Conclusione Violazione di P4-2; Non – violazione di P4-2; Parzialmente inammissibile; Danno patrimoniale – richiesta respinta; Danno morale – constatazione di violazione sufficiente
SECONDA SEZIONE
CAUSA VILLA C. ITALIA
( Richiesta no 19675/06)
SENTENZA
STRASBURGO
20 aprile 2010
Questa sentenza diventerà definitiva nelle condizioni definite all’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire dei ritocchi di forma.
Nella causa Villa c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, riunendosi in una camera composta da:
Francesca Tulkens, presidentessa, Ireneu Cabral Barreto, Vladimiro Zagrebelsky, Danutė Jočienė, Dragoljub Popović, András Sajó, Nona Tsotsoria, giudici,
e da Sally Dollé, cancelliera di sezione,
Dopo avere deliberato in camera del consiglio il 30 marzo 2010,
Rende la sentenza che ha adottata in questa data:
PROCEDIMENTO
1. All’origine della causa si trova una richiesta (no 19675/06) diretta contro la Repubblica italiana e in cui un cittadino di questo Stato, il Sig. R. V. (“il richiedente”), ha investito la Corte il 20 aprile 2006 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2. Il richiedente è rappresentato da C. D., avvocato a La Spezia. Il governo italiano (“il Governo”) è stato rappresentato dal suo agente, la Sig.ra E. Spatafora, e dal suo co-agente, il Sig. F. Crisafulli.
3. Il richiedente adduce che le misure di sicurezza alle quali è stato sottomesso in seguito alla sua condanna al penale sono state arbitrarie e hanno avuto una durata eccessiva.
4. Il 25 giugno 2008, la presidentessa della seconda sezione ha deciso di comunicare al Governo la richiesta. Come permesso dall’articolo 29 § 3 della Convenzione, è stato deciso inoltre che la camera si sarebbe pronunciata sull’ammissibilità ed il merito allo stesso tempo.
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DELLO SPECIFICO
5. Il richiedente è nato nel 1963 e risiede a Milano.
A. Il processo penale contro il richiedente
6. Con un’ordinanza del 17 luglio 1997, la procura di Milano rinviò il richiedente in giudizio dinnanzi al giudice di istanza di questa stessa città. Secondo il capo di accusa, il 1 maggio 1997, il richiedente aveva minacciato di morte ed aveva ferito suo padre, X, con l’aiuto di un coltello.
7. I dibattimenti cominciarono il 13 maggio 1998. Il 28 settembre 1998, il padre del richiedente ed un agente di polizia furono interrogati. X produsse una pratica medica da cui risultava che il richiedente soffriva di una psicosi paranoide cronica ed era invalido civile al 100%. Il 14 novembre 1998, il giudice di istanza incaricò uno psichiatra ed una psicologa di procedere ad una perizia psichiatrica. Questa fu depositata alla cancelleria il 2 marzo 1999. Lo psichiatra ed il richiedente furono interrogati il 22 marzo 1999.
8. Con un giudizio del 4 maggio 1999 il cui testo fu depositato alla cancelleria il 19 maggio 1999, il giudice di istanza di Milano riconobbe il richiedente colpevole ma parzialmente irresponsabile dei suoi atti e lo condannò ad una pena di detenzione di tre mesi e quindici giorni. In applicazione dell’articolo 56 della legge no 689 del 1981, questa pena fu sostituita con sette mesi di libertà controllata (libertà controllata). A questa pena si aggiungeva una misura di sicurezza, ossia la libertà vigilata (libertà vigilata) per una durata di un anno.
9. Il giudice di istanza stimò che all’epoca dei fatti, il richiedente soffriva di un stress particolarmente elevato, provocato dalla pratica ossessiva del culturismo, associata a regimi alimentari draconiani. Delle crisi di epilessia erano sopraggiunte e l’interessato consumava all’infuori di ogni controllo medico degli psicofarmaci, degli steroidi anabolizzanti e delle anfetamine. Al termine di una disputa, aveva aggredito suo padre, poi aveva provato a suicidarsi.
10. Risultava dalla pratica che fin dall’adolescenza, il richiedente aveva mostrato dei disturbi della personalità di tipo socio-patologico che si erano aggravati poi ed avevano condotto al suo internamento. Nel 1989, era stato riconosciuto come invalido civile al 100% a causa della sua psicosi paranoide associata ad una mancanza di controllo delle sue pulsioni aggressive. Aveva bisogno di un’assistenza continua. Il richiedente non era cosciente della sua propria malattia che, senza abolirla, riduceva la sua capacità di comprendere e volere. Tenuto Conto anche di certi miglioramenti nel suo comportamento, delle circostanze attenuanti dovevano essere riconosciutegli.
11. Però, risultava dalla perizia psichiatrica che il richiedente che aveva delle forti pulsioni distruttrici, era socialmente pericoloso. Tenuto conto dell’insieme degli elementi a sua disposizione, il giudice di istanza stimò che una terapia di rieducazione era preferibile alla semplice punizione, e decise di sostituire la detenzione con la libertà controllata.
12. La pericolosità del richiedente motivò inoltre l’applicazione di una misura di sicurezza, ossia la libertà vigilata. Questa misura era preferibile a quella dell’internamento in una casa di cura (casa di cura e di custodia) proposta dalla procura, perché non limitava il diritto alla libertà dell’interessato. Difatti, secondo lo psichiatra, una privazione di libertà avrebbe avuto degli effetti devastatori su una persona che, come il richiedente, soffriva di agitazioni psichiche gravi.
13. Il giudizio del 4 maggio diventò definitivo il 20 luglio 1999.
B. la misura di sicurezza applicata al richiedente
14. Il richiedente scontò da prima, a partire dal 27 luglio 2000, sette mesi di libertà controllata. Questa sanzione implicava l’interdizione di lasciare il comune di Milano, l’obbligo di presentarsi una volta al giorno al commissariato di polizia, l’interdizione di portare delle armi e degli esplosivi, la sospensione della patente ed il sequestro del passaporto. Il richiedente doveva tenere inoltre su lui e doveva presentare, ad ogni domanda degli agenti di polizia, l’ordinanza che lo sottoponeva agli obblighi derivanti dalla libertà controllata.
15. Con un’ordinanza del 9 ottobre 2001, il giudice di applicazione delle pene di Milano dichiarò che il richiedente era ancora socialmente pericoloso e decise conformemente di sottoporlo, per una durata di un anno, a misura di sicurezza detta di libertà vigilata. Il giudice osservò in particolare che il 3 aprile 2000, la procura di Milano aveva chiesto il riesame della pericolosità sociale del richiedente e che, il 23 luglio 2001, l’interessato aveva aggredito un medico. Prima, aveva minacciato un altro medico ed aveva fatto atti vandalici al suo veicolo. In più, risultava da un rapporto medico che non aveva seguito le terapie consigliate ed aveva continuato ad utilizzare degli psicofarmaci e degli anabolizzanti. Quindi, si imponeva di sottoporlo a misura di sicurezza ordinata dal giudizio del 4 maggio 1999. Questa misura provocava per l’interessato i seguenti obblighi:
– presentarsi una volta al mese all’autorità di polizia incaricata della sorveglianza;
– mantenere dei contatti col centro psichiatrico dell’ospedale di Niguarda;
– abitare a Milano, al 18 di viale Abruzzi,;
– non allontanarsi dal comune dove risiedeva;
– restare presso il suo domicilio tra le 22h00 e le 7h00.
16. Il richiedente doveva tenere inoltre con sé e doveva presentare ad ogni domanda degli agenti di polizia l’ordinanza che lo sottoponeva agli obblighi derivanti dalla libertà vigilata, ordinanza che gli fu notificata il 17 ottobre 2001.
17. Il 18 dicembre 2001, il giudice di applicazione delle pene di Milano ordinò il collocamento del richiedente all’ospedale psichiatrico giudiziale di Montelupo Fiorentino fino al 5 ottobre 2002.
18. Il 4 ottobre 2002, questa misura fu prorogata fino al 9 aprile 2003. Tuttavia, il 5 novembre 2002 il giudice di applicazione delle pene di Firenze autorizzò il collocamento del richiedente al domicilio di suo padre, a Milano, a titolo di “permesso finale a titolo probatorio.” Il 14 novembre 2002, il richiedente lasciò l’ospedale psichiatrico per andare a Milano; a partire da questa data, fu sottoposto di nuovo al regime della libertà vigilata.
19. Questa misura fu prorogata fino al 9 ottobre 2003, poi fino al 9 febbraio, al 9 giugno, al 9 ottobre 2004 ed infine fino al 9 luglio 2005. Ogni volta, il giudice di applicazione delle pene di Firenze constatò che la pericolosità sociale del richiedente non era sparita. Anche se dei progressi erano in corso (in particolare, il richiedente aveva seguito un corso di formazione e, dopo un inizio difficile, aveva cominciato a frequentare un centro psichiatrico) degli elementi in senso contrario rimanevano, il che portava a pensare che la situazione non era ancora completamente rassicurante. In particolare, il richiedente aveva precisato che si sottoponeva solamente alle visite psichiatriche perché si trattava di un obbligo legale, e persisteva ad avere un rapporto conflittuale con suo padre. Secondo i medici, non era assolutamente cosciente della malattia da cui era colpito.
20. Il 1 luglio 2005, il giudice di applicazione delle pene di Firenze riprese l’esame della pratica. Decise che il richiedente non era più socialmente pericoloso e revocò la misura di sicurezza.
21. Osservò che il reato per cui il richiedente era stato condannato non era particolarmente grave e risaliva al 1997. Altri reati meno gravi per cui l’interessato aveva beneficiato di una riabilitazione, erano stati commessi negli anni 80. Dopo un periodo di libertà vigilata, a partire dal 22 gennaio 2002, il richiedente era stato internato in un ospedale psichiatrico giudiziale e, dal 14 novembre 2002, era posto al domicilio di suo padre. Nel suo insieme, questo collocamento era stato positivo, ed solo certe difficoltà personali e familiari avevano condotto il giudice a prorogare la misura. Nel frattempo, il richiedente aveva stabilito un rapporto corretto e cooperativo col centro psichiatrico di Milano, aveva cominciato a lavorare come istruttore di ginnastica e consultava, privatamente, uno psichiatra. La sua relazione con suo padre era migliorata.
22. Questa decisione, presa il 1 luglio, fu depositata alla cancelleria solo il 2 novembre 2005; fu notificata al richiedente il 7 novembre 2005.
C. la richiesta di risarcimento per durata eccessiva del procedimento
23. Il 29 dicembre 2005, il richiedente introdusse dinnanzi alla corte di appello di Brescia un’istanza sul fondamento della legge no 89 di 2001 (detta “legge Pinto”) per ottenere il risarcimento dei danni presumibilmente subiti a causa della durata eccessiva del procedimento penale di cui era stato oggetto. Adducendo che la fine del suo processo coincideva con la levata della misura di sicurezza, si lamentava di una durata di più di otto anni.
24. Con una decisione dell’ 8 marzo 2006, la corte di appello respinse questa istanza, al motivo che il procedimento penale era durato circa due anni. Il richiedente non ricorse in cassazione contro questa decisione.
II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE
25. Le misure di sicurezza sono regolamentate dagli articoli 199 a 240 del codice penale (CP). Ai termini dell’articolo 202 § 1, queste misure possono essere applicate solamente alle persone socialmente pericolose che hanno commesso un fatto stabilito come reato penale dalla legge.” È considerato come socialmente pericoloso colui che ha commesso tale fatto “quando è probabile che commetta dei nuovi fatti riconosciuti come reati penali dalla legge” (articolo 203 § 1).
26. Le misure di sicurezza, normalmente imposte dal giudice penale nel suo giudizio sul merito -articolo 205 § 1, possono essere revocate solo se il loro destinatario ha smesso di essere socialmente pericoloso (articolo 207 § 1). Dopo essere trascorso il periodo minimale fissato dalla legge per ogni misura, il giudice deve riesaminare la persona che è sottoposta, per determinare se è ancora socialmente pericolosa. In caso affermativo, il giudice deve fissare la data del prossimo esame. Può anticipare tuttavia questa data se ci sono delle ragioni di credere che il pericolo è cessato (articolo 208).
27. Le misure di sicurezza si dividono in misure personali e misure patrimoniali. Tra i primi figurano l’internamento in ospedale psichiatrico giudiziale (articolo 222) e la libertà vigilata. La persona sottoposto a questa ultima misura è “affidato all’autorità di sicurezza pubblica” per una durata minima di un anno; il giudice gli impone gli obblighi che possono essere modificati, che stima idoneo a prevenire la commissione di nuovi reati. La sorveglianza deve essere esercitata in modo da favorire, tramite il lavoro, il riadattamento dell’interessato alla vita sociale (articolo 228).
IN DIRITTO
I. SULLA VIOLAZIONE ADDOTTA DEGLI ARTICOLI 5 DELLA CONVENZIONE E 2 DEL PROTOCOLLO NO 4
28. Il richiedente considera che la misura di sicurezza di cui è stato oggetto ha avuto una durata eccessiva ed un carattere arbitrario. Invoca l’articolo 5 della Convenzione così come, nelle sue osservazioni, l’articolo 2 del Protocollo no 4.
L’articolo 5, nelle sue parti pertinenti, è formulato così:
“1. Ogni persona ha diritto alla libertà ed alla sicurezza. Nessuno può essere privato della sua libertà, salvo nei seguenti casi e secondo le vie legali:
a) se è detenuto regolarmente dopo condanna da parte di tribunale competente;
(…)
e) se si tratta della detenzione regolare (…)di un alienato(…). “
Ai termini dell’articolo 2 del Protocollo no 4
“1. Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di un Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di scegliere liberamente la sua residenza.
(…)
3. L’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di altre restrizioni se non quelle che, previste dalla legge, costituiscono delle misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla sicurezza pubblica, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati penali, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
(…) “
29. Il Governo contesta le affermazioni del richiedente.
A. Sull’ammissibilità
30. La Corte nota al primo colpo che la libertà controllata imposta al richiedente si è conclusa il 27 febbraio 2001 e che l’internamento dell’interessato in un ospedale psichiatrico giudiziale è cessato il 14 novembre 2002 (paragrafi 14 e 18 sopra). Ora, la presente richiesta è stata introdotta il 20 aprile 2006, o ben più di sei mesi dopo queste date.
31. Ne segue che per quanto riguardano delle misure della libertà controllata e dell’internamento psichiatrico, le affermazioni del richiedente sono tardive e devono essere respinte in applicazione dell’articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.
32. Ne va diversamente per la libertà vigilata, misura alla quale il richiedente è stato sottomesso fino nel novembre 2005 (paragrafo 22 sopra).
33. Nella misura in cui riguarda la necessità e la durata della libertà vigilata, il motivo di appello del richiedente non è manifestamente mal fondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione. La Corte rileva peraltro che non incontra nessun altro motivo di inammissibilità. Conviene dunque dichiararlo ammissibile.
B. Sul merito
1. Argomenti delle parti
( ha) Il richiedente
34. Il richiedente si oppone alla tesi del Governo (vedere qui di seguito paragrafi 37-38) secondo la quale la libertà vigilata non implicava una “privazione di libertà”. Ricorda, in particolare, gli obblighi che derivavano da questa misura, che stima particolarmente costrittiva.
35. La libertà sorvegliata era stata imposta inizialmente per una durata di un anno; questa misura è stata prorogata però, regolarmente. Ora, una privazione di libertà nella cornice dell’articolo 5 § 1 e) della Convenzione si giustifica solamente a tre condizioni: che l’autorità giudiziale abbia, con l’aiuto di una perizia medica indipendente, stabilita che una persona “è alienata”; che i disturbi mentali constatati siano gravi al punto da rendere necessario l’internamento; che un controllo regolare sia esercitato in quanto alla persistenza delle ragioni che giustificano l’internamento. Nello specifico, la misura di sicurezza non è stata tolta a dispetto dei progressi che il richiedente aveva compiuto.
36. In più, la decisione che revocava la misura di sicurezza, adottata il 1 luglio 2005, è stata notificata al richiedente solo il 7 novembre 2005, o 129 giorni più tardi. Questo ritardo è privo di giustificazione ragionevole. A questo riguardo, il richiedente contesta la tesi del Governo (vedere qui di seguito paragrafo 40) secondo cui questa decisione ha preso effetto il giorno del deposito del suo testo alla cancelleria, il 2 novembre 2005 e non il giorno della suo pronunzia.
( b) Il Governo
37. Il Governo osserva che la libertà sorvegliata si è conclusa il 4 novembre 2005, ciò che è attestato dall’ufficio dell’esecuzione presso la procura di Firenze. Osserva poi che l’articolo 5 della Convenzione non si applica a tutte le misure imposte al richiedente. Difatti, solo il periodo passato in internamento psichiatrico, dal 18 dicembre 2001 al 14 novembre 2002, dipenderebbe da questa disposizione, mentre i periodi di libertà controllata e di libertà vigilata ricadrebbero nel campo di applicazione solamente dell’articolo 2 del Protocollo no 4. Le restrizioni imposte da queste ultime misure non raggiungerebbero un livello di severità tale da poter parlare di privazione di libertà. Ad ogni modo, la libertà controllata era una pena autorizzata dal capoverso a) del paragrafo 1 dell’articolo 5 della Convenzione.
38. In quanto alla libertà vigilata, il richiedente viveva al suo domicilio abituale con suo padre e non era chiuso in un luogo determinato; era libero di andare e venire a suo gradimento per tutta la giornata, essendo la sola restrizione imposta l’interdizione di uscire la notte, tra le 22 ore e le 7 ore; poteva dedicarsi liberamente ai suoi obblighi abituali e non poteva avere altro obbligo di quello di presentarsi una volta al mese all’autorità di polizia. Le altre prescrizioni inerenti alla misura di sicurezza (come l’interdizione di portare delle armi) non aveva nessun legame con la libertà personale. L’interessato non subiva nessuna limitazione notevole nelle sue possibilità di contatto con terzi e non era sottoposto a nessuna sorveglianza rigorosa da parte della polizia. Queste circostanze differenzierebbero la presente causa dalla causa Guzzardi c. Italia (6 novembre 1980, serie A no 39).
39. Concernente il collocamento in esecuzione della decisione di revocare la misura di sicurezza, il Governo riconosce che in principio un termine eccessivamente lungo tra una decisione giudiziale di questo tipo e la data in quale i suoi effetti si producono può analizzarsi come un’incomprensione dell’articolo 2 del Protocollo no 4. Tuttavia, la valutazione del carattere eccessivo di tale termine non potrebbe farsi con la stessa severità di quella applicata in materia di privazione di libertà, perché il carattere accettabile o meno di un termine è in funzione della gravità delle conseguenze del suo scorrimento. Le restrizioni subite dal richiedente nello specifico si trovavano sotto al livello necessario affinché si possa parlare di “privazione di libertà”; essendo le conseguenze per l’interessato meno gravi, il termine accettabile tra la decisione ed il suo collocamento in opera può essere più lungo.
40. Nell’occorrenza, il punto di partenza del termine deve essere fissato nella data del deposito alla cancelleria della decisione del giudice di applicazione delle pene di Firenze, 2 novembre 2005. Difatti la decisione di revoca non è stata pronunciata nella cornice di un procedimento penale in cui la sentenza è pronunciata alla conclusione dell’udienza ed è stata resa immediatamente esecutiva. Nel procedimento applicabile nello specifico, alla fine dell’udienza in camera del consiglio, il giudice di applicazione della pene riserva la sua decisione; questa è presa in un momento successivo, dopo delibera. La decisione che mette fine ad una misura di sicurezza è un atto che diventa dunque perfetto solamente nel momento del suo deposito alla cancelleria. Quindi, il ritardo nel suo collocamento in esecuzione sarebbe nello specifico solo di due giorni, dal 2 al 4 novembre 2005. Il Governo stima che questo termine, necessario per permettere alla procura di decidersi sulla necessità di fare appello della decisione e, in caso negativo, di procedere al suo collocamento in opera, non era eccessivo e non ha ignorato l’articolo 2 del Protocollo no 4.
2. Valutazione della Corte
41. La Corte ricorda innanzitutto che proclamando il “diritto alla libertà”, il paragrafo 1 dell’articolo 5 prevede la libertà fisica della persona. Quindi, non riguarda le semplici restrizioni alla libertà di circolare; ubbidiscono all’articolo 2 del Protocollo no 4. Per determinare se un individuo si trova “privato della sua libertà” ai sensi dell’articolo 5, bisogna partire dalla sua situazione concreta e prendere in conto un insieme di criteri come il genere, la durata, gli effetti e le modalità di esecuzione della misura considerata. Tra privazione e restrizione di libertà, vi è tuttavia solo una differenza di grado o di intensità, non di natura o di essenza (Guzzardi precitata, §§ 92-93,).
42. Nello specifico, la libertà sorvegliata provocava, per il richiedente, i seguenti obblighi (paragrafo 15 sopra):
– presentarsi una volta al mese all’autorità di polizia incaricata della sorveglianza;
– mantenere dei contatti col centro psichiatrico dell’ospedale di Niguarda;
– abitare a Milano, al 18 di Viale Abruzzi,;
– non allontanarsi dal comune dove risiedeva;
– restare a casa tra le 22h00 e le 7h00.
43. Agli occhi della Corte, queste misure non hanno provocato una privazione di libertà ai sensi dell’articolo 5 § 1 della Convenzione, ma delle semplici restrizioni alla libertà di circolare (vedere, mutatis mutandis, Raimondo c. Italia, serie A no 281-A, § 39, 22 febbraio 1994). Il Governo lo sottolinea a giusto titolo (paragrafi 37-38 sopra).
44. Essendo l’articolo 5 così inapplicabile, c’è luogo di esaminare questo motivo di appello sotto l’angolo dell’articolo 2 del Protocollo no 4.
45. Ai termini della giurisprudenza della Corte, ogni misura che restringe il diritto alla libertà di circolazione deve essere prevista dalla legge, inseguire uno degli scopi legittimi mirati al terzo paragrafo dell’articolo 2 del Protocollo no 4 e predisporre un giusto equilibrio tra l’interesse generale ed i diritti dell’individuo (Baumann c. Francia, no 33592/96, § 61, CEDH 2001-V, e Riener c. Bulgaria, no 46343/99, § 109, 23 maggio 2006).
46. Nello specifico, nessuno contesta che le misure controverse avevano una base legale in diritto italiano. Le giurisdizioni interne hanno stimato che si imponeva di fare fronte alla pericolosità sociale del richiedente. Questa ultima è stata stabilita sulla base del reato per cui era stato condannato così come su parecchi altri elementi, come la sua pratica medica, i risultati di una perizia psichiatrica ordinata dal giudice di istanza di Milano, i fatti di aggressione e di minacce commessi dopo la condanna, i rapporti dei medici curanti (paragrafi 7, 15 e 19 sopra). Nel loro insieme, questi elementi hanno portato le autorità a pensare che l’interessato soffriva di disturbi psichiatrici gravi che provocavano, tra l’altro, una mancanza di controllo delle sue pulsioni aggressive (vedere, in particolare, i paragrafi 10 e 11 sopra). Le misure restrittive della sua libertà di circolazione erano necessarie “al mantenimento dell’ordine pubblico” dunque, così come “alla prevenzione dei reati penali.”
47. Per ciò riguarda la proporzionalità delle misure incriminate, queste non si giustificano solamente fino a quando tendono infatti alla realizzazione dell’obiettivo che sono supposte di perseguire (vedere, mutatis mutandis, Napijalo c. Croazia, no 66485/01, §§ 78-82, 13 novembre 2003, e Gochev c. Bulgaria, no 34383/03, § 49, 26 novembre 2009). Peraltro, fosse anche giustificata alla partenza, una misura che restringe la libertà di circolazione di una persona può diventare sproporzionata e può violare i diritti di questa persona se si prolunga automaticamente per molto tempo (Luordo c. Italia, no 32190/96, § 96, CEDH 2003-IX, Riener precitata, § 121, e Földes e Földesné Hajlik c. Ungheria, no 41463/02, § 35, 31 ottobre 2006).
48. In particolare, la Corte considera che quando sono in causa delle misure la cui giustificazione si fonda su una condizione propria all’interessato che, come la pericolosità sociale dovuta a disturbi psichiatrici, è suscettibile di modificarsi nel tempo, incombe sullo stato di procedere ai controlli periodici in quanto alla persistenza delle ragioni che giustificano ogni restrizione ai diritti garantiti dall’articolo 2 del Protocollo no 4. La frequenza di simili controlli, del resto espressamente previsti dalla legge italiana (vedere l’articolo 208 del CP, citato al paragrafo 26 sopra) dipende dalla natura delle restrizioni in causa e dalle circostanze particolari di ogni causa.
49. Nello specifico, il 14 novembre 2002, la libertà sorvegliata è stata prorogata dopo l’uscita del richiedente dell’ospedale psichiatrico giudiziale da prima fino al 9 ottobre 2003, e poi fino al 9 febbraio, al 9 giugno ed al 9 ottobre 2004. Cinque controlli effettuati da un giudice indipendente ed imparziale hanno avuto almeno dunque luogo in un lasso di tempo di un poco più di un anno e dieci mesi, il che non potrebbe passare per insufficiente. In più, la Corte ha esaminato le ragioni avanzate dalle autorità per prorogare, ogni volta, la durata della misura incriminata (paragrafo 19 sopra) senza trovarvi nessuno segno di arbitrarietà.
50. N segue che non c’è stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo no 4 per ciò che riguarda l’imposizione della libertà vigilata e le sue proroghe successive fino a quella del 9 ottobre 2004 (data in cui la misura è stata prorogata fino nel luglio 2005-paragrafo 19 sopra).
51. Però, c’è luogo di notare che all’epoca della proroga pronunciata in questa ultima data, era stato deciso che il successivo controllo avrebbe avuto luogo nel luglio 2005. E difatti, il giudice di applicazione delle pene di Firenze ha ripreso l’esame della pratica all’udienza in camera del consiglio del 1 luglio 2005. Tuttavia, ha depositato alla cancelleria il testo della sua decisione che revocava la libertà vigilata solo il 2 novembre 2005, o quattro mesi più tardi. Il 7 novembre 2005, questa decisione è stata notificata al richiedente (paragrafo 22 sopra) che ha avuto così cognizione della levata delle restrizioni alla sua libertà di circolazione.
52. Agli occhi della Corte, più zelo e rapidità si impongono nella cornice della presa di una decisione che lede i diritti garantiti dall’articolo 2 del Protocollo no 4, e questo in particolare al termine di una proroga, già di una durata di nove mesi al 1 luglio 2005, delle restrizioni che colpiscono l’interessato. Peraltro, la decisione di revocare la libertà sorvegliata è stata adottata sulla base della pratica solo in mancanza di ogni misura di istruzione supplementare. Nelle circostanze particolari della presente causa, un intervallo di più di quattro mesi tra l’ udienza dinnanzi al giudice di applicazione delle pene e la levata effettiva della libertà vigilata non era giustificata ed è stata di natura tale da rendere sproporzionate le restrizioni alla libertà di circolazione del richiedente.
53. Ne segue che c’è stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo no 4 in ragione dell’adozione e dell’esecuzione tardiva della decisione di revocare la libertà sorvegliata dopo l’udienza del 1 luglio 2005.
II. SULLA VIOLAZIONE ADDOTTA DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE
54. Il richiedente si lamenta della durata del procedimento di cui è stato oggetto.
Invoca l’articolo 6 § 1 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, è formulato così:
“1. Ogni persona ha diritto affinché la sua causa sia sentita in un termine ragionevole, da un tribunale, che deciderà, o delle contestazioni sui suoi diritti ed obblighi di carattere civile, o della fondatezza di ogni accusa in materia penale diretta contro lei. (…). “
55. Avuto riguardo alla constatazione di violazione alla quale è giunta per l’articolo 2 del Protocollo no 4 (paragrafo 53 sopra) la Corte stima di avere esaminato la questione giuridica principale posta dalla presente richiesta.
Tenuto conto dell’insieme dei fatti della causa e degli argomenti delle parti, considera che non si impone più di deliberare separatamente sul motivo di appello derivato dall’articolo 6 della Convenzione (vedere, mutatis mutandis, Kamil Uzun c. Turchia, no 37410/97, § 64, 10 maggio 2007).
III. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
56. Ai termini dell’articolo 41 della Convenzione,
“Se la Corte dichiara che c’è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente permette di cancellare solo imperfettamente le conseguenze di questa violazione, la Corte accorda alla parte lesa, se c’è luogo, una soddisfazione equa. “
A. Danno
57. Il richiedente richiede 100 000 euro (EUR) a titolo del danno morale che avrebbe subito. Chiede inoltre il risarcimento del danno patrimoniale, senza valutarlo.
58. Il Governo nota che il danno patrimoniale non è stato provato per niente e sembra inesistente nelle circostanze particolari del caso di specifico. In quanto alla somma sollecitata per danno morale, sarebbe manifestamente esorbitante.
59. La Corte osserva al primo colpo che il richiedente non ha supportato la sua richiesta concernente il danno patrimoniale. Ad ogni modo, non vede alcun legame di causalità tra la violazioni constatata ed un qualsiasi danno patrimoniale e respinge questa richiesta.
60. Trattandosi del danno morale subito dal richiedente, la Corte stima che la constatazione di violazione dell’articolo 2 del Protocollo no 4 rappresenta una soddisfazione equa sufficiente.
B. Oneri e spese
61. Il richiedente chiede anche, tramite il suo rappresentante, il rimborso degli oneri e delle spese impegnati dinnanzi alla Corte. Non precisa però il loro importo e non produce nessuno documento giustificativo a sostegno delle sue pretese.
62. Il Governo chiede il rigetto di questa richiesta, in mancanza per questa di essere valutata e supportata.
63. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, il sussidio di una somma a titolo degli oneri e delle spese sostenuti dal richiedente può intervenire solamente nella misura in cui si stabilisca la loro realtà, la loro necessità ed il carattere ragionevole del loro tasso (Belziuk c. Polonia, 25 marzo 1998, § 49, Raccolta delle sentenze e decisioni 1998-II).
64. Nello specifico, il rappresentante del richiedente non ha fornito la minima indicazione in quanto all’importo ed alla natura degli oneri incorsi dal suo cliente, e, a dispetto delle indicazioni date a questo riguardo dalla cancelleria della Corte, ha omesso di produrre ogni documento giustificativo suscettibile di supportare la sua richiesta di rimborso.
65. In queste circostanze, la Corte non stima appropriato concedere una somma a questo titolo.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,
1. Dichiara la richiesta ammissibile in quanto al motivo di appello derivato dalla necessità e dalla durata della libertà vigilata ed inammissibile per il surplus;
2. Stabilisce che c’è stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo no 4 in ragione dell’adozione e dell’esecuzione tardiva della decisione di revocare la libertà sorvegliata dopo l’udienza del 1 luglio 2005, e che non c’è stata violazione di questa stessa disposizione in ragione dell’applicazione della libertà vigilata e del suo mantenimento fino nel luglio 2005;
3. Stabilisce che non si impone più di deliberare separatamente sul motivo di appello derivato dall’articolo 6 della Convenzione;
4. Stabilisce che la constatazione di una violazione costituisce una soddisfazione equa sufficiente a titolo del danno morale subito dal richiedente;
5. Respinge la domanda di soddisfazione equa per il surplus.
Fatto in francese, poi comunicato per iscritto il 20 aprile 2010, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 dell’ordinamento.
Sally Dollé Francesca Tulkens
Cancelliera Presidentessa