CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
SECONDA SEZIONE
CAUSA TARANTINO E ALTRI c. ITALIA
(Ricorsi nn. 25851/09, 29284/09 e 64090/)
SENTENZA
STRASBURGO
2 aprile 2013
Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.
Nella causa Tarantino e altri c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da:
Danutė Jočienė, presidente,
Guido Raimondi,
Peer Lorenzen,
Dragoljub Popović,
Işıl Karakaş,
Nebojša Vučinić,
Paulo Pinto de Albuquerque, giudici,
e da Françoise Elens-Passos, cancelliere aggiunto di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 5 marzo 2013,
Pronuncia la seguente sentenza adottata in tale data:
PROCEDURA
1. All’origine della causa vi sono tre ricorsi (nn. 25851/09, 29284/09 e 64090/09) proposti contro la Repubblica italiana con i quali OMISSIS («i ricorrenti») hanno adito la Corte, rispettivamente il 18 maggio 2009, il 2 e il 16 novembre 2009, in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2. I ricorrenti sono stati rappresentati dall’avv. OMISSIS, del foro di Misilmeri. Il Governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo co-agente P. Accardo.
3. I ricorrenti lamentano una violazione del loro diritto all’istruzione come previsto dall’articolo 2 del Protocollo n. 1 alla Convenzione. In particolare asseriscono che i fini perseguiti dalla Legge n. 127/1997, che regolamenta il numero chiuso, non siano legittimi e la misura non proporzionata.
4. Il 21 giugno 2011 i ricorsi sono stati riuniti e comunicati al Governo. E’ stato inoltre deciso che la camera si sarebbe pronunciata contestualmente sulla ricevibilità e sul merito della causa (articolo 29 § 1).
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
5. I ricorrenti sono tutti cittadini italiani. I dati pertinenti sono riportati alla tabella in appendice.
A. Contesto delle cause
1. La prima ricorrente, OMISSIS
6. Il 4 settembre 2007, la sig.ra Tarantino non riuscì a superare il test di accesso per il corso di laurea in medicina a Palermo. Nel 2007, a fronte di duecentodieci posti disponibili, si presentarono a sostenere tale esame duemila studenti. La ricorrente tentò invano l’esame ancora due volte, nel 2008 e nel 2009.
7. Il 14 dicembre 2007, la prima ricorrente e altri studenti presentarono un ricorso al Presidente della Repubblica asserendo che la Legge n. 264/1999, in particolare i due criteri vincolanti usati dal Ministero per determinare il numero degli studenti che potevano essere ammessi ai diversi corsi di laurea di ogni ateneo (il paragrafo 17 infra), fossero incompatibili con l’articolo 3(2)(c) e (g) del Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea, con la Direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, con l’articolo 15 della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea (la «UE»), con l’articolo 6 § 2 del Trattato sulla Unione Europea in riferimento al principio di uguaglianza, e con l’articolo 2 del Protocollo n. 1 alla Convenzione. La ricorrente contestava inoltre la decisione dello Stato di imporre le stesse limitazioni agli atenei privati, e lamentava l’inadeguatezza dei test di accesso. La prima ricorrente chiedeva inoltre di essere provvisoriamente ammessa al corso universitario con una clausola condizionale.
8. Con decreto del 2 luglio 2008, il Consiglio di Stato respinse la sua richiesta di un provvedimento provvisorio.
9. Il 23 settembre 2008 la prima ricorrente presentò altri ricorsi e richiese nuovamente che la questione venisse rinviata alla Corte di Giustizia Europea (la «CGE»). Tali ricorsi vennero trasmessi al Consiglio di Stato nell’ottobre 2008.
10. Con decreto del 28 aprile 2009, adottato sulla base del parere consultivo del Consiglio di Stato emesso il 12 novembre 2008 (n. 2256) e notificato alla prima ricorrente il 14 maggio 2009, il Presidente della Repubblica rigettò i ricorsi. Il decreto disponeva che, in considerazione delle risorse umane e materiali degli atenei, le limitazioni di accesso impugnate, consentendo l’accesso solo ai più meritevoli, fossero ragionevoli e pertanto compatibili con le disposizioni comunitarie invocate. Inoltre, in linea con l’aumento del fabbisogno della società di medici qualificati, i posti al corso di laurea di medicina nel 2008/09 erano aumentati del 10-20%. Osservava inoltre che l’esame di abilitazione professionale, dopo che era stato conseguita la laurea, non era un titolo accademico in sé ma un esame di stato, ritenuto tale nella maggior parte degli Stati. Infine, rigettava la doglianza relativa alla inadeguatezza dei test di accesso.
2. I restanti sette ricorrenti
11. Gli altri sette ricorrenti hanno lavorato per diversi anni o lavorano tuttora come odontotecnici o igienisti dentali.
12. Il 4 settembre 2009, nonostante la loro rilevante esperienza professionale, i sette ricorrenti non superarono il test di accesso al corso di laurea in odontoiatria. Tutti i tentativi precedenti e successivi si rivelarono comunque vani.
13. Al contrario degli altri ricorrenti, il sig. Marcuzzo (di seguito «l’ottavo ricorrente») aveva invece superato il test di accesso nell’anno accademico 1999/2000. Ciò nonostante, poiché egli non aveva sostenuto esami per 8 anni consecutivi a causa di gravi problemi familiari, (come previsto dal Regolamento Universitario, articolo 149 del Regio Decreto n. 1592/1933), l’iscrizione al corso universitario e gli esami che aveva già superato persero validità nel luglio 2009.
14. Questi ricorrenti ammisero di non aver esperito i mezzi di ricorso nazionali visto che, secondo la loro opinione, essi sarebbero stati inefficaci. Secondo la giurisprudenza consolidata del Consiglio di Stato, infatti, l’accesso limitato alle università è compatibile con la Costituzione e con la normativa comunitaria (ex pluribus, il sopra citato parere consultivo del 12 novembre 2008). L’ottavo ricorrente sostenne inoltre che il Consiglio di Stato aveva costantemente ritenuto che i motivi soggettivi, ad esempio i problemi familiari (come nel suo caso), non potessero essere considerati eccezioni alla norma che privilegiava la continuità degli studi. Di conseguenza, il suo ricorso non avrebbe avuto esito positivo.
II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI
A. Legge n. 127/1997
15. La Legge n. 127/1997, in modifica dell’articolo 9(4) della Legge n. 341/1990, ha introdotto, per la prima volta, il numero chiuso (accesso limitato) agli atenei italiane pubbliche e private. L’articolo 17 (116) della stessa legge stabilisce che sia il Ministero della Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica a determinare tali limitazioni. Tuttavia la legge non stabiliva criteri per determinare i corsi di laurea soggetti a limitazioni, il numero di posti disponibili o le procedure di selezione.
16. Il 27 novembre 1998 (sentenza n. 383/98), essendo stata adita per esaminare la costituzionalità dell’articolo 17(116) della Legge n. 127/1997, la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza che confermava la costituzionalità della legge. Riteneva, infatti, che la discrezionalità applicata dal Ministero dell’Università e della Ricerca non fosse illimitata, visto che il Ministero doveva agire secondo un quadro normativo ben determinato. A questo proposito, in assenza di una normative nazionale in merito, la Corte Costituzionale faceva riferimento a direttive comunitarie rilevanti, che miravano a garantire un adeguato livello di istruzione. La Corte Costituzionale inoltre osservava che era il Parlamento l’organo competente a legiferare in merito.
17. In seguito alla sentenza della Corte Costituzionale, venne promulgata la Legge n. 264/1999. Essa disponeva che il Ministero dell’Università e della Ricerca avrebbe programmato gli accessi ai corsi di laurea in medicina, medicina veterinaria, odontoiatria, architettura e scienze infermieristiche sulla base di due criteri vincolanti: l’offerta potenziale del sistema universitario e il fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo. Basandosi su tale valutazione, il Ministero avrebbe determinato il numero di studenti ammessi ai corsi di laurea in questione di ogni ateneo.
18. Il 21 aprile 2009, l’Authority per l’Antitrust (la «AA») emise una raccomandazione sui criteri di accesso al corso di laurea in odontoiatria. La AA osservava che: (a) in pratica, i due criteri fissati dalla legge erano applicati sulla base delle osservazioni del Ministero della Università e della Ricerca e del Ministero della Salute; e (b) tutti i dati raccolti sarebbero stati discussi da una task-force di esperti, composta inter alios, dai rappresentanti della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e dall’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri.
19. Secondo la AA, il Governo italiano stava agendo in violazione della sentenza della Corte Costituzionale (n. 383/98 sopra citata) e della normativa comunitaria, visto che la legge promulgata prendeva in considerazione non solo gli standard educativi ma anche i dati relativi alla richiesta occupazionale. Visto che la valutazione era compiuta esclusivamente in riferimento alla richiesta occupazionale del servizio sanitario nazionale, la AA concludeva che la limitazione dell’accesso al corso di laurea in odontoiatria si traduceva in una insensata limitazione della concorrenza dei servizi professionali. Effettivamente, prendendo in considerazione solo la richiesta pubblica, al punto da escludere la richiesta privata, il numero degli odontoiatri era stato forzosamente ridotto e gli onorari dentistici erano ingiustificatamente aumentati. Inoltre, la AA disapprovava la partecipazione delle associazioni professionali alla task force (sopra citata), visto che le loro decisioni potevano essere assai condizionate dalla tutela dei loro stessi interessi.
20. Per essere ammessi, i candidati dovevano superare un test a scelta multipla che consisteva in ottanta domande di cultura generale (comprese geografia e storia internazionale), biologia, chimica, matematica e fisica. L’esame, basato sui programmi della scuola secondaria superiore, mirava ad accertare la predisposizione dei candidati per le discipline oggetto dei corsi di laurea di loro scelta.
B. Giurisprudenza
21. I tribunali nazionali competenti ritennero ripetutamente che il numero chiuso e il modo in cui esso era applicato nel contesto normativo italiano fossero in conformità con la Costituzione e con la normativa comunitaria. Le sentenze a sostegno di tali determinazioni includevano, inter alia: la sentenza n. 1931 del Consiglio di Stato del 29 aprile 2008; la sentenza n. 5418 del Consiglio di Stato del 24 giugno 2008; la sentenza n. 5542 del Consiglio di Stato del 6 giugno 2008; la sentenza n. 197 del TAR toscano di Firenze del 12 febbraio 2007; la sentenza n. 4559 del TAR di Napoli del 2008; la sentenza n. 1931 del TAR toscano di Firenze del 17 aprile 2008; la sentenza n. 145 del TAR di Trento dell’11 giugno 2008; e la sentenza n. 1631 del Consiglio di Stato del 15 aprile 2010.
In particolare, rispetto alla doglianza dei ricorrenti secondo la quale che il criterio basato sul fabbisogno della società di una particolare professione non dovesse essere limitato al territorio nazionale – arrivando all’esclusione del fabbisogno attuale e imminente dell’intera Comunità Europea – il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 1931 del 29 aprile 2008, decise nel modo seguente: prima di tutto era evidente che il criterio maggiormente determinante fosse quello basato sulla valutazione dell’offerta del sistema universitario, tale da consentire una formazione scientifica adeguata come richiesto dalla legislazione comunitaria. Inoltre, come era stato confermato in precedenza dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 393 dal 1998), il diritto a livelli più alti di istruzione, anche per i più meritevoli, dipendeva dalla disponibilità dei mezzi tecnici e delle risorse umane, in particolare nello studio di discipline sia teoriche che pratiche. Effettivamente la normativa comunitaria non proibiva il numero chiuso. Le direttive europee prevedevano il riconoscimento di titoli e diplomi basati su un livello minimo di studi e sulla garanzia del possesso reale delle conoscenze necessarie per esercitare una determinata professione. Tuttavia, esse lasciavano allo Stato la libertà di individuare gli strumenti, i mezzi e i metodi per dare attuazione agli obblighi di risultato stabiliti. Dunque il criterio impugnato ha meno importanza di quello sopra citato e risulta effettivamente secondario. Esso entrerebbe in gioco solo nell’improbabile eventualità che la disponibilità di posti fosse talmente copiosa da rendere necessaria la limitazione dell’accesso alla professione per evitare la saturazione del mercato. Con riferimento alla raccomandazione del Ministero della Salute di limitare il numero degli studenti immatricolati (che ha costituito la base per la decisione sul numero dei posti disponibili per gli anni 2006-07) la Corte Costituzionale ha ritenuto che la limitazione quantitativa non dovesse basarsi sul fabbisogno della società, ma dovesse essere volta a garantire che gli studi specialistici raggiungessero i livelli europei. Visto che l’importanza di questo criterio per la decisione sul numero dei candidati da immatricolare ogni anno non era stata dimostrata, e visto che la normativa comunitaria non prevedeva l’accesso illimitato e incondizionato degli studenti all’istruzione, non era necessario rinviare la questione alla CGE.
22. Secondo la sentenza del Consiglio di Stato n. 1855 del 2005, il limite di tempo degli otto anni indicato nel decreto n. 1592 del 1933 non è un periodo di prescrizione che può essere interrotto, ma l’intervallo di tempo massimo consentito prima della decadenza dal diritto (di frequentare il corso di laurea).
C. La normative pertinente dell’Unione Europea
a. L’articolo 39 (ex articolo 48) del Titolo III riguarda la libera circolazione di persone, servizi e capitali del Trattato istitutivo della Comunità Europea. Recita come segue:
«1. La libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità è assicurata.
2. Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.
3. Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto:
a) di rispondere a offerte di lavoro effettive;
b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri;
c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali;
d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l’oggetto di regolamenti di applicazione stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego.
4. Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione.»
23. Altri testi rilevanti dell’Unione Europea sono: la Direttiva del Consiglio 86/457/CEE del 15 settembre 1986 relativa alla formazione specifica in medicina generale; la Direttiva del Consiglio 93/16/CEE del 5 aprile 1993 intesa ad agevolare la libera circolazione dei medici e il reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati e altri titoli; e la Direttiva del Consiglio 2005/36/CE del 7 settembre 2005 relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali.
IN DIRITTO
I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 2 DEL PROTOCOLLO N. 1 ALLA CONVENZIONE
24. I ricorrenti lamentano una violazione del loro diritto all’istruzione, invocando l’articolo 2 del Protocollo n. 1 alla Convenzione che recita:
«Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche.»
25. Il Governo contesta tale tesi.
A. Sulla ricevibilità
26. Il Governo ritiene che il ricorso straordinario dinanzi al Presidente della Repubblica sia un ricorso giudiziario che i ricorrenti potevano scegliere in alternativa ai procedimenti dinanzi ai tribunali amministrativi regionali (i «TAR»). Ritiene che nel caso di specie tutti i ricorrenti potevano, ed effettivamente avevano, proposto tale ricorso per lamentare la violazione dedotta.
27. I ricorrenti sostengono che i procedimenti dinanzi al TAR sarebbero stati inefficaci vista la consolidata giurisprudenza esistente rispetto alla compatibilità dell’accesso limitato ai corsi universitari con la normativa nazionale, con la normativa comunitaria e con la Convenzione. Si riferivano in particolare alle sentenze nn. 1931, 5418, 5542 del Consiglio di Stato del 2008, e alla sentenza n. 1631 del Consiglio di Stato del 15 aprile 2010. I ricorrenti osservano inoltre che il Governo aveva ammesso che tutti i ricorrenti avevano esaurito le vie di ricorso interne.
28. La Corte ribadisce che l’articolo 35 § 1 della Convenzione richiede che le vie di ricorso che devono essere esaurite sono unicamente quelle disponibili e sufficienti a garantire riparazione rispetto alle violazioni addotte. L’articolo 35 § 1 ha la finalità di fornire allo Stato contraente l’opportunità di prevenire o di correggere le violazioni dedotte contro lo stesso prima che le relative doglianze siano presentate alla Corte (si veda, inter alia, Selmouni c. Francia [GC], n. 25803/94, § 74, CEDU 1999-V). Tuttavia un ricorrente non è obbligato a fare ricorso a rimedi che sono inadeguati o inefficaci (si veda Raninen c. Finlandia, 16 dicembre 1997, § 41, Reports of Judgements and Decisions 1997-VIII). Ne consegue che il ricorso a tali rimedi si rifletterà sulla identificazione della «decisione finale» e, di conseguenza, sulla determinazione del momento a partire dal quale calcolare il termine dei sei mesi (si veda, per esempio, Kucherenko c. Ucraina (dec.), n. 41974/98, 4 maggio 1999, e Prystavska c. Ucraina (dec.), n. 21287/02, 17 dicembre 2002).
29. La Corte osserva che quanto affermato dal Governo in merito al fatto che tutti i ricorrenti avevano presentato ricorso dinanzi al Presidente della Repubblica non risulta corretto, visto che è stata solo la prima ricorrente ad avvalersi di tale procedimento, e che i procedimenti dinanzi al Presidente della Repubblica sono considerati un ricorso straordinario del quali i ricorrenti non sono obbligati ad avvalersi al fine di soddisfare il requisito previsto dall’articolo 35 della Convenzione (si veda Nasalli Rocca c. Italia (dec.), n. 8162/02, 31 marzo 2005).
30. Tuttavia, la Corte osserva che, come risulta dalla giurisprudenza nazionale (si veda il diritto e la prassi interni pertinenti sopra citati), la questione in esame nel caso di specie è stata ripetutamente presentata dinanzi ai tribunali nazionali, che hanno regolarmente rigettato le richieste dei ricorrenti. In tali circostanze la Corte può convenire sul fatto che portare il procedimento dinanzi ai tribunali amministrativi regionali e presentare in seguito un appello dinanzi al Consiglio di Stato non offriva prospettive di successo. Pertanto, in linea con la mancanza di obiezioni del Governo a tale proposito, la Corte non trova motivi per respingere questa parte del ricorso per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.
31. La stessa cosa vale per il motivo di ricorso proposto dall’ottavo ricorrente in via subordinata.
32. La Corte osserva inoltre che, visto che la prima ricorrente tentò l’esame anche nel 2008 e nel 2009, non si pone alcun problema rispetto al limite di tempo dei sei mesi da calcolare a partire dalla data in cui ha presentato il sopracitato ricorso straordinario.
33. Infine, la Corte osserva che questa parte del ricorso non è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 (a) della Convenzione. La Corte rileva peraltro che non incorre in nessun altro motivo di irricevibilità. E’ quindi opportuno dichiararlo ricevibile.
B. Sul merito
1. Argomenti delle parti
(a) I ricorrenti
34. I ricorrenti sostengono che le limitazioni applicabili all’accesso ai corsi di laurea di loro scelta, vale a dire la base per l’applicazione del numero chiuso, sono contrarie alla Costituzione e alla normativa comunitaria.
35. Asseriscono inoltre che i fini perseguiti dalla legge non sono né legittimi né proporzionati. In particolare, pur riconoscendo la necessità di garantire un adeguato livello di competenze per i futuri professionisti, contestano i due criteri stabiliti dalla Legge n. 264/1999, applicabile agli atenei pubblici e privati. Inoltre ritengono che i fabbisogni della comunità non possano essere valutati unicamente sulla base del settore pubblico, in particolare visto che la maggior parte dei professionisti, soprattutto in campo odontoiatrico, svolgono la loro attività nel settore privato. Inoltre, la valutazione si basava su un dato totalmente locale non prendendo in considerazione la possibilità che le persone che studiavano in Italia avrebbero potuto andare a svolgere la loro professione in un altro paese.
36. I ricorrenti spiegano che il numero di posti per ogni corso universitario è stato stabilito dal Ministero dell’Università su base regionale in conformità con i fabbisogni della zona. Tuttavia, recentemente, le istituzioni italiane si sono rese conto che l’accesso limitato aveva determinato una mancanza di professionisti tanto che alcune regioni avevano dichiarato che presto nei loro ospedali vi sarebbe stata carenza di medici e di odontoiatri. Citano ad esempio (come riportato dalla stampa) la regione Lombardia, che aveva calcolato che entro il 2015 avrebbe perso il 40% della attuale forza lavoro (medici e odontoiatri) a causa dei pensionamenti. La regione aveva quindi chiesto al Governo di abolire l’attuale sistema dell’accesso limitato, ma il Ministero della Salute italiano aveva ritenuto che in Italia vi fossero già più medici del necessario. I ricorrenti ritengono che il punto di saturazione di un settore non rappresenti un motivo legittimo per impedire agli operatori l’accesso al mercato. L’opinione dei ricorrenti è che il vero scopo delle limitazioni sia quello di proteggere gli interessi dei medici e degli odontoiatri limitando la concorrenza nel settore, un fine in conflitto con la normativa comunitaria. In particolare, contestano l’applicazione delle misure restrittive agli atenei privati che potrebbero, al contrario, aumentare il numero delle ammissioni senza causare un ulteriore onere finanziario per lo Stato. Pertanto, l’attuale sistema impediva l’accesso dei ricorrenti ad un corso di studi di loro scelta, anche corrispondendo un pagamento a un ateneo privato o, se necessario, anche a un ateneo statale. Ciò equivale a una limitazione del loro diritto all’istruzione senza un valido motivo. A questo proposito, i ricorrenti fanno presente che nella causa linguistica del Belgio, la Corte ha ritenuto adeguata la misura impugnata in considerazione del fatto che non impediva a tali ricorrenti di iscriversi (a loro spese) a scuole private della regione di lingua francese.
37. I ricorrenti osservano che la Corte è stata adita per determinare la compatibilità con la Convenzione delle misure in questione e non i fatti di causa esaminati dai tribunali nazionali. Ritengono che la misura, vale a dire la combinazione dei test di accesso con la limitazione basata sul «fabbisogno della società di una particolare professione» (e non il numero chiuso per se), non siano adeguati a raggiungere il fine perseguito.
38. Inoltre asseriscono che l’esistenza di un esame di abilitazione professionale volto a valutare l’adeguata preparazione di medici e di odontoiatri alla fine del ciclo di studi universitari, renda innecessaria la limitazione precedente all’accesso al corso universitario. Inoltre il test di accesso consiste in un questionario a scelta multipla ed è pertanto utile unicamente a valutare nozioni scolastiche e non la naturale predisposizione individuale. Asseriscono che l’esito del test è casuale, inadeguato e contaminato da numerosi episodi di corruzione e di errori nella formulazione delle domande. Affermano che la maggior parte di loro ha ottenuto ottimi giudizi negli altri diplomi e che pertanto non si può attribuire l’esito negativo ottenuto nel test di accesso alla mancanza di preparazione ma all’esiguo numero di posti fissato. Citano ad esempio l’esame per odontoiatria del 2010, in cui, per ogni posto disponibile, vi erano 26 candidati.
(b) Il Governo
39. Il Governo osserva che, in linea di principio, la limitazione dell’accesso agli studi universitari non è incompatibile con l’articolo 2 del Protocollo n. 1, tenendo presenti le risorse disponibili e il fine di ottenere alti livelli di professionalità, in particolare rispetto a professioni critiche come quelle attinenti al campo della medicina. Pertanto, l’applicazione del numero chiuso non può violare la citata norma se è ragionevole e nell’interesse generale della società. La materia ricade nell’ampio margine di apprezzamento dello Stato.
40. Nel caso di specie, lo Stato ha optato per un processo di selezione basato su un test attitudinale, che fornisce una valutazione oggettiva consentendo ai migliori candidati di beneficiare del limitato numero di posti disponibili. Ritiene inoltre che la raccomandazione dell’AA non riguarda l’aspetto generale che giustifica la misura e osserva che non spetta alla Corte esaminare i fatti che hanno portato i tribunali nazionali ad adottare determinate particolari decisione piuttosto che altre.
41. Il Governo inoltre ritiene che la situazione dell’ottavo ricorrente è conforme a regole prestabilite.
2. Valutazione della Corte
(a) Principi generali
42. La Corte ribadisce che le garanzie di cui all’articolo 2 del Protocollo n. 1 si applicano alle istituzioni didattiche di ordine superiore presenti all’interno degli Stati membri del Consiglio d’Europa e che l’accesso a tutte le istituzioni didattiche di ordine superiore esistenti in un dato momento è parte intrinseca del diritto enunciato nella prima frase dell’articolo 2 del Protocollo n. 1 (si veda Leyla Şahin c. Turchia [GC], n. 44774/98, §§ 134-42, CEDU 2005-XI, e Mürsel Eren c. Turchia, n. 60856/00, § 41, CEDU 2006 II).
43. A dispetto della sua importanza, tale diritto non è, tuttavia, assoluto, ma può essere soggetto a limitazioni; esse sono permesse in quanto il diritto di accesso «per la sua stessa natura, richiede di essere regolamentato dallo Stato» (si veda «Cause relative ad alcuni aspetti del regime linguistico dell’insegnamento in Belgio» c. Belgio (Sul merito), 23 luglio 1968, Series A n. 6). Effettivamente, la regolamentazione delle istituzioni responsabili dell’istruzione può variare nel tempo e nello spazio, inter alia, in conformità con i fabbisogni e le risorse della comunità e con le caratteristiche peculiari dei diversi gradi di istruzione. Di conseguenza, gli Stati contraenti godono di un certo margine di apprezzamento in questo campo, sebbene la decisione finale relativa al rispetto dei requisiti della Convenzione spetta della Corte (si veda Leyla Şahin, [GC], sopra citata, § 154 e , Ali c. il Regno Unito, n. 40385/06, § 53, 11 gennaio 2011).
44. Al fine di assicurare che le limitazioni imposte non ledano il diritto in questione al punto da comprometterne la stessa essenza e privarlo della sua efficacia, la Corte può solamente riconoscere che esse sono prevedibili per le persone interessate e che perseguono un fine legittimo. Tuttavia, al contrario di quanto accade con gli articoli da 8 a 11 della Convenzione, la Corte non è vincolata da una lista esaustiva dei «fini legittimi» perseguiti dall’articolo 2 del Protocollo n. 1. Inoltre, una limitazione sarebbe compatibile con l’articolo 2 del Protocollo n. 1 unicamente se vi fosse una ragionevole relazione di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito (si veda Leyla Şahin, [GC], sopra citata, § 154).
45. La Corte osserva che l’articolo 2 del Protocollo n. 1 permette comunque di limitare l’accesso ai corsi universitari solo a coloro che abbiano debitamente presentato domanda di accesso e abbiano superato il relativo test di accesso (si veda Lukach c. Russia (dec.), n. 48041/99, 16 novembre 1999).
(b) Motivo di ricorso comune a tutti i ricorrenti
46. Nel caso di specie, la Corte prende atto che le limitazioni scelte dallo Stato italiano, vale a dire il test di accesso e il numero chiuso per se, sono prevedibili in virtù della Legge n. 127/1997 e della Legge n. 264/1999, promulgata successivamente, di ulteriore approfondimento sulla applicazione del numero chiuso.
47. La Corte rileva inoltre che tali limitazioni rispondono al fine legittimo di raggiungere alti livelli di professionalità, assicurando un livello di istruzione minimo e adeguato in atenei gestiti in condizioni adeguate, e che questo è nell’interesse generale.
48. Per quanto riguarda la proporzionalità delle limitazioni, prima di tutto in relazione al test di accesso, la Corte osserva che la valutazione dei candidati attraverso opportuni test al fine di identificare gli studenti più meritevoli è una misura proporzionata volta a garantire un livello di istruzione minimo e adeguato negli atenei. Per quanto riguarda il contenuto dei test, sebbene in un contesto diverso, la Corte ha ritenuto in Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen c. Danimarca (7 dicembre 1976, § 53, Serie A n. 23) che l’istituzione e la programmazione dell’offerta formativa rientra, in linea di principio, nelle competenze dello Stato contraente, e non spetta alla Corte deliberare su tali materie. Analogamente, la Corte non è competente per decidere sul contenuto o sulla adeguatezza dei test interessati.
49. Per quanto riguarda il numero chiuso, la Corte osserva che i ricorrenti concentrano il ricorso sulla base usata per l’applicazione del numero chiuso, vale a dire sui due criteri che si riferiscono a) alla valutazione dell’offerta potenziale del sistema universitario, e b) al fabbisogno della società di una particolare professione – la Corte ritiene che debba essere raggiunto un equilibrio tra l’interesse soggettivo dei ricorrenti e quello dell’intera società, ivi compresi gli altri studenti che frequentano i corsi universitari. La Corte osserva che i due criteri sono in linea con la propria giurisprudenza che ritiene che la regolamentazione del diritto all’istruzione possa variare a seconda dei fabbisogni e delle risorse della comunità e degli individui (si veda La causa linguistica del Belgio, sopra citata). Osserva inoltre che, nel caso di specie, tali limitazioni devono essere viste nel contesto del più alto grado di istruzione, vale a dire dell’istruzione universitaria.
50. Per quanto riguarda il primo criterio, l’analisi delle risorse è certamente rilevante e indubbiamente accettabile – una nozione che consegue logicamente dalla interpretazione data alla norma, vale a dire che il diritto all’istruzione comprende l’accesso a tutte le istituzioni didattiche di ordine superiore «presenti» in un dato momento (ibid.). La Corte ribadisce che la Convenzione non prevede obblighi specifici relativi alla quantità dei mezzi di istruzione e al modo in cui essi sono organizzati o finanziati (si veda X c. Regno Unito, n. 8844/80, Decisione della Commissione del 9 dicembre 1980, DR 23, p. 228, e Georgiou c. Grecia (dec.), n. 45138/98, 13 gennaio 2000). Pertanto il diritto di accesso all’istruzione esiste solo nella misura in cui essa è disponibile ed entro i limiti ad essa pertinenti. La Corte osserva che tali limiti dipendono spesso dalle risorse necessarie per gestire tali istituzioni comprese, inter alia, le risorse umane, materiali e finanziarie con la relative analisi, come la qualità di tali risorse e che questo aspetto è particolarmente rilevante per gli atenei statali.
51. Per quanto riguarda la doglianza dei ricorrenti relativa alla applicazione delle stesse limitazioni anche agli atenei privati e pertanto a un tipo di istruzione per il quale sarebbero disponibili a pagare, è innegabile che le risorse relative all’istruzione teorica e pratica dipendano effettivamente dai capitali umani, materiali e finanziari degli atenei privati e che pertanto, su tale base, sarebbe possibile avere numeri di posti più elevati senza causare un ulteriore onere per lo Stato e per le sue istituzioni. Tuttavia bisogna tener conto del fatto che il settore privato in Italia si basa parzialmente su sussidi statali e, ancora più importante, che nelle attuali circostanze la Corte non ritiene sproporzionata o arbitraria la regolamentazione che lo Stato fa delle istituzioni private visto che tale regolamentazione può essere considerata necessaria per impedire l’ammissione o l’esclusione arbitraria e per garantire un uguale trattamento delle persone. Si rammenta infatti, che il diritto fondamentale di ogni persona all’istruzione è un diritto garantito in modo paritario agli studenti delle scuole statali e indipendenti, senza distinzione (si veda Leyla Sahin, [GC], sopra citata, § 153), e che di conseguenza, lo Stato ha l’obbligo di regolamentarlo per assicurare il rispetto della Convenzione. In particolare, la Corte ritiene che sia giusto che lo Stato regolamenti rigorosamente tale settore – soprattutto nel campo degli studi in questione in cui un livello minimo e adeguato di istruzione è della massima importanza – per garantire che l’accesso alle istituzioni private non sia disponibile unicamente in base alle possibilità finanziarie dei candidati, a prescindere dai loro titoli e predisposizione per la professione.
52. Inoltre, la Corte riconosce che il sovraffollamento delle classi possa essere dannoso ai fini dell’efficacia del sistema educativo tanto da costituire un ostacolo per l’acquisizione di una specifica esperienza formativa.
53. Pertanto, tenendo presenti gli interessi concorrenti, la Corte ritiene che il primo criterio imposto sia legittimo e proporzionato.
54. Per quanto riguarda il secondo criterio, vale a dire il fabbisogno della società di una particolare professione, la Corte ritiene che tale interpretazione sia invero restrittiva in quanto adotta unicamente una prospettiva nazionale relativa, oltretutto, al settore pubblico, ignorando in questo modo i fabbisogni derivanti dal più ampio contesto europeo o privato. Inoltre, sembra essere poco lungimirante visto che non prenderebbe seriamente in considerazione i futuri fabbisogni locali.
55. Tuttavia, secondo l’opinione della Corte tale misura è comunque equilibrata visto che il Governo è autorizzato ad adottare misure al fine di evitare un’eccessiva spesa pubblica. La Corte osserva che la formazione di determinate specifiche categorie di professionisti rappresenta un enorme investimento e che è pertanto ragionevole che lo Stato aspiri all’assorbimento da parte del mercato del lavoro di ogni candidato promosso. Effettivamente una indisponibilità di posti di lavoro per tali categorie dovuta alla saturazione del mercato del lavoro rappresenta un motivo di ulteriori spese visto che la disoccupazione è indubbiamente un onere sociale che grava sull’intera società. Visto che è impossibile che lo Stato possa prevedere con certezza quanti saranno i laureati che cercheranno di uscire dal mercato locale andando a lavorare all’estero, la Corte non può ritenere irragionevole che lo Stato eserciti prudenza e dunque basi la sua politica sul presupposto che una alta percentuale di loro rimanga nel paese per cercarvi lavoro. Secondo l’opinione della Corte, pertanto, anche il secondo criterio risulta essere proporzionato.
56. Infine, la Corte osserva che ai ricorrenti non è stato negato il diritto di iscriversi ad altri corsi di laurea per i quali avessero espresso un interesse (si veda, mutatis mutandis, Lukach, (dec.) sopra citata) e rispetto ai quali avevano il requisito del titolo, né è stata negata loro l’opportunità di proseguire i loro studi all’estero in linea con il loro eventuale desiderio di continuare le carriera all’estero. Inoltre, dato che non risulta esservi un limite al numero di volte che un candidato può sostenere l’esame, i candidati hanno ancora l’opportunità di superarlo e di avere accesso al corso di laurea di loro prima scelta.
57. In conclusione, la Corte ritiene che le misure imposte non siano sproporzionate e che nell’applicare tali misure lo Stato non sia andato oltre il proprio margine di apprezzamento.
58. Ne consegue che non vi è stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 1 alla Convenzione.
(c) Motivo di ricorso relativo al sig. Marcuzzo
59. Visto che si può affermare che la richiesta di cui al ricorso dell’ottavo ricorrente va oltre quanto sopra discusso, in quanto gli è stato chiesto di sostenere nuovamente il test di accesso dopo essere stato escluso dal corso di laurea in seguito ad una assenza di otto anni, la Corte osserva che non si può sostenere che la misura fosse imprevedibile. Ritiene inoltre che non sembra irragionevole escludere da un corso di studi uno studente che non ha sostenuto esami per otto anni consecutivi, soprattutto in considerazione del fatto che al corso universitario in questione si applica il numero chiuso. Di conseguenza, la Corte ritiene che la misura perseguisse un fine legittimo e che, alla luce del diritto dello Stato di regolamentare il diritto all’istruzione, fosse proporzionata. Infatti essa raggiugeva un equilibrio tra gli interessi del ricorrente da una parte e quelli delle altre persone che desideravano iscriversi a tale corso e il fabbisogno dell’intera comunità dall’altra.
60. Ne consegue che non vi è stata violazione rispetto a questa parte del motivo di ricorso relativo all’ottavo ricorrente.
II. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 DELLA CONVENZIONE
61. La prima ricorrente lamenta l’ingiustizia dei procedimenti, in particolare il loro esito, il fatto che il tribunale nazionale non ha richiesto il rinvio alla CGE per garantire la conformità delle misure con la normativa europea, e la mancanza di motivazioni, visto che la decisione del 28 aprile 2009 non ha risposto a tutte le argomentazioni proposte. Invoca l’articolo 6 § 1 della Convenzione, che, per quanto rilevante, recita quanto segue:
«1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile […].»
62. La Corte osserva che la prima ricorrente, presentando un appello speciale al Presidente della Repubblica nel 2007, non ha avviato un procedimento contenzioso del tipo descritto all’articolo 6 della Convenzione (si veda Nardella c. Italia (dec.), n. 45814/99, CEDU 1999 VII, e Nasalli Rocca (dec.), sopra citata), e che, pertanto, la disposizione non è applicabile.
63. Ne consegue che la doglianza è incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione ai sensi dell’articolo 35 § 3 e deve essere respinta ai sensi dell’articolo 35 § 4 della Convenzione.
III. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 14 DELLA CONVENZIONE
64. I ricorrenti (con l’eccezione della prima ricorrente) lamentano di essere stati discriminati, in contrasto con quanto previsto dall’articolo 14, che prevede quanto segue:
«Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.»
65. I ricorrenti affermano che gli studenti che hanno appena conseguito il diploma di scuola secondaria hanno maggiori opportunità di superare un esame di tipo nozionistico, in particolare i test basati su programmi di scuola secondaria superiore, e che pertanto il sistema risulta discriminatorio sulla base dell’età.
66. La Corte osserva che l’università è una istituzione basata sulle conoscenze, e che pertanto non può essere ritenuto irragionevole o arbitrario predisporre esami basati sulle conoscenze. Oltretutto non è stato dimostrato che persone di una certa età abbiano maggiori difficoltà a superare l’esame. Il motivo di ricorso è pertanto infondato. Infine, la Corte ritiene che la percezione soggettiva che un ricorrente può avere di un esame non solleva in sé una questione ai sensi dell’articolo 14.
67. Ne consegue che il motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere respinto ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE
1. Dichiara all’unanimità il motivo di ricorso relativo all’articolo 2 del Protocollo n. 1 alla Convenzione ricevibile e i restanti ricorsi irricevibili;
2. Dichiara con 6 voti contro 1 che non vi è stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 1 alla Convenzione;
3. Dichiara all’unanimità che non vi è stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 1 alla Convenzione per quanto riguarda l’ulteriore motivo di ricorso dell’ottavo ricorrente.
Fatta in inglese, poi comunicata per iscritto il 2 aprile 2013, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.
Françoise Elens-Passos Danutė Jočienė
Cancelliere aggiunto Presidente
Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione dell’opinione parzialmente dissenziente del giudice Pinto de Albuquerque.
D.J.
F.E.P.
ALLEGATO
Ricorsi nn. Data di presentazione Nome, data di nascita, residenza
25851/09
18/05/2009 OMISSIS
22/07/1988
Palermo
29284/09
02/11/2009 OMISSIS
30/01/1973
Catania
64090/09
16/11/2009 OMISSIS
22/10/1985
Milano
OMISSIS
01/06/1966
Macerata
OMISSIS
21/01/1969
Piacenza
OMISSIS
11/12/1967
Catania
OMISSIS
24/04/1969
Catania
OMISSIS
23/11/1974
Siracusa
OPINIONE PARZIALMENTE DISSENZIENTE DEL GIUDICE PINTO DE ALBUQUERQUE
La causa Tarantino e altri riguarda il sistema del numero chiuso imposto dallo Stato per accedere agli studi universitari, pubblici o privati, in relazione a determinati corsi di laurea, come odontoiatria e medicina. La causa verte sui criteri non proporzionati utilizzati dal Governo convenuto nel regolamentare il numero chiuso, ma alla base della questione relativa alla proporzionalità ci sono temi fondamentali, come la portata e le implicazioni del diritto all’istruzione universitaria nonché il margine di apprezzamento degli Stati parte nel disciplinare l’accesso alle università. Con tutto il dovuto rispetto, non posso concordare con la maggioranza, dal momento che reputo i criteri utilizzati dallo Stato convenuto sicuramente non proporzionati. Quanto alle altre doglianze dei ricorrenti, condivido l’opinione della maggioranza.
Istruzione universitaria come diritto dell’uomo
Il diritto all’istruzione universitaria è un diritto dell’uomo. Nonostante la formulazione negativa dell’articolo 2 del Protocollo n. 1 alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo (la Convenzione), gli Stati parte hanno l’obbligo positivo non solo di assicurare l’accesso alle scuole e agli istituti di istruzione esistenti e di garantire il riconoscimento ufficiale degli studi compiuti[1], ma anche quello di promuovere l’accesso allo studio di ogni candidato, prevedendo, ove necessario, ulteriori opportunità di istruzione. Questo vasto obbligo internazionale è enunciato anche dall’articolo 28 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo (193 Stati parte, tra cui lo Stato convenuto, che l’ha ratificata nel 1991 senza riserve), in combinato disposto con l’articolo 26 (1) della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e con l’articolo 13 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali (160 Stati parte, tra cui lo Stato convenuto, che lo ha ratificato nel 1978 senza riserve)[2]. L’obbligo degli Stati parte corrisponde al diritto all’istruzione all’interno di un sistema scolastico pubblico[3], ivi comprese le università statali[4].
Infatti, gli Stati parte hanno il potere di regolamentare l’accesso all’istruzione e a fortiori agli studi universitari[5], ma questa regolamentazione è soggetta alla supervisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (la Corte), come in caso di diniego di accesso all’università a causa del mancato accertamento, nei tempi opportuni, di requisiti specifici[6], di rifiuto di riammettere uno studente a ripetere il primo anno degli studi universitari in ragione del mancato superamento degli esami del primo anno e della scarsa frequenza delle lezioni obbligatorie[7], di sospensione o espulsione dall’università o da altri istituti di istruzione superiore[8], di annullamento dei risultati del test di ammissione all’università[9], di divieto di sostenere un esame universitario o di forzata interruzione degli studi a causa dell’esecuzione di una pena detentiva[10].
Dal momento che il diritto all’istruzione comprende la libertà di provvedere all’educazione, l’articolo 2 del Protocollo n. 1 abbraccia anche il diritto di fondare e gestire scuole e università private[11]. Sebbene questo diritto non comporti un obbligo positivo per lo Stato di finanziare scuole e università private [12], esso impone l’obbligo negativo di non discriminarle, ad esempio, evitando di imporre vincoli, restrizioni o divieti ingiustificati rispetto alle scuole e alle università statali.
Il margine di apprezzamento dello Stato nella regolamentazione delle università
I governi godono di una certa discrezionalità nell’esercizio delle loro funzioni di regolamentazione delle scuole statali[13]. Gli Stati parte possono imporre un periodo di frequenza obbligatorio delle scuole statali[14], ma le scuole statali hanno l’obbligo di provvedere all’insegnamento delle lingue nazionali[15], di trasmettere il sapere in modo oggettivo, critico e pluralistico[16] e di garantire che nelle classi non vi sia discriminazione[17] ma un ambiente sicuro, privo di qualsivoglia forma di maltrattamento[18]. I governi non possono esercitare sulle scuole private lo stesso livello di controllo che esercitano su quelle statali. Se le scuole statali godono di un certo grado di autonomia istituzionale, in linea con la politica di ciascuno Stato nel campo dell’istruzione, le scuole private devono godere di un grado di autonomia maggiore.
L’autonomia istituzionale include, come minimo, la costituzione del curriculum accademico e il controllo sull’ammissione, valutazione, sospensione ed espulsione degli studenti, la selezione e promozione del personale accademico e amministrativo e l’organizzazione finanziaria e di bilancio dell’istituto[19]. In quanto garanzia essenziale della libertà accademica, l’autonomia istituzionale è, al contempo, la migliore garanzia della libertà di provvedere all’educazione e del diritto all’istruzione[20]. Qualora il Governo o un’altra autorità pubblica intervenisse nella regolamentazione di uno di questi aspetti, imponendo a priori determinate regole o annullando a posteriori regole o decisioni approvate dalle scuole private, ebbene questo intervento dovrebbe essere conforme ai rigidi requisiti della necessità e della proporzionalità[21]. Ne consegue che il margine di apprezzamento degli Stati parte è più ampio in relazione alla regolamentazione delle scuole pubbliche e meno ampio in relazione alle scuole private. Un margine di apprezzamento ancora più limitato si applica a fortiori all’istruzione superiore, nella quale l’autonomia istituzionale svolge un ruolo chiave[22]. Per contro, tanto più uno Stato finanzia le scuole e le università private, tanto maggiore è il suo margine di apprezzamento.
L’applicazione dello standard della Convenzione al caso di specie
Il Governo italiano individua il numero chiuso per l’accesso ai corsi di laurea in medicina e odontoiatria nelle università pubbliche e private sulla base di due criteri: l’offerta potenziale del sistema universitario e il fabbisogno di professionalità del sistema sociale. In realtà, il secondo criterio fa riferimento alle esigenze del settore del servizio sanitario nazionale. Questi criteri sono il risultato del lavoro di un tavolo tecnico cui partecipano anche rappresentanti della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri. Il numero dei posti per ciascun ateneo è determinato su base regionale. In generale, l’aumento del numero dei posti assegnati a un particolare ateneo è controbilanciato da una diminuzione del numero dei posti assegnati ad altri atenei della stessa regione.
Il primo criterio è giustificato dal Governo convenuto sulla base della necessità di garantire elevati standard qualitativi della formazione universitaria e un alto grado di professionalità degli ordini medici e odontoiatri, garantendo, in particolare, un rapporto bilanciato tra studenti e personale accademico, un uso razionale delle risorse materiali disponibili e l’accesso controllato ai tirocini presso ospedali pubblici e, di conseguenza, al mercato del lavoro. Pertanto il numero chiuso è presentato come una sorta di formula magica, che ha lo scopo di prevenire il sovraffollamento negli atenei, con pochi professori e troppi studenti, che in questo modo non avrebbero l’opportunità di compiere un tirocinio prima di entrare nel mondo del lavoro.
Il secondo criterio è giustificato dal Governo convenuto in quanto finalizzato a prevenire, oggi e in futuro, una spesa pubblica eccessiva, dal momento che l’insegnamento e il tirocinio dei medici chirurghi e odontoiatri comporta una spesa notevole per questa generazione e un’eventuale saturazione del mercato del lavoro implicherebbe un’ulteriore spesa, considerati gli oneri sociali legati alla disoccupazione.
Purtroppo entrambi questi criteri sono privi di fondamento, dal momento che essi appartengono più alla fantasia che alla realtà.
Offerta potenziale del sistema universitario come criterio del numero chiuso
Il Governo convenuto non ha fornito alla Corte alcun dato relativo all’offerta potenziale del sistema universitario in grado di giustificare il numero chiuso introdotto negli anni 2007-2009. Il Governo convenuto non ha spiegato neppure perché il numero chiuso debba essere applicato alle università private.
In effetti, le decisioni dei ministeri relative al numero chiuso non adducono motivazioni tecniche, ma sono il risultato di scelte discrezionali[23]. Non sussiste alcun fondamento oggettivo per questa scelta politica, che è svincolata da qualsiasi motivazione oggettiva realmente fondata.
Ma ancora peggio, questo criterio ignora il semplice fatto che in Italia le università private sono in larga parte indipendenti dal finanziamento statale e che, pertanto, potrebbero aumentare il numero dei posti disponibili a proprie spese. Come già esposto in precedenza, il Governo convenuto dispone di un margine di apprezzamento molto limitato nell’imporre eventuali limitazioni alle università private[24] e alla Corte non ha comunicato alcuna ragione sostanziale idonea a giustificare questa grave ingerenza nel diritto di fondare università private e nella loro autonomia istituzionale. Pertanto, le università italiane private hanno il diritto di determinare da sole i limiti al numero delle immatricolazioni, tenendo conto delle proprie risorse finanziarie, materiali e umane. In altri termini, il numero chiuso imposto dallo Stato alle università private interferisce in maniera grave con la libertà di provvedere all’educazione, nella misura in cui impedisce alle università private, che dispongono di infrastrutture materiali adeguate e di sufficiente personale, di aumentare il numero dei posti disponibili a proprie spese, ma interferisce anche con il diritto all’istruzione, in quanto nega l’accesso all’università a coloro che sono in grado di finanziare a proprie spese il costo di questo servizio[25]. Ne consegue che il contestato regime del numero chiuso non rispetta il principio della proporzionalità, anche solo considerando il primo criterio utilizzato dal Governo convenuto.
Il fabbisogno di professionalità del sistema sociale come criterio del numero chiuso
Il Governo convenuto interpreta il fabbisogno del sistema sociale come il fabbisogno del servizio sanitario nazionale italiano. Questo criterio aggrava la mancanza di proporzionalità dell’ingerenza dello Stato convenuto nel diritto all’istruzione, in quanto non tiene conto del fatto che il settore sanitario italiano include anche il settore privato, che ha esigenze sue proprie[26]. Questa omissione è particolarmente censurabile nel caso di odontoiatria, dal momento che la stragrande maggioranza degli odontoiatri lavora nel settore privato[27]. Inoltre, questo criterio non tiene conto del fatto che l’Italia è parte di un mercato più esteso di servizi sanitari e, segnatamente, l’Unione Europea, nella quale i liberi professionisti hanno la facoltà di circolare e lavorare liberamente[28]. Per di più, questo criterio è sostanzialmente in contrasto con lo Spazio europeo dell’istruzione superiore, che si sta sviluppando attraverso il Processo di Bologna[29], il quale auspica non solo una maggiore autonomia istituzionale per le università, nel senso che i singoli istituti sono i principali responsabili dell’assicurazione della qualità nell’istruzione superiore[30], ma anche all’ampliamento della partecipazione globale e, in particolare, all’aumento della partecipazione dei gruppi sottorappresentati nell’istruzione superiore[31]. Inoltre, questo criterio collide con lo spirito della Convenzione di Lisbona sul riconoscimento del 1997, che è alla base del Processo di Bologna[32]. Considerato da una prospettiva più ampia, questo criterio si scontra con l’obbligo degli Stati di rendere l’istruzione superiore egualmente accessibile a tutti, sulla base del merito, come statuito dall’articolo 13 (2) (c) del Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali[33] e dall’articolo 26 (1) della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo[34]. Il criterio ultimo per valutare i candidati è il merito, non il fabbisogno del mercato. Infine, questo criterio è fondamentalmente iniquo, giacché frappone a chi aspira ad entrare nel mercato un ostacolo, giustificandolo con l’asserito fabbisogno del mercato. Un nuovo concorrente può farsi strada con le proprie capacità e lavorando duramente e, pertanto, può riuscire dove altri falliscono. Infatti, l’esito pratico dell’attuale regime del numero chiuso è stato, purtroppo, quello di limitare la competizione tra i professionisti del settore sanitario e di mantenere il mercato della sanità rigido e inefficiente, dipendente dall’offerta statale o da servizi sanitari con tariffe artificiosamente elevate[35]. Di conseguenza i candidati, perlomeno quelli che possiedono i mezzi necessari per farlo, sono costretti ad andare a studiare all’estero[36].
L’arbitrarietà di questo regime giuridico, nelle forme in cui è stato messo in pratica, è lampante per il semplice fatto che non è servito ad altro scopo concreto, se non quello di avvantaggiare i professionisti che già operano nella sanità. Tanto è vero che al tavolo tecnico, che discute e determina le quote dei posti disponibili, partecipano le associazioni professionali, il che è un chiaro esempio di conflitto di interessi[37].
Conclusioni
Citando le parole di alcuni studiosi del Sud Africa espresse contro la politica del governo di contingentazione delle immatricolazioni, il giudice Frankfurter ha affermato: “È compito dell’università garantire un’atmosfera che favorisca la speculazione, la sperimentazione e la creazione. E’ un’atmosfera in cui prevalgono ‘le quattro libertà fondamentali’ dell’università – decidere autonomamente, sulla base di motivi accademici, chi può insegnare, che cosa può essere insegnato, come deve essere insegnato e chi deve essere ammesso allo studio.”[38] In altri termini, l’autonomia istituzionale è una condizione necessaria per la libertà dell’individuo di provvedere all’istruzione superiore e per il diritto dell’individuo all’istruzione superiore.
Alla luce di tali diritti e libertà, i criteri stabiliti dal Governo convenuto per il regime del numero chiuso si sono rivelati privi di fondamento, se non addirittura arbitrari, sia per il modo in cui sono stati concepiti, sia per il modo in cui sono stati messi in pratica. Pertanto, l’ingerenza nel diritto all’istruzione del ricorrente non è proporzionata e vi è stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 1.
________________________________________
[1] Causa “relativa ad alcuni aspetti del regime linguistico dell’insegnamento in Belgio” c. Belgio (merito), serie A, n. 6, § 42.
[2] Si veda altresì il Commento generale n. 13 del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali relativo al diritto all’educazione, E/C.12/1999/10, 8 dicembre 1999, par. 6, ove si sottolinea che “nella giurisdizione dello Stato parte devono essere disponibili, in quantità sufficiente, istituti e programmi di istruzione efficaci”, che si traduce nell’obbligo rafforzato di fondare istituti e organizzare programmi, laddove l’offerta non sia sufficiente. Inoltre, in una società democratica, il diritto all’istruzione, indispensabile per la promozione dei diritti dell’uomo, riveste un ruolo così fondamentale che un’interpretazione restrittiva della prima frase dell’articolo 2 del Protocollo n. 1 non corrisponderebbe allo scopo o all’oggetto di tale norma (si veda Leyla Şahin c. Turchia [GC], n. 44774/98, § 137, CEDU 2005 XI).
[3] Campbell e Cosans, serie A, n. 48, § 33 e Timishev c. Russia, n. 57762/00, §§ 63-67, 13 dicembre 2005.
[4] Leyla Sahin, sopra citata, § 137. Si veda altresì il par. 17 del Commento generale n. 13 del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali, sopra citato: “L’istruzione superiore include elementi di disponibilità, accessibilità, accettabilità e adattabilità che sono comuni allo studio in tutti gli ordini e gradi.”
[5] Leyla-Sahin, sopra citata, § 136.
[6] Lukach c. Russia (dec.), n. 48041/99, 16 novembre 1999.
[7] X c. Regno Unito, n. 8844/80, decisione della Commissione del 9 dicembre 1980.
[8] Irfan Temel e altri c. Turchia, n. 36458/02, 3 marzo 2009, Yanasik c. Turchia, n. 14524/89, decisione della Commissione del 6 gennaio 1993, e Sulak c. Turchia, n. 24515/94, decisione della Commissione del 17 gennaio 1996.
[9] Mursel Eren c. Turchia, n. 60856/00, 7 febbraio 2006.
[10] Georgiou c. Grecia (dec.), n. 45138/98, 13 gennaio 2000 e Durmaz, Isik, Unutmaz e Sezal c. Turchia (dec.), nn. 46506/99, 46569/99,46570/99 e 46939/99, 4 settembre 2001.
[11] Costello-Roberts c. Regno Unito, serie A, n. 247, § 27 Kjeldsen e altri c. Danimarca, serie A, n. 23, § 50. Si veda altresì l’articolo 13 (4) del PDESC, che afferma “la libertà degli individui e degli enti di fondare e dirigere istituti di istruzione” purché detti istituti siano conformi agli obiettivi educativi sanciti dall’articolo 13 (1) e a determinati standard minimi.
[12] Verein Gemeinsam Lernen c. Austria, n. 23419/94, decisione della Commissione del 6 settembre 1995, sul finanziamento delle scuole private non religiose e, in precedenza, X. c. Regno Unito, n. 7527/76, decisione della Commissione del 5 luglio 1977 e X. e Y. c Regno Unito, n. 9461/81, decisione della Commissione del 7 dicembre 1982, relative al finanziamento di scuole private religiose. Si veda altresì il par. 54 del Commento generale n. 13 del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali, sopra citato.
[13] Lautsi c. Italia (GC), n. 30814/06, 18 marzo 2011.
[14] Konrad c. Germania (dec.), n. 35504/03, 11 settembre 2006.
[15] Cipro c. Turchia (GC), n. 25781/94, §§ 273-280, 10 maggio 2001.
[16] Folgero e altri c. Norvegia (GC), n. 15472/02, 29 giugno 2007, Hasan e Eylem Zengin c. Turchia, n. 14448/04, 9 ottobre 2007 e Kjeldsen e altri, sopra citata, § 50. Si veda altresì il Commento generale n. 13 del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali, sopra citato, par. 28, che fa riferimento all’insegnamento “imparziale e obiettivo, rispettoso delle libertà di opinione, di coscienza e di espressione” e Keyishian c. Board of Regents, 385 US 589 (1967) nonché le parole ispiratrici del giudice Brennan sulla libertà accademica: “La nostra nazione è profondamente impegnata a salvaguardare la libertà accademica, che costituisce un valore trascendentale per tutti noi e non solo per gli insegnanti coinvolti.”
[17] D.H. e altri c. Repubblica ceca, n. 57325/00, 13 novembre 2007, e par. 31-34 e 59 del Commento generale n. 13 del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali, sopra citato.
[18] Campbell e Cosans, sopra citata, § 41.
[19] Si veda la Dichiarazione di Lisbona del 2009 dell’Associazione delle università europee, che stabilisce che “ciascuna università deve definire e perseguire la propria missione e, in tal modo, deve provvedere collettivamente al soddisfacimento dei bisogni tanto dei singoli paesi quanto dell’Europa intera”. Alla luce di questa missione, l’autonomia degli istituti deve includere “l’autonomia di tipo accademico (curricula, programmi e ricerca), l’autonomia finanziaria (lump sum budgeting), quella di tipo organizzativo (riguardante la struttura dell’università) e l’autonomia del personale (la responsabilità per quanto riguarda il reclutamento, gli stipendi e le promozioni)”. Sulla stessa linea, il paragrafo 40 del Commento generale n. 13 del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali, sopra citato, che recita: “Per la libertà accademica è necessaria l’autonomia degli istituti di istruzione superiore. L’autonomia è quel grado di autogoverno necessario affinché possano essere prese decisioni efficaci dagli istituti di istruzione superiore in relazione a lavoro accademico, standard, gestione e attività correlate.”. Sull’autonomia degli istituti delle università, si veda altresì l’opinione del giudice Powell in merito a una politica di ammissione che tiene conto della razza in Regents of University of California c. Bakke, 438 US 265, 312 (1978), l’opinione del giudice Stevens sulla politica universitaria di negare agli studenti l’utilizzo delle strutture del campus per finalità religiose in Widmar c. Vincent, 454 US 263, 278 (1981), l’opinione del giudice Stevens, adottata all’unanimità, sul potere di negare la riammissione di uno studente a seguito del mancato superamento di alcuni esami in Regents of University of Michigan c. Ewing, 474 US 214 (1985), l’opinione del giudice Souter, con cui concordano i giudici Stevens e Breyer, sulle tasse obbligatorie per finanziare le attività delle associazioni studentesche in Board of Regents of University of Wisconsin c. Southworth, 529 US 217 (2000) e l’opinione del giudice O’Connor sul programma di “azioni affermative” con attenzione verso la razza in Grutter c. Bollinger, 539 US 306, 329 (2003).
[20] A questo proposito, il principio dell’autonomia istituzionale delle università è strumentale sia all’interpretazione e applicazione delle leggi, sia alla risoluzione di contrastanti richieste di go