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CONSIGLIO DI STATO
SEZIONE OMISSIS – RIC. N. OMISSIS – CONS. RELATORE DOTT. OMISSIS
CAMERA DI CONSIGLIO DEL OMISSIS
MEMORIA ILLUSTRATIVA
OMISSIS
C O N T R O
COMUNE DI OMISSIS
Si ritiene di dover richiamare l’attenzione su una circostanza astrattamente dirimente e risolutiva del presente giudizio.
In particolare, successivamente alla pubblicazione della sentenza del Tar OMISSIS impugnata in questa sede, il Comune di OMISSIS ha emesso una serie di atti che appaiono univocamente diretti e finalizzati alla emissione del decreto sanante ex art. 42 bis d.p.r. n. 327/2001.
Si tratta in particolare:
Stante il chiaro contenuto dei citati atti univocamente diretti alla emissione del decreto acquisitivo sanante, si ritiene che gli stessi siano idonei a comportare la sopraggiunta improcedibilita’ dell’appello proposto dal Comune di OMISSIS, atteso che il contenuto, i motivi e le domande dell’appello appaiono incompatibili con la perdurante volonta’ di impugnare la sentenza del Tar OMISSIS.
Cio’ premesso, nel merito si ritiene di dover aggiungere quanto segue.
Sul primo motivo di appello, si rimanda per brevita’ ai rilievi gia’ prospettati con la memoria di costituzione del 29.7.2014.
In particolare, con i citati rilievi questa difesa ha dimostrato che con la nota del 3.12.2012 [assunta al protocollo del comune con il n. 60278 del 6.12.2012 (doc. n. 12 fascicolo ricorrente)] la societa’ (contrariamente a quanto prospettato dall’amministrazione appellante) non ha affatto richiesto la emissione del decreto di esproprio sanante ex art. 42 bis d.p.r. n. 327/2001. Ad ulteriore riscontro di circostanza si segnala che con la nota medesima lasocieta’ concludeva (cfr. ultima pagina) affermando testualmente che
“La presente proposta, non producibile in altre sedi e finalizzata esclusivamente all’esperimento di un tentativo di transazione, non comporta ovviamente ne’ alcuna rinuncia o abbandono dei diritti della societa’ OMISSIS. ne’ riconoscimento e/o acquiescenza di alcun diritto del comune”.
Tanto basta, da un lato, ad escludere che la citata nota proposta dalla societa’ potesse configurare la istanza diretta alla emissione del decreto di esproprio sanante e, dall’altro lato, a confermare invece che si trattasse di una semplice proposta di transazione.
Nel ribadire preliminarmente, anche in questo caso, a quanto gia’ prospettato con la memoria di costituzione del 29.7.2014, in questa sede si rende necessario aggiungere quanto segue.
Nessuna violazione degli obbligo di lealta’, correttezza e buona fede puo’ essere fondatamente imputata alla societa’ appellata per aver asseritamente violato gli obblighi assunti con l’accordo del 23.11.2000.
Come infatti piu’ diffusamente prospettato in punto di fatto del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, i gravi ritardi ed i numerosi inadempimenti in cui era incorso il Comune di OMISSIS nella realizzazione dell’opera pubblica di cui trattasi rappresentano la vera causa che ha impedito alla societa’ di definire i tempi e le modalita’ relative alla cessione definitiva al Comune di OMISSIS dei terreni di cui trattasi.
Per di piu’, la societa’ segnalava immediatamente al comune che l’accordo bonario del 23.11.2000 non era piu’ suscettibile di esecuzione per effetto della scadenza dei relativi termini di pubblica utilita’ e che la irreversibile trasformazione dei terreni, emersa a seguito della esecuzione dei lavori dell’opera pubblica, imponeva la necessita’ di risolvere la questione relativa alla perdurante occupazione abusiva degli stessi.
Al fine dunque di porre rimedio alla indicata situazione, con istanza del 27.8.2013 (doc. n. 1 fascicolo primo grado), la societa’ chiedeva all’amministrazione occupante di attivare e concludere il procedimento diretto ad emettere il decreto di acquisizione sanante secondo la previsione dell’articolo 42 bis d.p.r. n. 327/2001, delle aree ancora di proprieta’ della societa’ stessa (distinte in catasto al foglio n. OMISSISI particelle OMISSISI e al catasto urbano particelle OMISSISI per una superficie complessiva di mq. 2.214 s.e.o.), tuttora illegittimamente occupate e trasformate a seguito dei lavori eseguiti per la costruzione del piano di intervento denominato “OMISSISI’ alternativa per OMISSIS citta’ aperta all’uomo ovvero OMISSIS citta’ senza auto”, e di corrispondere alla stessa l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale nonche’ il risarcimento dei danni per il periodo di occupazione “sine titulo” delle stesse.
Il silenzio tenuto dal comune sulla citata istanza costringeva la societa’ a proporre il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
E’ appena il caso di precisare che non appare fondato il rilievo con cui il comune ha tentato di sostenere che nella fattispecie l’occupazione delle aree di cui trattasi e’ avvenuta in forza di un accordo e con l’assenso del privato e dunque cio’ consentirebbe di ritenere l’occupazione perfettamente legittima ed autorizzata.
Il rilievo non ha pregio allorquando si consideri che l’assenso inizialmente concesso dalla societa’ alla occupazione dei terreni era stata certamente concesso, ma cio’ nella prospettiva e sotto la condizione di legge (art. 28 legge n. 2359/1865) che l’accordo del 23.11.2000 fosse rispettato in tutte le sue previsioni.
Non avendo il comune rispettato per primo gli obblighi assunti, non puo’ addebitare il mancato rispetto degli impegni alla societa’ contraente, quanto meno alla luce della eccezione di inadempimento.
E’ infine appena il caso di precisare che la tesi dell’ente appellante non appare affatto condivisibile nemmeno laddove essa ha tentato di individuare nella societa’ la parte contraente asseritamente responsabile dell’inadempimento agli obblighi contratti con l’accordo del 23.11.2000.
Infatti, cosi’ argomentando l’ente e’ incorso in errore laddove ha ignorato che e’ divenuta del tutto irrilevante la problematica relativa alla individuazione del contraente astrattamente responsabile dell’inadempimento, e cio’:
Si rimanda preliminarmente per brevita’ alla sentenza n. OMISSISI del 5.2.2014 (gia’ allegata alla memoria di costituzione) con cui la Corte di Cassazione ha condannato tra gli altri il signor OMISSISI (amministratore della societa’ appellata), OMISSISI (dirigente responsabile della Direzione Pianificazione Urbanistica del Comune di OMISSIS) e OMISSISI (responsabile della Unita’ Tematica Attivita’ Produttive della Direzio S.U.I.C. del Comune di OMISSIS) per i reati urbanistici contestati, affermando la responsabilita’ penale degli imputati fondata sul previo accertamento della illegittimita’/illiceita’ del citato accordo del 23.11.2000, con la conseguente natura illecita ed abusiva dell’intero fabbricato ivi edificato.
Per completezza, occorre aggiungere che con sentenza n. 2579/2014 del 16.7.2014 (doc. n. 6) emessa all’esito del giudizio di rinvio, la Corte di Appello di Firenze quale giudice del rinvio ha confermato la condanna di tutti gli imputati per il profilo di cui trattasi ed ha previsto, come conseguenza della condanna di cui al capo A) di imputazione, LA DEMOLIZIONE TOTALE DEI MANUFATTI IN BASE ALL’ART. 31 D.P.R. N. 380/2001.
In particolare, la Corte di Appello di Firenze si e’ anche soffermata preliminarmente sulla illiceita’ dell’accordo del 23.11.2000 affermando testualmente quanto segue:
“Va ricordato in particolare che che OMISSISI e’ stata firmataria dell’accordo bonario di cessione del 23.11.2000 con il quale si e’ posta la premessa per il rilascio del permesso di costruire e la realizzazione dell’immobile sulla base di un indice edificatorio notevolmente superiore a quello ammissibile ex art. 7 d.m. 1444/1968 e delibera c.c. n. OMISSISI” (cfr. pag. 12 ultimo capoverso).
Alla luce dunque della indiscussa illecita’ dell’accordo ormai definitivamente accertata in sede penale dalla Corte di Cassazione (e per quanto di competenza dalla Corte di Appello di Firenze quale giudice del rinvio), non appare dunque neppure ammissibile continuare a dissertare in questa sede se l’accordo del 23.11.2000 sia o meno valido e/o efficace e quale ne sia la natura e l’effettivo contenuto.
Si tratta infatti di un accordo pacificamente “contra legem” ed in quanto tale nessuna della parti puo’ legittimamente chiederne il rispetto e l’adempimento delle relative obbligazioni.
Gli elementi che hanno concorso alla fattispecie gia’ nota come occupazione appropriativa possono dunque ravvisarsi:
La concomitanza degli elementi di cui sopra e la necessita’ di regolarizzare la perdurante situazione sottesa alla occupazione illecita permanente hanno spinto la societa’ Findem srl a presentare la istanza del 27.8.2013 tesa ad ottenere il rilascio del decreto di esproprio sanante ex art. 42 bis d.p.r. n. 327/2001 ed a proporre il conseguente ricorso avverso il relativo silenzio.
Nel confermare estensivamente quanto gia’ prospettato in merito da questa difesa con il ricorso principale (cfr. la premessa pagg. 5/8), in questa sede e’ sufficiente limitarsi a considerare quanto segue perche’ tutti i rilievi formulati dal comune siano superati e travolti.
Se l’accordo bonario del 23.11.2000 rappresenta un atto endoprocedimentale del procedimento di esproprio (come sostiene questa difesa), esso e’ comunque sempre implicitamente, strutturalmente e funzionalmente condizionato alla legittima del conclusione del relativo procedimento di esproprio. Conclusione che si sostanzia nella sottoscrizione del contratto di cessione bonaria ovvero in alternativa con la emissione del decreto di esproprio. Qualora il contratto di cessione bonaria ovvero il decreto di esproprio non intervengano entro il termine finale di efficacia della pubblica utilita’, l’accordo resta definitivamente privo di efficacia e sostanzialmente irrilevante, caducato, superato e travolto (cfr. ampia giurisprudenza della Corte di Cassazione e di codesto Consiglio di Stato indicata nella premessa del ricorso principale: pagg. 5/8).
Cio’ posto, nella fattispecie dagli atti gia’ prodotti in giudizio risulta che con deliberazione del c.c. n. OMISSISI del 29.4.1999, il Comune di OMISSIS ha approvato il piano particolareggiato di cui trattasi che e’ divenuto efficace in data 22.6.1999 a seguito della pubblicazione, ai sensi della legge n. 1150/1942 e della legge regionale n. 31/1997, sul Bollettino Ufficiale della Regione Umbria.
Orbene, e’ noto che l’approvazione del piano particolareggiato ha comporta “ope legis” la dichiarazione di pubblica utilita’ delle opere ivi previste ed e’ altrettanto noto che la legge ha espressamente determinato in dieci anni l’efficacia della pubblica utilita’ del piano particolareggiato. In particolare, l’art. 16 della legge n. 1150/1942 (nel suo testo storico vigente “ratione temporis”) prevede testualmente che “Col decreto di approvazione sono decise le opposizioni e sono fissati il tempo, non maggiore di anni dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovra’ essere attuato ed i termini entro cui dovranno essere compiute le relative espropriazioni”.
Pertanto, entro il citato termine finale di efficacia della pubblica utilita’ (spirato infruttuosamente in data 22.6.2009) ne’ le parti hanno proceduto alla cessione bonaria delle aree di cui trattasi ne’ il Comune di OMISSIS ha emesso il decreto di esproprio, ipotesi questa pur espressamente prevista dall’accordo bonario del 23.11.2000.
Si noti altresi’ che e’ parimenti infruttuosamente spirato anche il termine finale specificamente previsto per la emissione del decreto di esproprio posto che, con la deliberazione della g.c. n. 310 del 24.6.1999 (doc. n. 4 fascicolo prmo grado), il Comune di OMISSIS aveva stabilito l’inizio delle espropriazioni entro un anno (scadente il 24.6.2000) dall’approvazione della deliberazione e la loro conclusione entro il termine di cinque anni (scadente al piu’ tardi il 24.6.2005) dal loro inizio.
Se invece l’accordo del 23.11.2000 rappresenta piu’ genericamente un accordo accessivo al piano particolareggiato (come sostenuto dal comune), esso deve ritenersi comunque privo di efficacia atteso che, per effetto del citato art. 16 della legge n. 1150/1942, in data 22.6.2009 il piano particolareggiato di cui trattasi ha perso efficacia a seguito dell’infruttuoso decorso del termine di 10 anni decorrenti dalla sua approvazione (intervenuta in data 22.6.2009). Il comune dunque non puo’ legittimamente formulare domande che siano fondate o comunque riconducibili ad un piano particolareggiato che e’ ormai priva di efficacia.
In ogni caso, la caducazione dell’accordo del 23.11.2000 e’ parimenti imposta anche dall’art. 28 della legge n. 2359/1865 vigente “ratione temporis”, secondo il quale
“L’accettazione della indennità offerta dall’espropriante e gli accordi amichevoli che siansi conchiusi fra questo ed i proprietari od enfiteuti dei beni da espropriarsi, prima che sia approvato il piano di esecuzione, si considereranno dipendenti dalla condizione che il piano venendo approvato, i beni ceduti siano compresi nella espropriazione”.
Appare superfluo precisare che la espressione “accordi amichevoli” si riferisce necessariamente ad ipotesi diverse dall’accordo sulla indennita’ di esproprio posto che “l’accettazione della indennita’” risulta quale ipotesi ulteriore e distinta gia’ prevista e individuata dalla prima parte del citato art. 28.
Per l’effetto, la conclusione inevitabile e’ che i terreni oggetto di causa, sui quali e’ stata realizzata l’opera pubblica di cui trattasi, risultano tuttora occupati “sine titulo”. A tale situazione patologica ed anomala la societa’ ha inteso porre rimedio chiedendo al comune l’acquisizione delle aree illecitamente occupate con il pagamento delle somme risarcitorie ed indennitarie previste dall’art. 42 d.p.r. n. 327/2001.
Deve ritenersi infondata la tesi dell’appellante secondo cui l’accordo del 23.11.2000 configurerebbe semplicemente un atto d’obbligo, diffuso in materia urbanistico – edilizia, che non avrebbe correlazione con il procedimento di esproprio.
Tale interpretazione risulta smentita allorquando si consideri quanto segue.
Con nota prot. n. OMISSISI del 28.12.1999 (doc. n. 5 fascicolo primo grado), il comune informava i proprietari interessati (la societa’ ricorrente nonche’ i signori OMISSISI):
All’invito rispondeva soltanto la OMISSIS. con lettera del 25.1.2000 (doc. n. 5 allegato alla seconda memoria illustrativa del 20.1.2014 fascicolo primo grado) con cui manifestava la volonta’ di aderire alla iniziativa comunale.
Con nota prot. n. OMISSISI del 4.10.2000 (doc. n. 6 fascicolo primo grado), il comune partecipava alla ricorrente, ed agli altri soggetti gia’ indicati in precedenza, che le aree di cui sopra figuravano comprese tra quelle da espropriare in vista della realizzazione dell’opera pubblica di cui trattasi in localita’ Posterna (cosi’ testualmente “Con riferimento all’avviso di deposito in data 5 ottobre 2000 relativo all’oggetto, comunico che nell’elenco delle ditte espropriande risulta compresa anche la ditta OMISSIS. relativamente alle aree site nel comune di OMISSIS e distinte in catasto come appresso indicato…”).
Infine, si rivela dirimente lo stesso accordo del 23.11.2000 il cui art. 6) prevedeva testualmente quanto segue:
“L’amministrazione comunale, nel caso in cui la societa’ OMISSIS. non rispetti gli adempimenti previsti nei precedenti articoli entro il termine di un anno dalla data di comunicazione per la presentazione del progetto procedera’ come segue:
Sulla scorta di quanto premesso, risulta incontrovertibilmente dimostrato:
Asserire dunque, come ha fatto il comune, che l’accordo del 23.11.2000 si collochi al di fuori del procedimento di esproprio, non appare affatto attendibile perche’ smentito dai documenti in atti.
Sul punto, si rimanda per brevita’ a quanto gia’ prospettato con la memoria di costituzione del 29.7.2014 (cfr. punto 2.4 pagg. 8/10) che deve ritenersi integralmente confermato in questa sede.
Infine, l’eccezione di difetto di legittimazione attiva in capo alla societa’ OMISSIS. si rivela manifestamente strumentale ed infondata laddove si consideri:
Dunque appare incontestabile non solo che la societa’ OMISSIS. non abbia mai abdicato al proprio diritto di proprieta’ delle aree di cui trattasi, ma che (al contrario), proprio per tutelare il diritto dominicale ed il correlativo diritto risarcitorio/indennitario in relazione alle aree colpite dalla relativa occupazione illecita appropriativa, sia stata costretta a richiedere la emissione del decreto sanante ex art. 42 bis d.p.r. n. 327/2001 e ad impugnare il relativo silenzio (oggetto del presente giudizio).
8) QUANTO AL SILENZIO (OGGETTO DEL PRESENTE GIUDIZIO)
violazione e falsa applicazione:
Nel merito della controversia, la sentenza impugnata si sottrae alle censure mosse dal comune appellante e deve essere confermata.
E’ noto che esiste un preciso quadro normativo dal quale e’ possibile trarre tutti gli elementi necessari sia alla individuazione in capo all’amministrazione dell’obbligo (e non solo della mera facolta’) di provvedere sulla istanza dei proprietari di emissione del decreto sanante sia alla conseguente formazione del relativo silenzio, in caso di inerzia sulla stessa.
A tal fine, si richiama l’attenzione sulla circostanza:
E’ sufficiente richiamare in materia i noti principi stabiliti da codesto Consiglio di Stato:
“Ciò posto, osserva il Collegio che l’art. 2 della L. n. 241 del 1990, che racchiude uno dei principi fondamentali dell’ordinamento in tema di azione amministrativa, sancisce l’obbligo per l’amministrazione di concludere ogni procedimento con provvedimento espresso entro un termine certo, che è quello generale fissato dal comma 3 (attualmente ridotto da 90 a 30 giorni dall’art, 7 della L. n. 69 del 2009) o quello indicato da specifiche disposizioni di legge” (Consigli Stato sezione V 23.10.2012 n. 5413);
“…ogni procedimento avviato ad istanza di parte deve concludersi con un provvedimento esplicito adottato nei termini di legge (art. 2, legge n. 241/1990)…” (Consiglio Stato sezione V 8.9.2011 n. 5058; conforme Consiglio Stato sezione VI 1.12.2010 n. 8371).
E’ noto che, in materia di silenzio, la pacifica giurisprudenza ha stabilito una serie di principi, ormai comunemente condivisi, i quali hanno chiarito in particolare che il silenzio serbato dall’amministrazione sulla istanza volta ad ottenere la emissione del decreto di esproprio sanante ovvero in alternativa la restituzione dei fondi illecitamente occupati, comporta pacificamente:
Il giudice di prime cure ha fatto corretta applicazione dei noti principi stabiliti in materia di silenzio dalla giurisprudenza amministrativa:
Infatti, l’occupazione sine titulo di beni immobili appartenenti a privati è una situazione di fatto del tutto contrastante con quella di diritto e l’Amministrazione deve tempestivamente adoperarsi per ripristinare una situazione di legalità.
<Il privato può dunque legittimamente domandare o l’emissione del provvedimento di acquisizione o, in difetto, la restituzione del fondo con la sua riduzione in pristino. Nell’attuale quadro normativo, le Amministrazioni hanno infatti l’obbligo giuridico di far venir meno — in ogni caso — l’occupazione “sine titulo” e, quindi, di adeguare comunque la situazione di fatto a quella di diritto. La P.A. ha due sole alternative: o restituisce i terreni ai titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la completa riduzione in pristino allo “status quo ante”, oppure deve attivarsi perché vi sia un legittimo titolo di acquisto dell’area. Quello che le amministrazioni non possono pensare di continuare fare è restare inerte in situazioni di illecito permanente connesso con le occupazioni usurpative> (Cons. St., sez. IV, 26 marzo 2013, n. 1713).
Nel caso di specie è pacifico che il Comune stia utilizzando senza titolo beni presenti su terreni di proprietà altrui. L’amministrazione ha quindi l’obbligo di restituire i beni illecitamente occupati, oppure, di acquisirli al proprio patrimonio ritenendo sussistenti le condizioni per procedere ex art. 42 bis.
[…]
Fermo restando quindi il carattere discrezionale della valutazione rimessa alla Amministrazione sulla possibilità di procedere ex art. 42 bis, non v’è dubbio che l’esercizio di tale potestà non possa protrarsi indefinitamente nel tempo, altrimenti l’inerzia dell’Amministrazione si tradurrebbe in un illecito permanente.
Seppure, quindi, l’art. 42 bis non contempli un avvio del procedimento ad istanza di parte, deve ritenersi che il privato possa sollecitare l’Amministrazione ad avviare il relativo procedimento e che l’Amministrazione abbia l’obbligo di provvedere al riguardo, essendo l’eventuale inerzia dell’Amministrazione configurabile quale silenzio-inadempimento impugnabile di fronte al giudice amministrativo.
Infatti, per la P.A. l’obbligo giuridico di provvedere, positivizzato in via generale dall’ art. 2 della L. n. 241 del 1990, sussiste ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, derivandone che il silenzio – rifiuto è un istituto riconducibile a inadempienza dell’Amministrazione, in rapporto a un sussistente obbligo di provvedere che, in ogni caso, deve corrispondere ad una situazione soggettiva protetta, qualificata come tale dall’ordinamento (cfr.: Cons. St., Sez. IV, 22.6.2006 n. 3883; Id, 4.9.1985 n. 333 e 6.2.1995 n. 51; Sez. V 6.6.1996 n. 681 e 15.9.1997 n. 980; Sez. VI, 11.11.2008). Peraltro, la giurisprudenza ha chiarito che tale obbligo è rinvenibile anche al di là di un’espressa disposizione normativa che tipizzi il potere del privato di presentare un’istanza e, dunque, anche in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l’adozione di un provvedimento ovvero tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell’Amministrazione (ex plurimis: Cons. St., sez VI, 14.10.1992 n. 762)” (Cons. Stato sezione IV 15.9.2014 n. 4696);
Una siffatta eccezione rivelerebbe tutti i propri limiti laddove si consideri che, al contrario, e’ perfettamente configurabile un vero e proprio obbligo di provvedere posto a suo carico dell’amministrazione, desumibile non soltanto dalle puntuali disposizioni di legge gia’ evocate in precedenza, ma anche dalla stessa peculiarita’ della fattispecie, nella quale evidenti ragioni di giustizia ed equita’ imporrebbero l’adozione di provvedimenti o, comunque, lo svolgimento di un’attivita’ amministrativa alla stregua dei principi (buon andamento ed imparzialita’) imposti in via generale dall’art. 97 costituzione, considerato che il proprietario null’altro pretende dall’amministrazione se non l’attivazione di un procedimento volto a definire la sorte dei beni rimasti sempre di sua proprieta’, ma tuttora illecitamente occupati “sine titulo” e mai restituiti ed anzi irreversibilmente trasformati dall’amministrazione.
Al riguardo, e’ sufficiente considerare che con la istanza sulla quale si e’ formato il silenzio impugnato in questa sede, il proprietario ha attivato una posizione giuridica di interesse legittimo pacificamente esercitabile per effetto dell’avvenuta introduzione nel sistema del d.p.r. n. 327/2001 del procedimento attraverso il quale l’amministrazione puo’ ed anzi deve sanare l’utilizzazione “sine titulo” di un bene immobile altrui per scopi di interesse pubblico.
A questo riguardo va pertanto precisato che, se al provvedimento finale di tale procedimento deve comunque attribuirsi natura discrezionale, cio’ – per l’appunto – non esclude la sussistenza di un obbligo dell’amministrazione stessa di rispondere all’istanza presentata al tal fine dal privato. Senza sottacere che dall’avvio del procedimento non discende ovviamente l’adozione di un provvedimento avente un contenuto necessariamente vincolato in senso favorevole alla posizione del privato medesimo” (Cons. Stato 8.10.2012 n. 5207) (conformi ex multis Cons. Stato sezione IV 2 settembre 2011 n. 4970; Consiglio di Stato sezione VI 1 dicembre 2011 n. 6351).
Del resto, e’ stata la citata giurisprudenza a tracciare i percorsi di tutela della proprieta’ privata a fronte dell’illegittimo esercizio del potere espropriativo.
I punti di partenza della questione sono del tutto perspicui:
E’ peraltro evidente che – in mancanza di un idoneo titolo giuridico che valga a trasferire la proprieta’ in capo alla pubblica amministrazione – il privato, a fronte della illecita ingerenza, resta proprietario del bene, con la conseguenza che puo’, anzitutto, attivare (a parte, ovviamente, il risarcimento del danno per il periodo di occupazione) la tutela restitutoria, previa ripristino dello “status quo ante”: al che non puo’ costituire impedimento (una volta venuta meno la possibilita’ di evocare la occupazione acquisitiva) ne’ la avvenuta trasformazione delle aree, ne’ la realizzazione dell’opera pubblica (gia’ nota come “trasformazione irreversibile”). Infatti, per un verso, il limite della eccessiva onerosita’ e’ codificato dall’art. 2058 c.c. in relazione alla tutela risarcitoria (in forma specifica) e non anche invece per quella restitutoria (che trova fondamento negli artt. 948 ss. ed e’ preordinata alla tutela reale della proprieta’) e, per altro verso, l’ulteriore limite di cui all’art. 2933 c.c. (relativo alla riduzione in pristino di quanto sia stato realizzato in violazione dell’obbligo di non fare) si riferisce solo alla ricorrenza di pregiudizi per l’intera economia nazionale e non invece a quelli “localizzati” (Cass. 23.8.2012 n. 14609).
Per la stessa ragione (ma al contrario), al privato dovrebbe, in principio, ritenersi preclusa la tutela risarcitoria (naturalmente diversa da quella relativa alla mera occupazione), difettando – ai fini del riconoscimento del diritto al rivendicato controvalore venale del bene – il presupposto essenziale rappresentato dalla perdita della proprieta’.
Una importante conseguenza e’, allora, che le domande risarcitorie (anche quelle gia’ proposte in passato quando nessun privato aveva plausibile ragione di dubitare del regime della occupazione acquisitiva e giunte alla attuale cognizione del giudice amministrativo – oggi attributario della giurisdizione esclusiva in materia, giusta l’art. 34 del d. lgs. n. 80/98, trasfuso nell’art. 133 c.p.a. – per via di “translatio judicii”) dovrebbero essere coerentemente respinte in quanto non fondate, per difetto del fatto costitutivo del diritto azionato consistente nella perdita della proprieta’.
In relazione a tale quadro, puo’ ritenersi in generale sostanzialmente appagante l’eventualita’ che l’amministrazione eserciti l’autonomo potere ablatorio codificato dall’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001 in quanto:
Il problema si pone, allora, proprio ed essenzialmente per l’ipotesi di inerzia o addirittura di silenzio dell’ente espropriante: inerzia e silenzio che appaiono in grado di condizionare lo spettro delle tutele a disposizione del privato, di fatto conservandone lo “status” non sempre gradito (ed anzi addirittura prospetticamente suscettibile di frustrare le forme di tutela risarcitoria) di proprietario dei beni.
In tale contesto, con la nota pronuncia del 16.3.2012 n. OMISSISI codesto Consiglio di Stato ha ricomposto i termini del problema stabilendo:
Dunque, da un lato, l’accoglimento della mera azione risarcitoria si scontra con il mancato trasferimento della proprieta’, d’altro lato, l’art. 42 bis avrebbe inequivocabilmente attribuito alla p.a. il potere discrezionale, valutati gli interessi in conflitto, di pervenire o meno al provvedimento di acquisizione, e siffatto potere (peraltro doveroso nell’ “an” giusta il principio generale scolpito all’art. 2 della legge n. 241/1990, in quanto preordinato alla salvaguardia, in prospettiva comparativa, di rilevanti interessi delle controparti private) non potrebbe essere preventivamente intaccato o limitato da un vincolo giurisdizionale che accolga la domanda restitutoria (ne’ da una condanna a provvedere “tout court” all’adozione del provvedimento acquisitivo, la quale infatti lederebbe e pregiudicherebbe la discrezionalita’ della p.a. di scegliere, valutati gli interessi in conflitto, tra acquisizione e restituzione del bene).
Alla luce delle esposte coordinate dogmatiche, va da se’ che – una volta ritenuta la “doverosita’” di attivazione del procedimento di acquisizione sanante ex art. 42 bis – la strutturazione della tutela del privato nei sensi della condanna a provvedere, nelle forme del rito avverso il silenzio si rivela quale opzione necessaria.
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Si insiste dunque affinche’ l’appello del Comune di OMISSIS sia dichiarato inammissibile, improcedibile e comunque respinto nel merito.
OMISSISI