L’espropriazione per pubblica utilità costituisce uno dei più evidenti esempi di compressione del diritto di proprietà privata in funzione dell’interesse generale. Fondata sull’art. 42, comma 3, della Costituzione, essa consente alla Pubblica Amministrazione di acquisire coattivamente beni immobili quando ciò sia necessario per l’esecuzione di opere o servizi di interesse pubblico. Tuttavia, la legittimità di tale compressione presuppone il rispetto rigoroso di principi e garanzie fondamentali, tra cui: legalità, tipicità, indennizzo e procedimentalizzazione.
Il Testo Unico sulle espropriazioni per pubblica utilità (D.P.R. n. 327/2001), in vigore dal 30 giugno 2003, ha rappresentato un decisivo riordino sistematico della materia, introducendo un corpo normativo omogeneo che ha sostituito le precedenti norme frammentarie. Esso regola puntualmente:
La ratio del Testo Unico è quella di bilanciare efficacemente il potere espropriativo con la tutela della proprietà privata.
La cessione volontaria è una modalità alternativa di acquisizione del bene al patrimonio pubblico, prevista dall’art. 45 del T.U. Espropri. Essa si realizza quando il proprietario del bene, preso atto della dichiarazione di pubblica utilità, acconsente a trasferire volontariamente la proprietà dietro pagamento dell’indennità offerta.
Nonostante la denominazione “volontaria”, si tratta di un atto negoziale profondamente condizionato dal contesto coattivo in cui avviene: l’alternativa per il proprietario è infatti l’esproprio forzato.
L’atto di cessione, secondo l’art. 45, comma 3, produce gli stessi effetti del decreto di esproprio. È dunque un negozio di diritto pubblico, finalizzato a realizzare il trasferimento del diritto di proprietà in favore dell’Amministrazione, senza necessità dell’emissione del provvedimento ablatorio.
Tuttavia, la giurisprudenza – tra cui le Sezioni Unite n. 651/2023 – ha chiarito che la cessione volontaria non è perfetta se non viene seguita dall’immissione in possesso.
L’immissione in possesso rappresenta un requisito essenziale per rendere effettivo e completo il trasferimento della proprietà.
Infatti, ai sensi dell’art. 24 T.U., il decreto di esproprio diventa inefficace se entro due anni non è eseguito mediante immissione in possesso. Lo stesso principio si applica – per analogia – anche all’atto di cessione volontaria, in quanto atto sostitutivo del decreto.
La mancata immissione determina una frattura tra l’effetto formale e quello sostanziale del trasferimento.
Se dopo la cessione volontaria il cedente continua a occupare il bene, la giurisprudenza presume che egli lo faccia a titolo di detentore, in nome e per conto dell’Amministrazione.
Affinché possa invocare l’usucapione, è necessario dimostrare un atto di interversio possessionis, ovvero un comportamento incompatibile con la detenzione che segnali l’intenzione di possedere uti dominus, in contrapposizione al proprietario formale.
Questo principio è fondamentale per evitare che la mancata immissione in possesso si traduca automaticamente in una riacquisizione sostanziale del bene da parte dell’ex proprietario.
L’usucapione, quale modo di acquisto originario della proprietà, richiede il possesso continuato, pacifico, pubblico e non interrotto del bene per un certo periodo di tempo (generalmente 20 anni, art. 1158 c.c.).
Nel contesto delle espropriazioni, tuttavia, la sua applicabilità è fortemente limitata, soprattutto quando:
In tali casi, il soggetto che mantiene il corpus sul bene è considerato mero detentore. Il termine per usucapire non decorre, salvo interversio possessionis. Senza un atto chiaro e inequivoco di rottura della detenzione, non può aversi decorso utile ai fini usucapivi.
Con la sentenza n. 651 del 12 gennaio 2023, le Sezioni Unite della Cassazione hanno composto i contrasti giurisprudenziali affermando due principi chiave:
“Il decreto di esproprio validamente emesso, anche senza immissione in possesso, comporta perdita dell’animus possidendi da parte del proprietario, salvo interversio possessionis.”
“Il decreto di esproprio diventa efficace solo con l’immissione in possesso entro due anni. In mancanza, esso è inefficace e la proprietà resta al soggetto originario.”
La sentenza chiarisce anche che la cessione volontaria produce gli stessi effetti del decreto solo se seguita dall’immissione in possesso. In caso contrario, la proprietà rimane all’ex proprietario, senza bisogno di usucapione: la proprietà non si è mai trasferita.
L’ordinanza n. 11617/2024 della Corte di Cassazione si colloca in questo quadro giurisprudenziale. Nel caso di specie, il cittadino aveva stipulato una cessione volontaria a favore della Regione nell’ambito di un’opera pubblica (diga), ma non era mai stato immesso nel possesso.
Egli proponeva domanda di usucapione sostenendo di aver mantenuto il possesso materiale del bene. Tuttavia, i giudici di merito rigettavano la domanda, qualificandolo come detentore.
La Cassazione, richiamando la sentenza n. 651/2023, ha invece accolto il ricorso, ritenendo fondato il motivo secondo cui la cessione volontaria, senza immissione in possesso, non trasferisce la proprietà. In tal caso, il cittadino può rimanere proprietario, e non è necessario invocare l’usucapione: il trasferimento non si è mai perfezionato.
In ogni espropriazione – anche nei casi di cessione volontaria – il riconoscimento di una giusta indennità è requisito costituzionale. Tuttavia, il pagamento dell’indennità, se non accompagnato da immissione in possesso, non comporta automaticamente il trasferimento della proprietà.
Il valore di mercato del bene, oltre a essere parametro per l’indennità, è anche un indicatore della proporzionalità della misura ablativa. In caso di ritardi nell’immissione, l’indennità deve essere ricalcolata o rivalutata, e il cittadino può rivendicare la restituzione del bene.
La mancata o ritardata immissione in possesso può generare responsabilità extracontrattuale dell’Amministrazione. In particolare:
È dunque fondamentale che l’Ente agisca in modo tempestivo, trasparente e coerente con gli obblighi derivanti dall’atto di cessione o dal decreto.
Nel sistema dell’espropriazione per pubblica utilità, la giurisprudenza ha delineato tre figure distinte, spesso confuse nella prassi:
Negli ultimi anni, la Cassazione ha consolidato alcuni principi fondamentali:
Tutte queste pronunce convergono nel riaffermare il principio di effettività: la proprietà non si trasferisce mai solo “sulla carta”, ma deve avere riscontro sostanziale.
Prima dell’entrata in vigore del D.P.R. 327/2001, la disciplina espropriativa era affidata a norme eterogenee e lacunose (L. 2359/1865 e s.m.i.). L’assenza di termini perentori e di garanzie procedurali produceva frequenti abusi, tra cui:
Il T.U. ha introdotto:
La riforma ha dunque segnato il passaggio da un sistema formale e inerte a un assetto più garantista e orientato alla legalità sostanziale.
La vicenda affrontata dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 11617/2024 e l’autorevole indirizzo delle Sezioni Unite (n. 651/2023) dimostrano come il diritto dell’espropriazione per pubblica utilità sia oggi improntato al principio di effettività.
La cessione volontaria non può produrre effetti reali se non accompagnata dalla formale immissione in possesso. Il proprietario, in sua assenza, non perde il diritto di proprietà e non è tenuto a invocare l’usucapione, poiché nessun trasferimento si è perfezionato.
Questo approccio rafforza le garanzie costituzionali del cittadino e rappresenta un punto fermo per l’intero sistema ablatorio, in chiave di maggiore certezza giuridica, legalità procedurale e equità compensativa.