La recente ordinanza della Corte di Cassazione n. 15661 del 2024 affronta, con rigore e chiarezza, una questione centrale per il diritto amministrativo e civile italiano: la sorte dei beni oggetto di espropriazione per pubblica utilità che, di fatto, non siano mai stati destinati all’uso pubblico previsto. Il caso, paradigmatico, offre lo spunto per un’ampia riflessione su molteplici profili: la natura demaniale dei beni espropriati, la possibilità di sdemanializzazione tacita, le condizioni per l’usucapione su beni già oggetto di provvedimento ablativo, nonché il rapporto tra inerzia della Pubblica Amministrazione e perdita della destinazione pubblica. L’analisi si concentrerà sugli aspetti dell’espropriazione per pubblica utilità, con attenzione particolare alle ricadute civilistiche e amministrative.
Le odierne controricorrenti (le sorelle Nicoletta) citavano in giudizio l’Immobiliare Peglia s.r.l. e l’Autostrada dei Fiori s.p.a., chiedendo che venisse accertato e dichiarato l’acquisto, per intervenuta usucapione, di alcuni terreni e di un fabbricato realizzato dal loro dante causa. L’Autostrada dei Fiori eccepiva che i terreni in questione erano stati oggetto di espropriazione con un decreto prefettizio del 1974 finalizzato alla realizzazione di un tratto autostradale, con conseguente acquisizione della natura demaniale e l’impossibilità di usucapione.
Il Tribunale di Imperia aveva accolto parzialmente la domanda, riconoscendo l’usucapione solo su uno dei mappali, mentre aveva rigettato le pretese relative alle porzioni espropriate. In appello, la Corte di Genova aveva invece accolto in toto la domanda delle attrici, riconoscendo la sussistenza di una “sdemanializzazione tacita” in relazione ai beni rimasti sempre nella disponibilità dei privati e mai destinati a finalità pubbliche. Da qui il ricorso in Cassazione dell’Autostrada dei Fiori.
L’espropriazione per pubblica utilità costituisce uno degli istituti cardine dell’ordinamento italiano, quale manifestazione della supremazia pubblica e della funzione sociale della proprietà privata (art. 42 Cost.). Essa comporta la coattiva ablazione di un bene, con trasferimento del diritto reale a favore dell’ente pubblico o di soggetti attuatori, previa corresponsione di un indennizzo.
L’effetto tipico dell’espropriazione è l’acquisto del bene al patrimonio pubblico, spesso con conseguente ingresso nel demanio pubblico o nel patrimonio indisponibile, a seconda della destinazione impressa dal provvedimento ablativo. Il bene, così acquisito, è soggetto al regime di inalienabilità, imprescrittibilità e inespropriabilità, tipico dei beni demaniali (artt. 822, 823 c.c.).
L’usucapione non può operare su beni demaniali, per effetto dell’art. 828 c.c., salvo che sia intervenuta una sdemanializzazione formale o tacita, con perdita del carattere pubblico del bene.
Il cuore della pronuncia della Cassazione è rappresentato dall’esame dei presupposti della sdemanializzazione tacita, questione che si intreccia con la possibilità di usucapione di beni già espropriati.
La Suprema Corte ribadisce che la “mera inerzia” della Pubblica Amministrazione, ovvero il mancato utilizzo del bene per la funzione pubblica cui era stato destinato, non è sufficiente a determinare la perdita della natura demaniale. Occorrono, invece, atti e fatti che manifestino in modo inequivoco la volontà dell’ente pubblico di rinunciare definitivamente all’uso pubblico del bene e alla possibilità di ripristinarlo.
Come si legge nell’ordinanza:
“La sdemanializzazione può dunque verificarsi anche senza l’adempimento delle formalità previste dalla legge, purché risulti da atti univoci, concludenti e positivi della P.A., incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all’uso pubblico (…) non potendo desumersi una volontà di rinuncia univoca e concludente da una situazione negativa di mera inerzia o tolleranza”.
Non è dunque sufficiente che il bene non sia stato utilizzato per lungo tempo: solo la presenza di comportamenti attivi e univoci può portare alla perdita della demanialità. Inoltre, tali comportamenti devono provenire dal soggetto titolare del bene e non possono essere desunti da atti di terzi (ad esempio, una diversa destinazione urbanistica impressa dal Comune).
La Corte richiama una consolidata linea di giurisprudenza (tra le altre, Cass. n. 12062/2014, Cass. n. 9457/2024, Cass. n. 1466/2008, Cass. n. 1101/2002) che ribadisce la centralità della volontà attiva della P.A. a tal fine.
L’ordinanza analizza il rapporto tra il provvedimento ablativo e la reale destinazione impressa al bene. L’espropriazione per pubblica utilità si giustifica solo se il bene viene effettivamente destinato (anche potenzialmente) alla funzione pubblica oggetto dell’atto. Se ciò non accade, non si determina automaticamente la perdita della natura pubblica, ma si può aprire la strada a una procedura di sdemanializzazione (meglio se formale, ma in certi casi anche tacita, se vi sono tutti i presupposti).
Nel caso di specie, il terreno era stato espropriato per la costruzione di un’autostrada, ma non era mai stato utilizzato né per l’opera principale né per attività pertinenziali. Secondo la Corte, tuttavia, la semplice inattività non è sufficiente a configurare una sdemanializzazione tacita:
“…non è idonea a integrare il requisito degli atti univoci, concludenti e positivi della P.A. la circostanza che, dall’apertura del traffico ad oggi, la zona (…) non sia mai stata utilizzata per ulteriori scopi viari e che l’area in questione non costituisca zona di rispetto. Non si tratta di fatti concludenti e di circostanze tali da rendere impossibile formulare altra ipotesi se non quella della rinuncia definitiva al ripristino della pubblica funzione del bene”.
La Cassazione accoglie il ricorso dell’Autostrada dei Fiori s.p.a., cassando la sentenza della Corte d’appello di Genova e rinviando per nuovo esame.
Il principio affermato è di grande rilievo:
Questo orientamento, costante negli ultimi decenni, mira a evitare che il regime di tutela dei beni pubblici sia vanificato da comportamenti puramente omissivi, proteggendo così il principio di inalienabilità e imprescrittibilità dei beni demaniali, anche se non utilizzati.
Un altro aspetto centrale è la possibilità di usucapione dei beni che, pur espropriati e acquisiti al demanio, siano rimasti nella disponibilità di terzi.
Il principio stabilito dalla Corte è che il possesso antecedente all’esproprio non può produrre effetti dopo il provvedimento ablativo, che interrompe il decorso del termine per l’usucapione. Solo se, successivamente, il bene perde la sua natura pubblica (formale o tacitamente), può riprendere a decorrere il termine per l’usucapione, ma sempre a condizione che la sdemanializzazione sia provata secondo gli stringenti criteri sopra esposti.
L’ordinanza fa riferimento diretto e indiretto a numerose norme centrali:
La giurisprudenza richiamata è vasta e costante:
“…la sdemanializzazione tacita non può desumersi dalla sola circostanza che un bene non sia più adibito anche da lungo tempo a uso pubblico, ma è ravvisabile solo in presenza di atti e fatti che evidenzino in maniera inequivocabile la volontà della P.A. di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di rinunciare definitivamente al suo ripristino, non potendo desumersi una volontà di rinuncia univoca e concludente da una situazione negativa di mera inerzia o tolleranza (Cass., sez. II, 9 aprile 2024, n. 9457; Cass., sez. II, 16 ottobre 2020, n. 22569; Cass., sez. II, 12 novembre 2019, n. 29228; Cass., sez. II, 11 marzo 2016, n. 4827; Cass., sez. un., 29 maggio 2014 n. 12062; Cass., sez. II, 3 giugno 2008, n. 1466; Cass., sez. II, 30 agosto 2004, n. 17387; Cass., sez. un., 26 luglio 2002, n. 1101; Cass., sez. II, 3 maggio 1996, n. 4089)”.
La Cassazione n. 15661/2024 si colloca nella tradizione più rigorosa della giurisprudenza italiana sul regime dei beni pubblici.
La tutela della funzione pubblica, l’impossibilità di usucapione dei beni demaniali, la necessità di atti inequivoci per la sdemanializzazione sono i pilastri che regolano la materia e impediscono una “privatizzazione di fatto” dei beni pubblici per semplice abbandono o disuso.
Per il diritto amministrativo, questa disciplina rafforza la responsabilità degli enti titolari dei beni pubblici, chiamati a gestirli attivamente e a manifestare con chiarezza la volontà di dismetterli, ove necessario, con procedure trasparenti.
Per il diritto civile, la sentenza ribadisce i limiti all’usucapione e le condizioni rigorose per l’acquisto di beni già oggetto di espropriazione, garantendo la certezza dei rapporti e la tutela dell’interesse pubblico.
La vicenda richiama, infine, la necessità di una costante attenzione ai confini tra interesse pubblico e diritto dei privati, evitando che l’abbandono o la mancata destinazione all’uso pubblico legittimino l’acquisto di beni attraverso vie surrettizie, in contrasto con la funzione tipica dell’espropriazione per pubblica utilità.