidenziato che una lettura costituzionalmente orientata della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 3 impone di interpretarlo ne senso che l’indennità debba essere quantificata tenendo conto delle caratteristiche dell’area espropriata al momento in cui il proprietario ne è privato, e non al momento di apposizione del vincolo preordinato all’esproprio. E questa Corte, in coerenza con tale pronuncia, ha costantemente affermato che l’accertamento delle possibilità legali ed effettive di edificazione del suolo ablato prescinde dall’incidenza del vincolo preordinato all’esproprio, ma tiene conto del regime urbanistico dell’area alla data di adozione del decreto di espropriazione o di consumazione del fatto acquisitivo (Cass. S.U. n. 818/99, nonchè, fra molte, Cass. nn. 5909/05, 7755/04, 11729/03, 9808/03 e, in fattispecie di occupazione acquisitiva, Cass. n. 6635/02)” (Cass. 26.7.2012 n. 13286).
“Per dare concreta attuazione alla regola della ricognizione e della destinazione legale delle aree introdotta dalla legge n. 359/1992 art. 5 bis (ed ora definitivamente recepita dalle disposizioni degli artt. 32 e 37 del T.U. sulle espropriazioni approvato con d.p.r. n. 327 d.p.r. n. 327/2001), nonchè ai principi sui vincoli di inedificabilità posti dalla nota sentenza 179/1999 della Corte Costituzionale questa Corte, dopo iniziali perplessità e le successive difficoltà per la individuazione dell’ambito di applicazione dei relativi istituti, ha recepito un sistema, ormai del tutto consolidato, che si articola attraverso le seguenti coordinate: 1) un’area va ritenuta edificabile soltanto se, e per il solo fatto che, come tale, essa risulti classificata al momento della vicenda ablativa dagli strumenti urbanistici, secondo un criterio di prevalenza o autosufficienza della edificabilità legale (Cass. 3146/2006; 3838/2004; 10570/2003)” (Cass. 6.4.2012 n. 5631).
(conformi ex multis Cass. 5.7.2012 n. 11274; Cass. 3.2.2012 n. 1594; Cass.19.10.2011 n. 21637; Cass. 27.6.2011 n. 14127; Cass. 19.10.2011 n. 21637; Cass. 16.9.2011 n. 18964; Cass. 1.9.2011 n. 17988; Cass. 8.10.2009 n. 21395).
Il principio che i beni espropriati debbano essere indennizzati secondo il loro effettivo valore venale era gia’ previsto dalla Convenzione Europea per la Salvaguardia del Diritti dell’Uomo e sistematicamente ribadito dalla giurisprudenza della Corte Europea.
L’art. 1 Protocollo n. 1 addizionale alla C.E.D.U. cosi’ testualmente recita:
“Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suo beni.
Nessuno puo’ essere privato della sua proprieta’ se non per causa di pubblica utilita’ e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso di beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.
E’ noto che l’art. 1 del Protocollo n. 1 della invocata convenzione contiene tre distinti principi:
Le tre regole non sono comunque “distinte” e cio’ comporta la necessita’ di una lettura coordinata. La seconda e la terza regola sono collegate con la particolare facolta’ di interferenza con il diritto di godere pacificamente della proprietà e dovrebbero per questo essere reinterpretate alla luce del principio generale enunciato dalla prima regola (confronta tra gli altri James e altri c. Regno Unito, sentenza 21 febbraio 1986, Serie A n. 98-B, pp. 29-30, § 37, seguendo i termini della analisi delle Corti nel caso Sporrong e Loennhroth c. Svezia, sent. 23 settembre 1982, serie A n. 52, p.24, §61; cfr. I Monasteri Santi c. Grecia, sent. 9 dicembre 1994, serie A n. 301, p. 31, § 56; e ancora Iatridis c. Grecia n. 31107/96 § 55 ECHR 1999-Il).
Ritiene dunque questa difesa che (l’apparente) conflitto tra la normativa emergenziale (art. 10/4 d.l. n. 83/2013 secondo cui “L’indennità di provvisoria occupazione o di espropriazione è determinata dai Commissari delegati entro dodici mesi dalla data di immissione in possesso, tenuto conto delle destinazioni urbanistiche antecedenti la data del 29 maggio 2012”) e quella ordinaria (art. 37 d.p.r. n. 327/2001 secondo cui “Ai soli fini dell’applicabilità delle disposizioni della presente sezione, si considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione, esistenti al momento dell’emanazione del decreto di esproprio o dell’accordo di cessione…”) possa e debba trovare composizione attraverso l’applicazione diretta nell’ordinamento ad opera del giudice italiano sia delle norme della Convenzione Europea sia dei relativi principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte Europea (che, come e’ noto, ha la stessa forza cogente delle norme della convenzione).
A tal fine, si espone di seguito il relativo percorso argomentativo.
E’ noto che in data 1.12.2009 e’ entrato in vigore il Trattato di Lisbona che e’ stato ratificato dallo Stato Italiano con la legge 2.8.2008 n. 130.
L’art. 1 n. 8 del Trattato di Lisbona ha modificato l’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea e del Trattato che istituisce la Comunita’ Europea e pertanto l’attuale formulazione dell’indicato art. 6 ora prevede testualmente:
“1. L’Unione riconosce i diritti, le liberta’ e i principi sanciti nella Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000 adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati.
I diritti, le liberta’ e i principi della Carta sono interpretati in conformita’ delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni.
La citata novita’ normativa si rivela particolarmente importante poiche’ essa ha comportato una modifica (verso l’alto) della fonte di diritto a tutela della proprieta’: mentre infatti in precedenza i diritti fondamentali (e dunque anche la proprieta’) trovavano la loro tutela in una convenzione internazionale (la Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo) la cui applicazione nell’ordinamento (secondo l’orinetamento piu’ restrittivo) era subordinata al rispetto delle condizioni previste dalla sentenza n. 348/2007 della Corte Costituzionale, ora invece quegli stessi diritti fondamentali trovano tutela in un trattato internazionale (il Trattato di Lisbona) le cui previsioni sono immediatamente e direttamente applicabili nell’ordinamento, anche grazie alla cessione di parte della propria sovranita’ nazionale che ogni stato contraente ha operato sottoscrivendo il trattato.
Ecco allora che i diritti fondamentali gia’ previsti dalla C.e.d.u. in materia di tutela del diritto di proprieta’, ora fanno parte dei principi generali del Trattato sull’Unione Europea e del Trattato istitutivo della Comunita’ Europea e pertanto in quanto tali devono essere applicati direttamente nell’ordinamento nazionale, con disapplicazione delle norme interne con esse confliggenti, come avviene per tutte le norme comunitarie.
Infine e per l’effetto, e’ appena il caso di precisare che al giudice italiano e’ ora consentito (anzi, imposto) di procedere alla applicazione diretta nell’ordinamento nazionale non solo delle norme della Convenzione Europea ma anche dei principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte Europea, posto che essi hanno notoriamente la stessa efficacia e la stessa valenza giuridica delle norme della convenzione. A tal fine e’ sufficiente richiamare la giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia.
“Ne’ va sottaciuto che la particolare autorevolezza della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo risulta ad oggi ulteriormente avvalorata dalla rinnovata e diretta incidenza sul piano interno delle disposizioni della relativa Convenzione, e cio’ in forza del combinato disposto della nuova formulazione dell’art. 6 del Trattato dell’Unione Europea conseguente dalle modifiche apportate con il Trattato di Lisbona (cfr. ivi, commi 2 e 3: <L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali. …>; <I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali>) e dell’art. 117 primo comma costituzione come sostituito dall’art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 (<La potesta’ legislativa e’ esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonche’ dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali>)” (C.d.S. sezione IV 11.9.2012 n. 4808).
Appare utile aggiungere altresi’ che gia’ con la nota sentenza n. 347/2007, la Corte Costituzionale ebbe a tracciare un percorso interpretativo diretto alla composizione del conflitto tra norme nazionali e norme della Convenzione Europea stabilendo i principi di cui in seguito.
“Lo scrutinio di legittimità costituzionale deve essere condotto in modo da verificare se vi sia contrasto non risolvibile in via interpretativa tra la norma censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte Europea ed assunte come fonti integratrici del parametro di costituzionalità di cui all’art. 117, 1° comma, Cost. e se le norme della CEDU invocate come integrazione del parametro, nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano”.
“La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, pur essendo dotata di una particolare natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali non assume, in forza dell’art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale né può essere parificata, a tali fini, all’efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno. Il dovere di rispettare gli obblighi internazionali fissato dall’art. 117, primo comma, Cost., introdotto dalla L.Cost. n. 3/2001, incide sul contenuto della legge statale e non attiene soltanto all’ambito dei rapporti tra lo Stato e le Regioni”.
Cio’ premesso, va subito precisato che tali principi appaiono oggi superati perche’ essi devono oggi essere rivisti e rivisitati alla luce del nuovo quadro normativo internazionale sopraggiunto a seguito del Trattato di Lisbona di cui si e’ detto precedenza. Infatti, ora l’art. 6/3 del Trattato sull’Unione Europea prevede testualmente che “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta’ Fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Percio’ oggi (contrariamente a quanto non era consentito fare alla Corte Costizionale nell’anno 2007) si deve poter affermare che la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e’ in grado di spiegare direttamente nell’ordinamento interno la medesima efficacia prodotta dal diritto comunitario. Del resto, la riprova di tale tesi si coglie nella gia’ evocata giurisprudenza del Consiglio di Stato che, proprio successivamente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha propugnato apertamente la “…rinnovata e diretta incidenza sul piano interno delle disposizioni della…Convenzione…” Europea (ex multis C.d.S. sezione IV 11.9.2012 n. 4808 gia’ citata).
In conclusione, appare immediatamente che il criterio estimativo previsto dalla normativa emergenziale (art. 10/4 d.l. n. 84/2012 secondo cui “L’indennità di provvisoria occupazione o di espropriazione è determinata dai Commissari delegati entro dodici mesi dalla data di immissione in possesso, tenuto conto delle destinazioni urbanistiche antecedenti la data del 29 maggio 2012” ) non e’ in grado di reggere il confronto con il principio generale (secondo cui l’indennita’ di esproprio e’ pari al valore di mercato) sabilito sia dall’art. 37 d.p.r. n. 327/2001, sia dall’art. 42 Costituzione sia infine dall’art. 1 Protocollo 1 Addizionale alla Cedu.
E’ evidente infatti che nella norma censurata manca il “ragionevole legame” con il valore venale prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e il “serio ristoro” richiesto dalla giurisprudenza costituzionale. La indennita’ di esproprio che la normativa emergenziale ha inteso riconoscere al proprietario rappresenta oggettivamente un elemento “…del tutto sganciato dall’effettivo valore di mercato del bene ed attinge risultati marcatamente lontani da esso, al punto da arrivare alla pratica vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà” (Corte Costituzionale n. 348/2007).
Cio’ premesso, si tratta dunque di attribuire efficacia ed applicazione diretta nell’ordinamento (tra tutte le numerose sentenze) alla nota pronuncia n. 24638/94/2003 emessa in esito al caso Carbonara e Ventura contro Italia con la quale la CEDU (facendo proprie le motivazione le conclusioni articolate dalla c.t.u. la quale si era limitata a constatare che sui fondi espropriati era stato costruito un edificio destinato a scuola) ha stabilito che l’utilizzazione del terreno espropriato in termini e per finalita’ edificatorie costituisce di per se’ motivo sufficiente ad integrare gli estremi della edificabilita’ legale.
La conclusione appare del resto coerente con le esigenze di tutela del diritto di proprieta’, per effetto delle quali non appare ammissibile che la pubblica amministrazione possa espropriare la proprieta’ privata in vista della edificazione di strutture, complessi e manufatti destinati a finalita’ residenziale (privata), indennizzandola sulla base del valore di aree non edificabili (anche a prescindere dal soggetto a favore del quale sia riservata la relativa iniziativa edilizia). Diversamente, restera’ non raggiunto l’obiettivo (che la Cedu ha sempre perseguito) del bilanciamento degli interessi opposti in capo alle parti interessate dal procedimento di esproprio.
E’ noto che la giurisprudenza assolutamente pacifica della Corte di Cassazione ha stabilito che la sola circostanza che i terreni espropriati siano inclusi nel piano p.e.e.p. e/o nel p.d.z. e’ di per se’ sufficiente ad integrare gli estremi ed a soddisfare tutte le condizioni richieste ai fini della edificabilita’ legale. Il principio ovviamente deve ritenersi valido per tutte le aree comprese all’interno del medesimo comprensorio e/o piano unitario, a prescindere dalla specificazione destinazione delle singole aree [edificazione, ovvero viabilita’ (strade, piazze, parcheggio) piuttosto che zone verde e/o servizi] (sul punto vedi infra).
Si ritiene dunque che, stante l’elevato grado di assimilabilita’ della espropriazione oggetto del presente giudizio (in quanto diretta a realizzare insediamenti residenziali privato) con quella relativa ai piani p.e.e.p e/o p.d.z., possa farsi ragionevole riferimento alla giurisprudenza di legittimita’ che in merito ha stabilito quanto segue:
“La sentenza impugnata ha accertato che gli immobili T., al momento della occupazione temporanea ricadevano in un piano di zona; e tanto bastava per affermarne la destinazione edificatoria essendo del tutto irrilevante accertare quale fosse stata quella pregressa attribuita dal P.R.G.: se a centro direzionale e fieristico con prospettive edificatorie, come ritenuto dalla sentenza, ovvero a verde pubblico, perciò inedificabile, come prospettato dall’amministrazione comunale. Ciò in quanto questa Corte fin dalla note sentenze 11433/1997 e 125/2001, rese a sezioni unite, ha enunciato il principio ormai del tutto consolidato, che il P.E.E.P. rientra in un disegno normativo volto a consentire che l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare sia inquadrato in uno strumento urbanistico più ampio, sicchè esso non può essere in contrasto con un precedente piano urbanistico generale, di cui costituisce pur sempre l’attuazione nella versione originaria o in quella modificata dal P.E.E.P., che del P.R.G. ha effetto di variante. Pertanto, il fatto stesso che un terreno sia compreso nel P.E.E.P. ed in esso abbia destinazione all’edilizia economica e popolare, che del P.R.G. costituisce attuazione o variante, è di per sè elemento giustificativo del legale carattere edificatorio del terreno medesimo, sia pure nei limiti che il P.E.E.P. consente…” (Cass. n. 13617 del 4.6.2010).
“Devono, infatti, essere ribaditi i condivisi principi di diritto, gia’ ripetutamente affermati da questa Corte (tra le numerose altre, cfr Cass. 2007/12771; 2006/19128; 2004/03838), secondo cui “L’indennita’ di espropriazione dovuta al proprietario di un fondo, incluso in un piano di zona per l’edilizia economica e popolare come area edificabile, va determinata secondo il criterio previsto dalla legge n. 359/1992 art. 5 bis comma 1 a nulla rilevando che al momento dell’imposizione del vincolo preordinato all’esproprio il fondo stesso avesse, secondo le originarie previsioni del piano regolatore generale, destinazione agricola”, e secondo cui “l’acquisto del carattere di edificabilita’ avviene in virtu’ della variante introdotta dal piano attuativo, che in tale parte va considerato strumento programmatorio e conformativo” (Cass. n. 5174 del 3.3.2010).
“la destinazione di una zona, nel piano regolatore generale, ad edilizia residenziale comporta l’affermazione della natura intrinsecamente edificabile a fini abitativi della zona, a nulla rilevando che la previsione di piano contempli per essa l’iniziativa pubblica. Anche i piani di edilizia economica e popolare – cosiddetti p.c.c.p. – sono infatti piani di edilizia residenziale ad iniziativa pubblica (giacche’ le aree su cui sorgeranno i fabbricati sono espropriate dal comune, e sono successivamente assegnate agli operatori o in diritto di proprieta’, oppure in diritto di superficie), senza che questo sia di ostacolo al riconoscimento dell’edificabilita’ legale delle aree che vi sono incluse” (Cass. 27.2.2009 n. 4817).
“Cosi’ argomentando, detto Giudice ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui l’inclusione di un’area nel piano di zona per l’edilizia economica e popolare (P.C.C.P.), la’ dove quest’ultimo risulti in vigore al momento dell’emanazione del decreto di esproprio o, come nella specie, della stipula dell’atto di cessione volontaria del bene espropriato che di tale decreto tiene luogo, implica di per se’, quand’anche l’originaria zonizzazione del piano regolatore generale, o di altro strumento urbanistico generale (piano di fabbricazione), ne comportasse la qualificazione come suolo agricolo, che l’area stessa abbia acquisito carattere di edificabilita’, atteso che il P.C.C.P., in parte qua, assume consistenza di variante del regime urbanistico generale (contenuto nel piano regolatore o nel piano di fabbricazione) anteriormente vigente e deve, perciò, essere considerato strumento programmatorio e conformativo, del quale occorre tenere conto agli effetti del riconoscimento della natura edificatoria, secondo diritto, del terreno di cui trattasi e della conseguente determinazione della relativa indennità di esproprio o del prezzo della relativa cessione volontaria (Cass. 7 dicembre 2001, n. 15514; Cass. 11 giugno 2002, n. 8330; Cass. 3 giugno 2004, n. 10555; Cass. 26 novembre 2004, n. 22349; Cass. 17 gennaio 2007, n. 1043)” (Cass.16.1.2009 n. 1026 e Cass. 10.1.2008 n. 330)
(conformi ex multis Cass. 17.1.2007 n. 1043; Cass. 7 dicembre 2001, n. 15514; Cass. 11 giugno 2002, n. 8330; Cass. 3 giugno 2004, n. 10555; Cass. 26 novembre 2004, n. 22349; Cass. 17 gennaio 2007, n. 1043; Cass.16.1.2009 n. 1026).
Alla luce dell’evocato indirizzo della giurisprudenza di legittimita’, devono ritenersi del tutto superabili i riferimenti contenuti negli atti di determinazioni e di offerta delle indennita’ espropriative a destinazioni urbanistiche pregresse, risalenti e comunque diverse da quella edificabile.
La configurazione della edificabilita’ legale nei termini appena prospettati comporta, quale diretta conseguenza, che tutte le aree comprese nel medesimo comprensorio (in quanto tutte parimenti partecipi e concorrenti alla realizzazione dell’unica e medesima opera pubblica) debbano essere tutte considerate edificabili nella stessa misura. Tale misura e’ stata individuata nell’indice medio di edificabilita’ territoriale del comprensorio, il quale esprime appunto la capacita’ edificatoria media di tutte le aree, al lordo di quelle libere non direttamente destinate all’attivita’ di edificazioni (quali ad esempio quelle destinate ad ospitare viabilita’, spazi verde, servizi, ecc.). Anche in questo caso ovviamente la tesi dei ricorrenti gode del conforto dei principi stabiliti in materia dalla giurisprudenza di legittimita’ la quale ha stabilito quanto segue:
“Ed è stato anche affermato (Cass.22481 del 2008 e 14939 del 2010) che nella determinazione dell’indennità di espropriazione di un fondo edificabile in base al piano regolatore ed incluso in un piano per l’edilizia economica e popolare, la valutazione delle possibilità legali ed effettive di edificazione va fatta tenendo presente che i volumi realizzabili non possono essere quantificati applicando senz’altro l’indice fondiario di edificabilità, il quale è riferito alle singole aree specificamente destinate alla edificazione privata dallo strumento urbanistico attuativo, ma, poichè ai fini dell’esercizio concreto dello “ius aedificandi” è necessario che l’area sia urbanizzata, occorre tener conto dell’incidenza degli spazi riservati (secondo le prescrizioni dello strumento urbanistico attuativo) ad infrastrutture e servizi di interesse generale; il che può anche essere espresso ricorrendo a indici medi di edificabilità riferiti all’intera zona omogenea. Ne consegue che tutti i terreni espropriati in ambito p.e.e.p. o P.I.P. percepiscono la stessa indennità, calcolata su una valutazione del fondo da formulare sulla potenzialità edificatoria media di tutto il comprensorio, vale a dire dietro applicazione di un indice di fabbricabilità (territoriale) che sia frutto del rapporto fra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato, mentre l’indice fondiario trova piena applicazione ove l’area da valutare sia collocata in comprensorio già totalmente urbanizzato, per il quale, dunque, non è necessario lo strumento urbanistico attuativo, ancorchè previsto dal piano regolatore generale” (Cass. 1.3.2013 n. 5221).
<Secondo la giurisprudenza di questa corte, infatti, “l’edificabilita’ del fondo deve necessariamente essere commisurata ad indici “medi” di fabbricabilita’ riferiti (o riferibili) all’intera zona omogenea, al lordo dei terreni da destinarsi a spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato, nel senso che, ove non si ritenga di stimare il terreno ricorrendo a criteri comparativi basati sul valore di aree omogenee, l’adozione del metodo analitico – ricostruttivo comporta che l’accertamento dei volumi realizzabili sull’area non possa basarsi sull’indice fondiario di edificabilita’ (che e’ riferito alle singole aree specificamente destinate all’edificazione privata) e che, invece, postulando l’esercizio concreto dello ius aedificandi che l’area sia urbanizzata e, che si tenga conto dell’incidenza degli spazi all’uopo riservati ad infrastrutture e servizi a carattere generale, si debba prescindere come dal fatto che l’area sia (eventualmente) destinata ad usi che non comportano specifica realizzazione di opere edilizie (verde pubblico, viabilità, parcheggi) non potendo l’edificabilita’ essere vanificata dalla utilizzatalita’ non strettamente residenziale, cosi’ dalla maggiore o minore fabbricabilita’ che il fondo venga a godere o subire per effetto delle disposizioni di piano attinenti alla collocazione sui singoli fondi di specifiche edificazioni ovvero servizi ed infrastrutture, di guisa che tutti i terreni espropriati in uno stesso ambito zonale vengano a percepire la stessa indennita’, calcolata su una valutazione del fondo da formulare sulla potenzialita’ edificatoria “media” di tutto il comprensorio, ovvero dietro applicazione di un indice di fabbricabilita’ territoriale che sia frutto del rapporto tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e spazi liberi o, comunque, non suscettibili di edificazione per il privato” (Cass. sez. 1^ 29 novembre 2006 n. 25363; Cass. sez. un. 21 marzo 2001 n. 125; Cass. sez. 1^ 16 maggio 2006 n. 11477; Cass. sez. 1^ 16 giugno 2006 n. 13958)> (Cass. SS.UU. n. 11729 del 14.5.2010).
“…allorquando il valore venale di un fondo debba determinarsi in base al suo valore di trasformazione (cosidetto metodo analitico – ricostruttivo), deve essere recepito l’indice che individua la densita’ territoriale della zona (e non quello relativo alla densita’ fondiaria), soltanto questo includendo nel calcolo la percentuale di spazi pubblici gravanti sul fondo espropriato; e trattandosi di un terreno incluso in un piano di zona l’edificabilita’ deve commisurarsi ad indici medi di fabbricabilita’, correlati (o correlabili) al totale della superficie al lordo dei terreni da destinarsi e spazi liberi (Cass. 2349/2004; n. 555/2004; begin_of_the_skype_highlighting n. 555/2004end_of_the_skype_highlighting; n. 25/2001)” (Cass. n. 14755 del 18.6.2010).
(conformi ex multis Cass. n. 14939 del 21.6.2010; Cass. n. 13087 del 28.5.2010; Cass. 29.10.2008 n. 25986; Cass. 3.6.2004 n. 10555; Cass. n. 11621/2002 e Cass. n. 9062/2002).
2.1) quanto al valore di mercato di terreni edificabili
Una volta accertata la natura edificabile del terreno espropriato per effetto della argomentazione prospettata in precedenza, si puo’ passare a trattare la quantificazione del relativo valore di mercato.
L’indennita’ di esproprio deve essere determinata nel rispetto dei principi stabiliti dall’art. 1 Protocollo 1 addizionale alla CEDU, dall’art. 42 della costituzione, dalla sentenza n. 348/2007 della Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza di legittimita’ in materia di corretta determinazione del valore di mercato ed ovviamente dell’art. 37 d.p.r. n. 327/2001 (“Ai soli fini dell’applicabilità delle disposizioni della presente sezione, si considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione, esistenti al momento dell’emanazione del decreto di esproprio o dell’accordo di cessione…”).
… (segue perizia di parte) (doc. n. )
2.2) quanto alla indennita’ determinata ai sensi della sentenza n. 181/2011 della Corte Costituzionale
In via del tutto subordinata, qualora si ritenesse di non poter condividere la tesi della natura edificabile, alla ricorrente spetta in ogni caso il valore di mercato del terreno, quantunque determinato secondo il criterio stabilito dalla nota sentenza n. 181/2011 della Corte Costituzionale.
E’ importante notare che il piu’ recente orientamento della Corte di Cassazione, abbandonando l’inziale indirizzo, ha ora affermato invece che la pronuncia della Corte Costituzionale ha in sostanza comportato il riconoscimento di “tertium genus” tra suoli che godono o meno della prerogativa della edificabilita’, consentendo che quelli non edificabili vengano valutati in base a criteri oggettivi, idonei a premiarne utilizzazioni alternative, purche’ comunque non rapportabili all’edificazione.
E’ dunque appena il caso di precisare che nella fattispecie il valore intermedio ragguagliabile al “tertium genus” appare oggettivamente circostanziabile allorquando si consideri che il terreno espropriato ben poteva essere utilizzato (con esclusione della edificazione) nell’esercizio dell’attivita’ commerciale ed imprenditoriale dalla ricorrente opera nel settore dell’edilizia [attivita’ di costruzione edilizie in genere, nonche’ compravendita permuta e gestione di terreni e fabbricati sia civili che industriali, lavori di terra con eventuali opere connesse ed accessorie, impianti tecnologici e speciali, impianti e lavori dell’edilizia scorporati dall’opera principale, ecc., come risulta piu’ analiticamente indicato dal certificato di iscrizione alla camera di commercio (doc. n. 9)].
“Va aggiunto tuttavia che, dopo la declaratoria di incostituzionalità della L. n. 359 del 1992, art. 5-bis, comma 4, che rinviava alla L. 22 ottobre 1971, n. 865, artt. 15 e 16 (Corte cost. 11.6.2011, n. 181), deve applicarsi il criterio generale della L. n. 2359 del 1865, art. 39, consentendosi ai proprietari di dimostrare che il fondo, pur senza raggiungere i livelli dell’edificabilità, abbia un’effettiva e documentata valutazione di mercato che rispecchi possibili e consentite utilizzazioni intermedie tra quella agricola e quella edificabile (parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti, ecc.). La pronuncia della Corte costituzionale ha in sostanza comportato il riconoscimento di un tertium genus tra suoli che godono o meno della prerogativa della edificabilità, consentendo che quelli non edificabili vengano valutati in base a criteri oggettivi, idonei a premiarne utilizzazione alternative, purchè, comunque, non rapportabili all’edificazione (Cass. 10.2.14 n. 2959): sicchè, attraverso il sistema indennitario delle aree non edificabili viene in considerazione l’iniziativa privata non strettamente commisurata alla rendita di trasformazione dei suoli. L’indennizzo dei suoli non edificabili è dunque sganciato dal valore agricolo medio, e consente la valorizzazione in base alle caratteristiche oggettive, che tengano conto di loro possibili utilizzabilità economiche, ulteriori e diverse da quelle agricole, consentite dalla normativa vigente e conformi agli strumenti di pianificazione urbanistica, previe le opportune autorizzazioni amministrative (Cass. 28.5.2012, n. 8442)” (Cass. 14.5.2014 n. 10460).
“Il sistema di indennizzo per le aree edificabili, tuttavia, non è più fondato sul penalizzante criterio del valore agricolo medio, di cui alla L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 16. Quest’ultima norma è stata dichiarata incostituzionale (ed anche il comma 4 dell’art. 5-bis) dalla sentenza Corte cost. 11.6.2011, n. 181, che in sostanza ha rimesso l’indennità alla valutazione del mercato, senza tuttavia equiparazione con i suoli edificabili. La pronuncia ha in sostanza comportato il riconoscimento di un tertium genus tra suoli che godono o meno della prerogativa della edificabilità, consentendo che quelli non edificabili vengano valutati in base a criteri oggettivi, idonei a premiarne utilizzazione alternative, purchè, comunque, non rapportabili all’edificazione: sicchè, attraverso il sistema indennitario delle aree non edificabili viene in considerazione l’iniziativa privata non strettamente commisurata alla rendita di trasformazione dei suoli. L’intervento della Corte Costituzionale ha sganciato l’indennizzo dei suoli non edificabili dal valore agricolo medio, e ne ha consentita la valorizzazione in base alle caratteristiche oggettive, che tengano conto di loro possibili utilizzabilità economiche, ulteriori e diverse da quelle agricole, intermedie tra le stesse e quelle edificatorie (quali parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti), consentite dalla normativa vigente e conformi agli strumenti di pianificazione urbanistica, previe le opportune autorizzazioni amministrative (Cass. 28.5.2012, n. 8442).
L’iniziativa privata del proprietario può ben esplicarsi nei margini consentiti dalle scelte urbanistiche, nel rispetto della destinazione dei suoli configurata dagli strumenti territoriali. Ove si renda necessaria l’espropriazione, la conseguente indennità terrà conto della potenziale redditività del terreno quale fattore di produzione, ma sempre nei limiti segnati dalle scelte urbanistiche.
La questione indennitaria, pur ancora condizionata dal prioritario e fondamentale dilemma edificabilità-non edificabilità, ammette, ove non vi siano spazi di riconoscimento alla rendita di trasformazione del suolo, che sia dato rilievo ad una vasta gamma di attività umane che sul territorio si sviluppano, nell’intento premiale della libertà di iniziativa privata.
L’acquisizione della consapevolezza della limitatezza della “risorsa territorio”, prospetta un ripensamento radicale sull’uso del suolo, non prioritariamente destinato all’edificazione, ma votato all’uso della collettività quale fattore di miglioramento dei servizi e di innalzamento della qualità della vita, anche ove destinato alla semplice conservazione. Le future attività di uso, anche non invasivo, del territorio, sono al momento indifferenziatamente sintetizzabili in un tertium genus, la cui casistica verrà elaborata dalla giurisprudenza dei prossimi anni, e che nell’ottica indennitaria saranno sempre più distaccati dalla penalizzante considerazione tradizionale della natura agricola quale ineluttabile alternativa alla trasformazione del suolo in senso edilizio. La scorporo dalla proprietà di uno spazio libero non può dunque essere compensato in base all’espressione volumetrica in senso edilizio, che non è ammessa, bensì attraverso il riferimento potenzialmente remunerativo, all’uso non edilizio, come pregiudicata minore vivibilità e utilizzabilità della proprietà nel suo complesso, dato l’uso legittimo cui la stessa sia destinata (ad es., come nella specie, a casa di riposo per anziani, in cui l’indisponibilità di uno spazio verde renderebbe meno confortevole la dimora), senza peraltro che nella valutazione del pregiudizio entrino in gioco aspetti imprenditoriali, che sono estranei alla tutela della proprietà (Cass. n. 2424 del 31/01/2008; n. 8229 del 06/04/2009)” (Cass. 16.4.2014 n. 8873).
… (segue perizia di parte) (doc. n. 2)
2.3) quanto al danno aziendale
Come gia’ prospettato nel precedente punto 2.2), la espropriazione del terreno di cui trattasi (in quanto suscettibile di essere utilizzato nell’esercizio delll’attivita’ imprenditoriale) ha comportato anche un danno aziendale in termini di pregiudizio all’attivita’ commerciale.
Si premette che che questa difesa ben conosce l’orientamento in materia della Corte di Cassazione la quale esclude la possibilita’ che il proprietario possa chiedere anche i danni prodotti dalla espropriazione all’esecizio dell’attivita’ imprenditoriale.
“Le future attività di uso, anche non invasivo, del territorio, sono al momento indifferenziatamente sintetizzabili in un tertium genus, la cui casistica verrà elaborata dalla giurisprudenza dei prossimi anni, e che nell’ottica indennitaria saranno sempre più distaccati dalla penalizzante considerazione tradizionale della natura agricola quale ineluttabile alternativa alla trasformazione del suolo in senso edilizio. La scorporo dalla proprietà di uno spazio libero non può dunque essere compensato in base all’espressione volumetrica in senso edilizio, che non è ammessa, bensì attraverso il riferimento potenzialmente remunerativo, all’uso non edilizio, come pregiudicata minore vivibilità e utilizzabilità della proprietà nel suo complesso, dato l’uso legittimo cui la stessa sia destinata (ad es., come nella specie, a casa di riposo per anziani, in cui l’indisponibilità di uno spazio verde renderebbe meno confortevole la dimora), senza peraltro che nella valutazione del pregiudizio entrino in gioco aspetti imprenditoriali, che sono estranei alla tutela della proprietà (Cass. n. 2424 del 31/01/2008; n. 8229 del 06/04/2009)” (Cass. 16.4.2014 n. 8873).
“Nell’ipotesi di espropriazione parziale, qualora risulti impedito l’ulteriore svolgimento di un’impresa che utilizzava l’immobile espropriato per l’esercizio della propria attività, la determinazione dell’indennità deve essere effettuata secondo il criterio dettato dalla legge 25.6.1865 n. 2359 art. 40 (“… differenza tra il giusto prezzo che avrebbe avuto l’immobile avanti l’occupazione e il giusto prezzo che potrà avere la residua parte di essa dopo l’occupazione”), senza che abbia rilievo il reale pregiudizio rappresentato dall’impossibilità di proseguire la precedente attività imprenditoriale. L’espropriazione di un’area agricola non si estende, infatti, al diritto dell’imprenditore sui beni utilizzati per l’esercizio dell’impresa, nè all’azienda organizzata; e la relativa indennità non può quindi superare, in nessun caso, il valore determinabile con l’applicazione del criterio legale (Cass., sez. 1, 6 aprile 2009 n. 8229; Cass., sez. 1, 31 gennaio 2008, n. 2424)” (Cass. 3.3.2011 n. 5147)
“Come hanno infatti chiarito le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. 8.6.1998 n. 5609) e come ha confermato la giurisprudenza successiva, l’indennita’ di espropriazione non puo’ superare in nessun caso il valore determinabile con l’applicazione del criterio legale, senza che abbia rilievo il reale pregiudizio che il proprietario od altro titolare di minore diritto di godimento risentono come effetto dal non potere ulteriormente svolgere, mediante l’uso dello stesso immobile, la precedente attivita’. Ne consegue che, estinto il diritto di proprieta’, ove risulti impedito sul luogo l’ulteriore svolgimento dell’impresa che utilizzava gli immobili per fornire i propri servizi, l’espropriazione non si estende al diritto dell’imprenditore su di essi, si’ che il valore del bene espropriato debba comprendere quello dell’azienda in se considerata, quale complesso funzionale organizzato, risultante da una pluralita’ di elementi. Pertanto, nel caso di espropriazione di terreno destinato a parcheggio a servizio di struttura alberghiera, le perdite aziendali lamentate dall’espropriato non sono suscettibili di indennizzo, e l’applicazione del criterio legale previsto nel caso di espropriazione parziale e’ sufficiente a compensare la perdita subita (…), assumendo le perdite aziendali rilevanza autonoma rispetto alla perdita dominicale solo nella diversa ipotesi di espropriazione di azienda agricola legge 22.10.1971 n. 865 ex art. 16 (Cass. 31.1.2008 n. 2424; conf. Cass. 21.5.2007 n. 11782).
In altri termini nella determinazione del valore venale della res oggetto di espropriazione, secondo il criterio dettato dalla legge n. 2359/1965 art. 40, occorre tener presente la differenza tra l’area espropriata, comprensiva degli edifici che vi insistono, e l’azienda. Il pregiudizio che il proprietario o il titolare di altro diritto sul bene subisce per non poter piu’ esercitare l’impresa in quel luogo non e’ oggetto di indennizzo, perche’ l’indennita’ di espropriazione e’ commisurata al valore venale del bene, non dell’azienda. Di conseguenza le costruzioni esistenti sull’area vanno considerate nel loro valore in se’, non per il diverso valore che esse possono avere in rapporto alla particolare destinazione connessa all’attivita’ d’impresa e dunque alla circostanza di essere adibite a sede dell’azienda, facendo parte, secondo la definizione dettata dall’art. 2555 c.c. del complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.
Si sottraggono al principio ora esposto soltanto le res che per loro natura hanno carattere di bene produttivo, quali le cave e le miniere. Per tali beni, infatti, si e’ affermato che il reddito correlato alla estrazione del materiale per tutto il tempo della sua prevista utilizzabilita’ costituisce il razionale riferimento ai fini indennitari per l’ablazione (Cass. 6.11.1999 n. 12354 in tema di cava) ovvero che occorre considerare i proventi che l’espropriato sarebbe stato in grado di ricavare, in una libera contrattazione, per effetto dell’esercizio dell’attivita’ estrattiva (Cass. 25.7.2006 n. 16983 in tema di miniera).
Al di fuori di queste ipotesi, occorre distinguere il valore in se’ dell’area o del fabbricato e delle attrezzature che su di essa insistono, in ragione delle loro specifiche caratteristiche, da quello connesso all’esercizio di attivita’ produttiva o commerciale, che non e’ insita nella res, si’ che non puo’ venire in considerazione l’incidenza dell’esercizio dell’impresa, sia esso attuale o potenziale, sul prezzo di mercato del bene, che va stabilito con riferimento alla res in quanto tale. Ne deriva che, come hanno affermato le Sezioni Unite di questa Corte, quando sull’immobile espropriato siano stati costruiti edifici ed installate attrezzature al fine di imprimergli – in tutto o in parte – una destinazione industriale, l’espropriazione dell’immobile si estende a tutto quanto vi si presenti stabilmente impiantato, e, per la parte in cui gli immobili espropriati presentino destinazione industriale, essi devono essere in tal modo valutati, per stabilirne il valore venale, nell’ambito in cui cio’ rilevi ai fini del criterio indennitario applicabile (Cass. 5609/98). Tale valutazione pero’ non può essere effettuata avendo riguardo alla redditivita’ dell’impresa che su quell’area e con quegli edifici ed attrezzature e’ stata esercitata, ma al bene in se’, sia pur tenuto conto della sua destinazione oggettiva” (Corte di Cassazione 6.4.2009 n. 8229).
“L’indennita’ di espropriazione e’ unica, ed essendo destinata a tener luogo del bene espropriato, non puo’ superare in nessun caso il valore che esso presenta, in considerazione della sua concreta destinazione, ed il termine di riferimento per la sua determinazione e’ rappresentato dal valore di mercato del bene espropriato quale gli deriva dalle sue caratteristiche naturali, economiche e giuridiche, e soprattutto dal criterio previsto dalla legge per apprezzarle, e non anche dal reale pregiudizio che il proprietario od altro titolare di minore diritto di godimento risentono come effetto dal non potere ulteriormente svolgere mediante l’uso dello stesso immobile la precedente attivita’…” (Cass. 21.5.2007 n. 11782 e conforma Cass. 13.2.2009 n. 3651).
Radicalmente diverso appare invece lo scenario qualora si volesse inquadrare la questione del danno cosiddetto aziendale nell’ambito della normativa prevista dalla C.e.d.u.. In tal caso infatti, all’imprenditore che – quale soggetto proprietario – fosse danneggiato dalla espropriazione, la giurisprudenza pacifica della Corte Europea e’ orientata ad accordare una tutela decisamente piu’ ampia di quella accordata (melius: denegata) dalla normativa e dalla giurisprudenza italiana.
La giurisprudenza della Corte Europea – in netta e dichiarata contrapposizione a quella della Corte di Cassazione italiana – tende a riconoscere in maniera ampia ed incondizionata tutti i diritti dei cittadini che siano sacrificati in maniera diretta o indiretta dalla espropriazione.
Nell’ipotesi cui (come appunta nella fattispecie) un’attivita’ produttiva fosse costretta a subire una limitazione forzosa a seguito dell’espropriazione, tutti i relativi danni possono essere indennizzati mediante apposito giudizio dinanzi alla Corte Europea. Tale conclusione trova conferma nella giurisprudenza della Corte Europea la quale – nell’affrontare le questioni giuridiche connesse alla cosiddetta occupazione appropriativi o accessione invertita a seguito di occupazione illegittima – ha tuttavia formulato una serie di principi di carattere generale suscettibili di circolare liberamente nell’ambito della tutela del diritto di proprieta’ prevista dall’art. 1 protocollo 1 addizionale alla c.e.d.u..
Numerosissime sono le sentenze emessa in materia (tra cui a titolo esemplificativo si indicano Scordino – Italia 29.3.2006; Acciardi – Italia 12.10.2005; Carbonara e Ventura – Italia 12.12.2003).
La citata giurisprudenza ha stabilito in particolare che tutti i cittadini (proprietari dei beni direttamente colpiti dalla espropriazione) hanno diritto ai sensi della convenzione di vedersi riconosciuto (e garantire) l’integrale ristoro e risarcimento di tutti i danni da determinarsi nella misura della loro effettiva consistenza, ivi espressamente compreso il “danno aziendale” (consistente nella cessazione e/o riduzione dell’attivita’) prodotto all’imprenditore quale conseguenza diretta dell’espropriazione.
Ad ulteriore conferma dei principi di cui sopra, si rende necessario soffermare l’attenzione sulla recente sentenza del 26.4.2011 emessa dalla CEDU (su patrocinio di questa difesa), particolarmente significativa per via della evidente identita’ della fattispecie. In particolare, la sentenza ha stabilito che spetta l’integrale risarcimento di tutti i danni causati all’imprenditore (quantunque soggetto terzo non destinatario della espropriazione) che, a causa della espropriazione degli immobili (fabbricato ed area) utilizzati a titolo di locazione nell’esercizio dell’attivita’ commerciale (beni di cui dunque non era proprietario perche’ appartenenti al soggetto destinatario della espropriazione).
La citata sentenza si rivela particolarmente significativa allorquando si consideri che il soggetto ricorrente danneggiato non era il proprietario del fondo espropriato su cui egli esercitava l’attivita’ commerciale danneggiata dall’esproprio, ma soltanto l’affittuario.
Nella citata fattispcecie, la CEDU ha stabilito:
Ne consegue allora che all’imprenditore (quantunque soggetto non destinatario della espropriazione e non proprietario dei beni espropriati utilizzati nell’esercizio dell’attivita’ commerciale) che abbia a subire un danno e/o un limitazione nella gestione aziendale per via della mancata disponibilita‘ degli immobili causata dalla espropriazione, spetta comunque il relativo risarcimento dei danni da individuarsi sia nel fermo e/o rallentamento dell’attivita’ commerciale, sia nei costi necessari a reperire sul mercato altro immobile idoneo a continuare l’esercizio dell’attivita’ commerciale, sia nei costi di trasferimento dell’azienda, ecc..
La problematica relativa alla efficacia ed alla applicabilita’ diretta nell’ordinamento nazionale delle norme della Convenzione Europea e dei principi stabiliti dalle sentenze della Corte Europea e’ stata gia’ trattata nel precedente paragrafo 1.3) al quale per brevita’ si rimanda.
Si rende ora necessario affrontare la questione in ordine alla applicabilita’ o meno nella fattispecie del criterio indennitario previsto dall’art. 2 commi 89 e 90 della legge 24.12.2007 n. 244 introdotta a seguito delle note sentenze della Corte Costituzionale n. 348/2007 e n. 349/2007. Precisamente, i commi citati prevedono:
Cio’ premesso, ritiene questa difesa che la fattispecie oggetto del presente giudizio sfugga all’applicazione della riduzione del 25 % prevista dalla normativa citata, in conformita’ ai principi affermati in materia dalla giurisprudenza di legittimita’. In particolare, la Corte di Cassazione ha ormai da tempo stabilito che gli estremi che integrano e caratterizzano gli interventi di riforma economico – sociale:
“Resta poi da formulare, per mera completezza (stante la ridetta inapplicabilità dello jus superveniens), l’assorbente rilievo per il quale, anche applicando l’art. 37, comma 1 novellato alla espropriazione di cui trattasi, una espropriazione, quale quella in disamina, disposta per realizzare interventi di edilizia convenzionata non può ritenersi diretta ad attuare interventi di riforma economico – sociale, i quali devono riguardare l’intera collettività o parti di essa geograficamente o socialmente predeterminate ed essere quindi attuati in forza di una previsione normativa che in tal senso li definisca: ed in tal senso è lecito argomentare dall’impianto motivazionale di S.U. 5265 del 2008…
Peraltro ogni dibattito sul punto è superato dall’insegnamento di questa corte (Cass. 16 marzo 2012 n. 4210), per il quale il fine di riforma economico sociale connota una particolare qualità di fini di utilità pubblica, perseguiti in un dato momento storico, e perciò devoluta esclusivamente – non già al potere discrezionale dell’amministrazione espropriante, e neppure all’interpretazione del giudice in caso di opposizione giudiziale alla stima dell’indennità, ma – al legislatore, al quale soltanto spetta di decidere (nel rispetto dei vincoli individuati dalla giurisprudenza costituzionale e comunitaria) se e quando avvalersi del potere di prevedere una riduzione del tipo prefigurato dalla norma.” (Cass. 28.5.2012 n. 8445).
“Si tratta all’evidenza di una particolare qualità di fini di utilità pubblica perseguiti in un dato momento storico e perciò devoluta esclusivamente (non già al potere discrezionale dell’amministrazione espropriante, nonchè all’interpretazione del giudice di merito in caso di opposizione giudiziale alla stima dell’indennità, ma) al legislatore…” (Cass. 16.3.2012 n. 4210).
“Ne’ infine e’ applicabile lo jus superveniens costituito dalla legge n. 244/2007 art. 2 commi 89 e 90 in base ai quali “Quando l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico – sociale, l’indennita’ e’ ridotta del venticinque per cento”, in ogni caso ratione temporis, dato che la norma di diritto intertemporale di cui al comma 90 prevede una limitata, retroattività della nuova disciplina, con riferimento solo “ai procedimenti espropriativi”e non anche ai giudizi in corso (Cass. sez. un. 5269/2008, nonchè 11498/2008); sia per il fatto che l’espropriazione in oggetto non rientra in quest’ultima categoria individuata da quest’ultima normativa, bensi’ nella prima generale ipotesi per la quale anch’essa dispone “che l’indennita’ di espropriazione di un’area edificabile e’ determinata nella misura pari al valore venale del bene (così Cass. 14939 del 2010)” (Cass. 22.8.2011 n. 17462 e in termini testuali Cass. 20.6.2011 n. 13456).
(conformi Cass. 21.6.2010 n. 14939; Cass. 18.6.2010 n. 14755; Cass. 1.6.2010 n. 13399; Cass. 4.2.2009 n. 2712).
Ma c’e’ un argomento destinato a sgombrare il campo dagli equivoci.
Ne’ puo’ sottacersi infatti che la notissima sentenza emessa in esito al caso Scordino c/o Italia (ric. n. 36813/97 del 29.3.2006), la stessa Grande Chambre della Corte Europea Diritti dell’Uomo ha affrontato e risolto con grande chiarezza i principi in questione, stabilendo in particolare che nell’ipotesi di espropriazione per la realizzazione di un piano di edilizia residenziale economica e popolare, il proprietario conserva integro il diritto ad avere il valore venale del bene ablato senza alcuna riduzione della indennita’ di esproprio, atteso che la realizzazione del piano p.e.e.p. non integra gli estremi dell’intervento di “riforme economico sociali”.
Anche nelle sentenze Stornaiuolo c/o Italia dell’8.8.2006 e Mason c/o Italia del 24 luglio 2007 la CEDU ha definito la realizzazione di alloggi di edilizia economica e popolare come espropriazione isolata estranea a riforme economico sociali.
La conclusione e’ immediata ed inevitabile: se dunque la stessa Corte Europea ha gia’ chiarito e stabilito che le espropriazioni finalizzate alla realizzazione del piano p.e.e.p. non si inquadrano nell’ambito delle riforme economico – sociali, allora per la stessa ragione deve essere parimenti esclusa dalla stessa categoria anche l’esproprio di cui trattasi per la realizzazione del piano di zona in una frazione del Comune di Cavezzo (trattandosi manifestamente di esproprio isolato).
2.5) quanto al fondamento del diritto alla indennita’ di occupazione legittima
Il diritto della societa’ opponente trova il suo fondamento normativo negli art. 49 e 50 d.p.r. n. 327/200 i quali prevedono che al proprietario spetti una indennita’ per il relativo periodo di occupazione temporanea. Si tratta notoriamente di una indennita’ per un danno legittimamente causato dalla p.a. consistente nella compressione del diritto dominicale e/o nella perdita del possesso e del godimento del bene occupato. Infatti, il provvedimento di occupazione temporanea preordinata all’espropriazione di un immobile privato attribuisce immediatamente alla p.a. il diritto di disporne allo scopo di eseguire l’opera pubblica ed incide in misura corrispondente sui poteri dominicali del titolare del bene, privandolo (temporaneamente) in tutto o in parte delle facolta’ di godimento. Per cio’ stesso la legge attribuisce al proprietario un indennizzo volto a compensarlo, ex art. 42 costituzione, per tutta la durata dell’indisponibilita’ del bene fino all’esproprio. La causa petendi e’ necessariamente ravvisabile ex art. 42 costituzione nell’indennizzo che il precetto costituzionale ha attribuito al proprietario per compensarlo della compressione del sacrificio imposto al suo diritto dominicale.
Proprio questo meccanismo e’ stato recepito d.p.r. n. 327/2001 (art. 49 ed art. 50) per tutte indistintamente le categorie di occupazione temporanea: percio’ divenuto sinonimo del relativo indennizzo.
“In presenza di legittimo procedimento di occupazione e di esproprio, il sistema prevede un nesso, logico ed economico, che per la legge lega, sempre e comunque, tutte le indennita’ (sia di espropriazione che di occupazione legittima), con la conseguenza che le disposizioni attinenti alle indennita’ di occupazione provvisoria legittima, poiche’ tendono al ristoro del reddito perduto durante l’occupazione del bene, non possono che fissare l’entita’ delle indennità di occupazione in misura strettamente percentuale all’indennita’ di espropriazione parimenti dovuta: quella annuale di “un dodicesimo” corrisponde ad una redditivita’ predeterminata in misura percentuale fissa (8,33% all’anno) dallo stesso legislatore, cui va aggiunto l’aumento del 50% per il concordamento bonario di cui all’art. 12 della legge 22 ottobre 1971, n. 865” (Cass. SS.UU. 25.6.2012 n. 10502).
E’ ben noto il recente orientamento della giurisprudenza di legittimita’ secondo cui in materia di credito di valuta (quale e’ certamente il credito per l’indennita’ di esproprio) spetta, oltre agli interessi legali, anche il maggior danno (Cass. SS.UU. 16.7.2008 n. 19499 e conformi Cass. Sez. III 28.6.2006 n. 14975; Cass. Sez. II 16.3.2006 n. 5860; Cass. Sez. III 27.10.2004 n. 20807; Cass. Sez. III 7.1.2004 n. 58 e Cass. Sez. I 22.2.2000 n. 1997). In conformita’ all’invocato indirizzo, il maggior danno puo’ essere liquidato anche in via presuntiva, tenendo conto delle caratteristiche e delle qualita’ soggettive del creditore. Nella fattispecie, il creditore e’ un imprenditore il quale, se avesse avuto la tempestiva disponibilita’ delle somme spettanti, l’avrebbe verosimilmente e presumibilmente investito nell’esercizio dell’attivita’ commerciale. La mancata disponibilità delle risorse finanziarie spettanti devono dunque essere reperite sul mercato bancario con oneri (interessi passivi quali il prime rate) a carico dello stesso creditore.
Del resto, si ritiene che – in conformita’ alle indicazioni fornite dalla stessa C.E.D.U. nel noto caso Scordino – la domanda possa trovare ragionevole accoglimento poiche’ essa e’ finalizzata a mantenere inalterato nel tempo il valore del denaro stimato con riferimento al momento iniziale di maturazione del relativo diritto (termine finale di ogni anno di occupazione legittima). Va da se’ che tale valore deve essere rivalutato al momento della decisione definitiva, al fine di mantenerlo costantemente adeguato al mutato potere di acquisto della moneta. Sulle indennita’ rivendicate cosi’ rivalutata vanno poi calcolati altresi’ gli interessi legali, in quanto rivalutazione monetaria ed interessi hanno finalita’ diverse, mirando la prima a ripristinare la situazione patrimoniale dell’espropriato quale era anteriormente al decreto di esproprio, ed avendo i secondi funzione compensativa del mancato godimento della somma liquidata.
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Tanto premesso, la societa’ OMISSIS
R I C O R R E
a codesta Corte di Appello affinche’, con riferimento ai terreni siti in Comune di OMISSIS distinti in catasto al foglio OMISSIS mappali OMISSIS estesi per una superficie di 12.847 mq. ed espropriati con decreto n. OMISSIS del 28.2.2014, di cui alla nota prot. n. OMISSIS del 26.3.2014, emesso dal Presidente della OMISSIS quale Commissario Delegato ai sensi dell’art. 1 comma 2 d.l. n. 72/2012, anche alla luce della sentenza n. 348 del 24.10.2007 della Corte Costituzionale e dell’art. 1 del Trattato di Lisbona, voglia:
Ai sensi e per gli effetti dell’art. 702 bis comma 1 c.p.c.
A V V E R T E
il convenuto Presidente della Regione OMISSIS quale Commissario Delegato ai sensi dell’art.1 comma 2 d.l. n. 74/2012 c.f. OMISSIS in persona del legale rappresentante p.t. che la costituzione oltre i termini stabiliti dal giudice ai sensi del comma terzo dell’art. 702 bis c.p.c. implica le decadenze di cui agli articoli 38 e 167 c.p.c.
Ai fini istruttori:
Ai fini del contributo unificato dichiara che il valore della presente controversia e’ indeterminabile e che il relativo contributo unificato ammonta ad euro OMISSIS trattandosi di rito sommario.
OMISSIS