L’ordinanza n. 29878/2024 della Prima Sezione della Corte di Cassazione rappresenta una tappa significativa nel contenzioso sulle opposizioni alle stime indennitarie in materia di espropriazione per pubblica utilità. La decisione si inserisce in un contesto di forte dibattito su questioni quali la gerarchia delle fonti tra diritto regionale e nazionale, i criteri di valutazione delle aree espropriate, la natura e l’efficacia dei vincoli urbanistici e ambientali, la valenza probatoria dei dati catastali e le modalità processuali di determinazione dell’indennità in presenza di comproprietà o cessioni volontarie.
La sentenza affronta, infatti, quattro motivi di ricorso:
1) il ruolo dei parametri fissati dalla Regione Sicilia per i suoli industriali;
2) la qualificazione urbanistica delle aree e la loro edificabilità legale ed effettiva;
3) la determinazione della superficie espropriata e la rilevanza dei dati catastali;
4) la liquidazione dell’indennità in presenza di cessioni volontarie da parte di comproprietari.
Uno dei principali snodi della decisione riguarda l’applicabilità del Decreto n. 55/GAB del 30.04.2009 dell’Assessorato per l’Industria della Regione Sicilia, che fissa annualmente il valore medio dei suoli industriali sulla base dell’art. 25 L.R. Sicilia 1/1984. Il ricorrente sosteneva che la Corte d’Appello avrebbe dovuto applicare rigorosamente tale decreto, riconoscendo il valore massimo di €12/mq invece del valore di mercato accertato dal CTU (€35,50/mq).
La Suprema Corte rigetta questa impostazione, ricordando che la norma regionale demanda al decreto solo un valore “di riferimento”, che non può sostituire il parametro fondamentale della legislazione nazionale: il valore venale effettivo del bene, quale garanzia costituzionale di giusto indennizzo ex art. 42, comma 3, Cost. e art. 1 Prot. Addiz. CEDU.
La Cassazione richiama la recente giurisprudenza costituzionale che vieta di “manipolare la qualitas rei con una disciplina regionale” che si discosti dalla logica del valore di mercato, pena la violazione dell’eguaglianza e della tutela proprietaria a livello nazionale.
“Il giudice deve determinare il confine in base agli elementi probatori di qualsiasi specie prodotti dalle parti in giudizio, attribuendo particolare prevalenza agli atti traslativi della proprietà e valutando gli elementi che gli sembrano più attendibili, ricorrendo in ultima analisi alle risultanze catastali, aventi valore sussidiario…” 1.
L’orientamento della Suprema Corte ribadisce la funzione meramente indiziaria dei valori tabellari regionali e la centralità del valore venale effettivo, rafforzando la necessità di una valutazione caso per caso, anche attraverso l’ausilio del CTU. Questo evita automatismi eccessivi e garantisce una tutela effettiva e uniforme del diritto di proprietà.
Il secondo motivo si incentra sulla contestazione della qualificazione urbanistica delle aree espropriate: secondo il ricorrente, le particelle erano in zona “S” (saline, paludi stagnanti) e soggette a vincoli di inedificabilità ambientale, per cui avrebbero dovuto essere valutate come aree agricole e non edificabili.
La Cassazione conferma la valutazione della Corte d’Appello:
La Corte richiama il principio secondo cui l’inclusione in un piano per insediamenti produttivi vale a conferire all’area la qualità legale ed effettiva di edificabilità, con conseguente applicazione del criterio del valore venale pieno.
La questione della rilevanza dei vincoli urbanistici e ambientali nella stima indennitaria è particolarmente delicata: la giurisprudenza tende a distinguere tra vincoli conformativi, che incidono sulla destinazione ma non escludono l’edificabilità, e vincoli espropriativi o assoluti che invece la precludono. Il giudice di merito, avvalendosi della CTU, deve quindi valutare la reale attitudine edificatoria dell’area alla data dell’esproprio.
Il ricorrente censura la determinazione della superficie espropriata, sostenendo che il CTU si sia basato su dati catastali aggiornati unilateralmente dai proprietari, senza verifiche oggettive e in contraddittorio.
La Cassazione, richiamando la sua giurisprudenza costante, ribadisce che le risultanze catastali hanno valore probatorio sussidiario e possono fondare una presunzione, in mancanza di elementi contrari specificamente allegati e provati dalla parte interessata.
Il motivo è ritenuto inammissibile in quanto la parte ricorrente non ha indicato quali diverse risultanze fattuali non sarebbero state esaminate e non ha fornito elementi idonei a superare la presunzione derivante dal dato catastale.
“Nella sua domanda giudiziale, l’attore deve chiaramente individuare e determinare il bene oggetto della sua rivendicazione. […] Se vi è contrasto tra i dati contenuti nel titolo di acquisto prodotto dall’attore (ad esempio in materia di confini) e i dati catastali, il giudice dà prevalenza ai dati risultanti dall’atto. Le mappe catastali non hanno, infatti, valore di prova ma di semplice indizio…” 3.
Il giudice può legittimamente fondare la propria decisione sui dati catastali, specie in assenza di contestazioni puntuali o di prove contrarie, ma resta fermo che le risultanze degli atti traslativi (titoli) hanno prevalenza. L’onere di allegazione e prova grava sulla parte che contesta la superficie accertata.
Il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’Appello abbia liquidato l’indennità sull’intera area espropriata, nonostante alcune quote fossero già state cedute volontariamente da comproprietari.
La Corte ribadisce che, in caso di espropriazione di bene indiviso, l’opposizione del singolo comproprietario estende il giudizio all’intero diritto e all’intera indennità, anche a beneficio dei comproprietari non opponenti (Cass. SU 10165/2003, Cass. 15780/2019). Tuttavia, laddove alcune quote siano già state definite (ad esempio con accettazione dell’indennità provvisoria), non è ragionevole ordinare il deposito dell’intera indennità, ma solo della quota residua.
La censura è dichiarata inammissibile per difetto di autosufficienza, in quanto il ricorrente non ha indicato dove e come abbia allegato nel giudizio di merito la sussistenza di cessioni volontarie, né la questione risulta trattata nell’ordinanza impugnata.
L’ordinanza consolida i seguenti punti di diritto:
La pronuncia evidenzia le tensioni tra fonti regionali e statali: la pretesa “vincolatività” dei valori tabellari regionali è smentita dalla necessità di garantire uniformità di trattamento e rispetto del valore di mercato, come imposto dalla Costituzione e dalla CEDU. La Corte ricorda che “manipolare la qualitas rei con una disciplina regionale” violerebbe il principio di eguaglianza.
Il giudice di merito, avvalendosi della CTU, resta il garante della verifica concreta delle condizioni dei beni, della loro destinazione e delle limitazioni effettive, con particolare attenzione alle peculiarità delle aree portuali, industriali o soggette a vincoli ambientali.
La sentenza ribadisce, con richiami alle Sezioni Unite, che la natura unitaria del giudizio di opposizione alla stima indennitaria risponde a esigenze di effettività della tutela e di economia processuale. Tuttavia, la liquidazione deve essere rapportata alle quote effettivamente rimaste in proprietà, in presenza di atti dispositivi intervenuti.
L’ordinanza Cass. Sez. 1, n. 29878/2024 si pone come punto di riferimento per la corretta applicazione dei principi in tema di indennità di espropriazione, offrendo chiarimenti su:
La pronuncia sollecita a una maggiore responsabilizzazione degli enti esproprianti nella fase istruttoria e una più attenta documentazione delle condizioni di fatto e di diritto rilevanti per la liquidazione dell’indennità, rafforzando le garanzie per i proprietari e assicurando la conformità dell’azione amministrativa ai principi costituzionali e convenzionali.