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Testo originale e tradotto della sentenza selezionata

AFFAIRE SULEJMANOVIC c. ITALIE

Tipologia: Sentenza
Importanza: 2
Articoli: 41, 03
Numero: 22635/03/2009
Stato: Italia
Data: 2009-07-16 00:00:00
Organo: Sezione Seconda
Testo Originale

Conclusione Violazione dell’art. 3; non-violazione dell’art. 3; danno morale – risarcimento
SECONDA SEZIONE
CAUSA SULEJMANOVIC C. ITALIA
( Richiesta no 22635/03)
SENTENZA
STRASBURGO
16 luglio 2009
Questa sentenza diventerà definitiva nelle condizioni definite all’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire dei ritocchi di forma.

Nella causa Sulejmanovic c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, riunendosi in una camera composta da:
Francesca Tulkens, presidentessa, Ireneu Cabral Barreto, Vladimiro Zagrebelsky, Danutė Jočienė, Dragoljub Popović, András Sajó, Işıl Karakaş, giudici,
e da Francesca Elens-Passos, cancelliera collaboratrice di sezione,
Dopo avere deliberato in camera del consiglio il 16 giugno 2009,
Rende la sentenza che ha adottato in questa data:
PROCEDIMENTO
1. All’origine della causa si trova una richiesta (no 22635/03) diretta contro la Repubblica italiana e in cui un cittadino della Bosnia-Erzegovina, il Sig. I. S. (“il richiedente”), ha investito la Corte il 4 luglio 2003 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2. Il richiedente è rappresentato da N. P. ed A. M, avvocati a Roma. Il governo italiano (“il Governo”) è rappresentato dal suo agente, la Sig.ra E. Spatafora, e dal suo coagente, il Sig. F. Crisafulli.
3. Il richiedente adduce che le condizioni della sua detenzione erano contrarie all’articolo 3 della Convenzione.
4. Il 5 novembre 2007, la presidentessa della seconda sezione ha deciso di comunicare la richiesta al Governo. Come permesso dall’articolo 29 § 3 della Convenzione, è stato deciso inoltre che la camera si sarebbe pronunciata sull’ammissibilità ed il merito della causa allo stesso tempo.
IN FATTO
5. Il richiedente è nato nel 1973. Il suo luogo di residenza non è conosciuto.
I. LE CIRCOSTANZE DELLO SPECIFICO
A. L’arresto del richiedente
6. Risulta da una decisione (provvedimento di esecuzione di pene concorrenti) del 27 maggio 2002 della procura di Cagliari che tra il 1992 e il 1998 il richiedente era stato condannato a più riprese per furto aggravato, tentativo di furto, ricettazione e falso in scritture. Doveva scontare una pena di due anni, cinque mesi e cinque giorni di detenzione in esecuzione di queste condanne. Il 8 maggio 2003, il tribunale di Cagliari, agendo in quanto giudice dell’esecuzione, fissò la pena che il richiedente doveva scontare ad un anno, nove mesi e cinque giorni di detenzione.
7. Il 30 novembre 2002, il richiedente e la sua famiglia si presentarono all’ufficio degli esteri della prefettura (Questura) di Roma per ottenere un permesso di soggiorno. Il richiedente fu arrestato e fu incarcerato al penitenziario di Rebibbia, a Roma.
B. Le condizioni di detenzione del richiedente
8. Nel luglio 2003, 1 560 persone erano detenute in questa struttura che, secondo il richiedente, era concepita per accoglierne 1 188. L’interessato fu posto in differenti unità di una superficie di 16,20 metri quadrati (m2) ciascuna alle quali era annesso un locale sanitario di 5,04 m2.
9. Afferma di avere, fino al 15 aprile 2003, condiviso la sua unità con cinque altre persone, ogni detenuto disponeva così di una superficie media di 2,70 m2.
10. Dal 15 aprile al 20 ottobre 2003, fu posto in un’altra unità, che condivise con quattro altre persone al massimo, ogni detenuto disponeva così in media di una superficie di 3,40 m2.
11. Il richiedente riporta che lo svolgimento delle sue giornate in prigione era il successivo:
-dalle 18 alle 8 h 30: chiusura dell’unità;
-6 h 30: distribuzione della colazione, che i detenuti consumavano, come tutti gli altri pasti, nella loro unità, considerando la mancanza di un locale destinato alla ristorazione;
-8 h 30: apertura dell’unità con possibilità di uscita nella corte del penitenziario;
-10 distribuzione della colazione;
-10 h 30: chiusura dell’unità;
-13 ore: apertura dell’unità con possibilità di uscita nella corte del penitenziario;
-14 h 30: chiusura dell’unità;
-16 ore: apertura dell’unità con possibilità di circolazione nel corridoio;
-17 h 30: distribuzione della cena.
12. Risulta da questa programmazione che il richiedente restava chiuso quotidianamente nella sua unità per diciotto ore e trenta minuti alle quali si aggiungeva un’ora di consumazione dei pasti. Poteva uscire della sua unità per quattro ore e trenta minuti al giorno dunque.
13. Il richiedente chiese in vano a due riprese di lavorare in prigione. Fornisce delle statistiche ufficiali datate dicembre 2002 secondo cui solo il 24,20% dei detenuti era autorizzato a lavorare in prigione.
14. Il 20 ottobre 2003, il richiedente che aveva beneficiato di uno sconto di pena, fu liberato.
C. I documenti prodotti dal Governo
15. Su richiesta della Corte, il Governo ha prodotto il 4 luglio 2008 una serie di documenti relativi alla vita carceraria al penitenziario di Rebibbia, a Roma.
16. Risulta da un ordine di servizio no 118 del 4 dicembre 2000 che gli orari delle sezioni G9, G11 e G12, destinate ai detenuti ordinari tra cui il richiedente, erano i successivi:
“7 : apertura delle porte blindate.
8 h 30-11 : passeggiata nella corte.
È possibile accedere alla corte fino a 9 h 30.
Alle 11, tutti i detenuti devono trovarsi nelle loro rispettive unità per permettere la chiusura veloce delle porte.
11 13: pranzo nelle unità, porte chiuse.
13 -15 : passeggiata nella corte.
È possibile accedere alla corte fino alle 13 h 30.
Alle 15, tutti i detenuti devono trovarsi nelle loro rispettive unità per permettere la chiusura veloce delle porte.
15 -16 : i detenuti restano nelle loro unità, porte chiuse.
16 -18: apertura delle unità per permettere l’accesso alle docce, lo scambio di cibo autorizzato per la preparazione della cena e l’accesso alla sala da tennis di tavolo, dove è possibile restare fino a 18 h 50, la porta essendo chiusa dalle 18 alle 18 h 50.
18 h 50-20 h 20: momenti di socievolezza nelle unità con chiusura delle porte per la cena.
20 h 20: ritorno nelle rispettive unità e chiusura delle porte.
23: chiusura delle porte blindate. “
17. Risulta da un altro documento che prima del 5 aprile 2003, il richiedente era stato assegnato a differenti unità, che aveva condiviso con una o due altre persone; a partire dal 17 gennaio 2003, era stato assegnato all’unità no 11, situata al pianterreno B, e l’aveva condivisa con cinque altri detenuti. Tra il 5 aprile 2003 e le date di rimessa in libertà, il numero dei detenuti che avevano condiviso questa unità con l’interessato é variato come segue:
-dal 5 aprile al 23 maggio 2003: quattro;
-dal 26 maggio al 5 luglio 2003: due;
-dal 10 luglio al 1 ottobre 2003: tre;
-del 9 al 20 ottobre 2003: due.
18. Tra l’ottobre 2002 e il novembre 2003, il numero delle persone detenute al penitenziario di Roma-Rebibbia era compreso tra i 1 456 e i 1 660. Secondo un decreto del ministro della Giustizia del 6 settembre 1990, questo penitenziario era concepito per ospitare i 1 271 prigionieri.
II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE
19. L’articolo 6 della legge no 354 del 26 luglio 1975, detta legge sull’amministrazione penitenziaria, si legge come segue:
“I locali in cui si svolge la vita dei detenuti devono essere sufficientemente grandi, ed illuminati con la luce naturale o artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; [devono essere] arieggiati, riscaldati quando le condizioni climatiche l’esigono ed attrezzate di servizi sanitari privati, decenti e di tipo razionale. [Essi] devono essere mantenuti in buono stato di manutenzione e di pulizia. I locali dove i prigionieri passano la notte sono delle unità individuali o collettive.
Una cura particolare deve presiedere alla scelta delle persone che saranno poste nelle unità collettive.
Le persone in detenzione provvisoria devono potere beneficiare di un soggiorno in unità individuale a meno che la situazione particolare del penitenziario non lo permetta.
Ogni detenuto dispone del necessario per il suo letto. “
20. Gli articoli 6 e 7 del decreto presidenziale no 230 del 30 giugno 2000 sono formulati così:
Articolo 6
“1. I locali dove si svolge la vita dei detenuti devono essere adeguati dal punto di vista dell’igiene.
2. Le finestre delle unità devono permettere il passaggio diretto della luce e delle aria naturale. Gli schermi che impediscono tale passaggio sono vietati. Solamente in casi eccezionali e per ragioni accertate di sicurezza possono essere utilizzati degli schermi non posti a contatto dei muri dell’edificio [e] che permettono in ogni caso un passaggio diretto sufficiente di aria e di luce.
3. Degli interruttori per l’illuminazione artificiale delle unità e per il funzionamento degli apparecchi di radio e di televisione deve essere contemplato, all’esterno, per il personale, all’interno, per i detenuti Il personale, utilizzando gli interruttori esterni, può escludere il funzionamento di essi [interruttori] interni, quando l’utilizzazione di questi ultimi è pregiudizievole ad una vita comune ordinata dei detenuti
4. Per i controlli notturni del personale, l’illuminazione deve essere di un’intensità ridotta.
5. I detenuti la cui condizione fisica e psichica lo permette si occupano loro stessi della pulizia delle loro unità e dei sanitari attigui. A questo fine, dei mezzi adeguati sono messi a loro disposizione.
6. Per la pulizia delle unità in cui si trovano delle persone che non se ne possono incaricare, l’amministrazione fa appello al lavoro rimunerato di altri detenuti
7. Delle sezioni per fumatori sono create quando la logistica lo permette. “
Articolo 7
“1. I servizi sono posti in un locale attiguo all’unità.
2. I locali dove sono posti i servizi sono attrezzati con acqua corrente, calda e fredda, e dotati di lavabi, di docce e, in particolare nelle prigioni o sezioni per donne, di bidè, per soddisfare le esigenze in materia di igiene dei detenuti,
3. Dei servizi, lavabi e docce in numero adeguato devono essere posti inoltre vicino ai locali e ai luoghi in cui si svolgono le attività comuni. ”
III. TESTI INTERNAZIONALI PERTINENTI
21. La seconda parte delal Raccomandazione Rec(2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle regole penitenziarie europee, adottata l’ 11 gennaio 2006, all’epoca della 952a riunione dei Delegati dei Ministri, è dedicata alle condizioni di detenzione. Nei suoi passaggi pertinenti nello specifico, si legge come segue:
“18.1 i locali di detenzione e, in particolare, quelli che sono destinato all’alloggio dei detenuti durante la notte, devono soddisfare alle esigenze di rispetto della dignità umana e, per quanto possibile, della vita privata, e rispondere alle condizioni minime richieste in particolare in materia di salute e di igiene, tenuto conto delle condizioni climatiche, per ciò che riguarda lo spazio al suolo, il volume di aria, l’illuminazione, il riscaldamento e l’aerazione.
18.2 in tutti gli edifici dove dei detenuti sono chiamati a vivere, a lavorare o a riunirsi:
a. le finestre devono essere sufficientemente grandi affinché i detenuti possano leggere e lavorare alla luce naturale in condizioni normali, e per permettere l’entrata di aria fresca, salvo se esiste un sistema di climatizzazione adeguato;
b. la luce artificiale deve essere conforme alle norme tecniche riconosciute in materia; e
c. un sistema di allarme deve permettere ai detenuti di contattare immediatamente il personale.
18.3 il diritto interno deve definire le condizioni minime richieste concernente i punti repertoriati ai paragrafi 1 e 2.
18.4 il diritto interno deve contemplare dei meccanismi che garantiscono che il rispetto di queste condizioni minime non sia colpito in seguito alla sovrappopolazione carceraria.
18.5 ogni detenuto deve in principio essere ospitato durante la notte in un’unità individuale, salvo quando è considerato come preferibile per lui che coabiti con altri detenuti.
18.6 un’unità deve essere condivisa unicamente se è adattata ad un uso collettivo e deve essere occupata dai detenuti riconosciuti atti a coabitare.
18.7 per quanto possibile, i detenuti devono potere scegliere prima di essere costretti di dividere un’unità durante la notte.
18.8 la decisione di porre un detenuto in una prigione o una parte di prigione particolare deve tenere conto della necessità di separare:
a. gli imputati dai detenuti condannati;
b. i detenuti di sesso maschile dai detenuti di sesso femminile; e
c. i giovani detenuti adulti dai detenuti più vecchi.
18.9 si può derogare alle disposizioni del paragrafo 8 in materia di separazione dei detenuti per permettere a questi ultimi di partecipare insieme ad attività organizzate. Però i gruppi previsti devono sempre essere divisi la notte, a meno che gli interessati non acconsentano a coabitare e le autorità penitenziarie stimino che questa misura si inserisca nell’interesse di tutti i detenuti riguardati.
18.10 le condizioni di alloggio dei detenuti devono soddisfare le misure di sicurezza meno restrittive possibile e compatibili col rischio che gli interessati evadano, si feriscano o feriscano altre persone. “
IN DIRITTO
I. SULLA VIOLAZIONE ADDOTTA DELL’ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE
22. Il richiedente considera che le condizioni della sua detenzione sono state contrarie all’articolo 3 della Convenzione, così formulato:
“Nessuno può essere sottomesso a tortura né a pene o trattamenti disumani o degradanti. “
23. Il Governo combatte questa tesi.
A. Sull’ammissibilità
24. La Corte constata che questo motivo di appello non è manifestamente mal fondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione. Rileva peraltro che non incontra nessun altro motivo di inammissibilità. Conviene dunque dichiararlo ammissibile.
B. Sul merito
1. Argomenti delle parti
a) Il richiedente
25. Il richiedente adduce che, secondo il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti (CPT), ogni detenuto dovrebbe potere passare almeno otto ore al giorno all’infuori della sua unità, e che lo spazio disponibile per detenuto nelle unità dovrebbe essere di 7 m2, con una distanza di 2 metri tra i muri e di 2,50 metri tra il suolo ed il soffitto.
26. Riconosce che il CPT ha presentato solamente le norme sopra menzionate come “auspicabili”, ma sottolinea che la Corte ha più di una volta fatto riferimento ai parametri del CPT nella sua giurisprudenza (vedere, in particolare, Kalachnikov c. Russia, no 47095/99, CEDH 2002-VI).
27. Secondo il richiedente, il Governo stesso ammette che il problema della sovrappopolazione delle prigioni, denunciate dal CPT nel 1992, si è aggravato. L’interessato aggiunge che se il CPT non ha effettuato più alcuna visita al penitenziario di Roma-Rebibbia dal 1992, ciò non significa che questa struttura sia stata valutata in modo positivo. Afferma anche che nessuno ostacolo di ordine economico o sociale non potrebbe giustificare un’incomprensione dei principi iscritti all’articolo 3 della Convenzione.
28. Il richiedente sostiene poi che è stato costretto di condividere la sua unità-contemplata per due detenuti -con cinque altre persone per diciannove ore e mezzo al giorno. Precisa che la sua condizione di uomo giovane ed in buona salute non potrebbe escludere l’esistenza di una violazione dell’articolo 3.
29. Sostiene inoltre che le sofferenze che ha subito sono state aggravate dal fatto che non ha beneficiato della possibilità di lavorare in prigione, il che ignorerebbe le regole penitenziarie europee approvate dal Consiglio dell’Europa, e gli articoli 15 e 20 della legge no 354 di 1975 che garantiscono il diritto al lavoro in prigione all’infuori dei casi di impossibilità obiettiva.
b) Il Governo
30. Il Governo osserva da prima che il richiedente è stato privato della sua libertà per un periodo totale di dieci mesi e venti giorni e ha considerato che appartiene all’interessato di provare che i trattamenti di cui si lamenta hanno raggiunto la soglia della gravità richiesta per ricadere sotto l’influenza dell’articolo 3 della Convenzione.
31. Rileva poi che, per supportare le sue tesi, il richiedente si è appellato a dei criteri emanati dal CPT. Ora il secondo rapporto di questo organo, datato 1991, citato dal richiedente, indicherebbe per le dimensioni delle unità i parametri semplicemente auspicabili, e non delle norme minime. Per il Governo, la mancata osservanza di questi parametri non è dunque, in quanto tale, costitutiva di una violazione dell’articolo 3 della Convenzione.
32. Il Governo riconosce che la Corte ha utilizzato spesso i rapporti del CPT come indicatori utili, ma sostiene che i criteri del CPT sono più rigorosi e più esigenti di quelli della Corte. Ne andrebbe parimenti per gli strumenti internazionali in materia di regole di detenzione. La Corte non avrebbe allineato peraltro, talvolta il suo giudizio alle raccomandazioni del CPT, anche quando queste riguardavano direttamente la situazione del richiedente (vedere, per esempio, Öcalan c. Turchia [GC], no 46221/99, CEDH 2005-IV).
33. Per ciò che riguarda l’Italia, il Governo indica che il CPT ha effettuato, tra il 1992 e il 2006, sei visite. Solo la prima avrebbe riguardato il penitenziario di Rebibbia a Roma e sarebbe arrivata solamente a delle osservazioni e raccomandazioni marginali, essendo stato giudicato accettabile l’insieme delle condizioni di detenzione. Nessuna visita in seguito sarebbe stata stimata utile.
34. Certo, la sovrappopolazione carceraria di cui il CPT aveva fatto la constatazione si sarebbe accentuata, ma senza per questo raggiungere il livello critico richiesto per fare entrare in gioco l’articolo 3. In più, le autorità avrebbero esposto degli sforzi per ovviare al problema, per esempio adottando le leggi sullo sconto di certe pene di cui il richiedente avrebbe beneficiato del resto.
35. Il Governo nota inoltre che il richiedente, un uomo giovane ed in buona salute, avrebbe passato in prigione un periodo relativamente corto. Non si lamenterebbe di essere stato isolato né di essere stato sottomessi a percosse né di avere subito degli ostacoli alla sua corrispondenza, alle visite dei membri della sua famiglia o all’accesso alle cure mediche. Non pretenderebbe neanche che i maltrattamenti che adduce abbiano provocato delle conseguenze durature.
36. Per soddisfare la richiesta del richiedente riguardante la possibilità di lavorare in prigione, le autorità sarebbero state costrette a prendere delle misure organizzative; però, la brevità del soggiorno dell’interessato al penitenziario di Roma non avrebbe permesso di trovare una soluzione adeguata.
37. Il Governo afferma per di più che, se si confrontano le circostanze del presente caso con altre cause simili (Mathew c. Paesi Bassi, no 24919/03, 29 settembre 2005; Poltoratski c. Ucraina, no 38812/97, CEDH 2003-V; Kalachnikov, precitato; Papon c. Francia,( dec.), no 64666/01, CEDH 2001-VI; Peers c. Grecia, no 28524/95, CEDH 2001-III, e Dougoz c. Grecia, no 40907/98, CEDH 2001-II) si può giungere solamente alla conclusione secondo la quale, anche cumulati tra loro , i dispiaceri denunciati non hanno costituito un trattamento disumano o degradante.
38. Aggiunge infine che la Corte ha riconosciuto peraltro la compatibilità con l’articolo 3 della Convenzione del regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41bis della legge sull’amministrazione penitenziaria che impone delle condizioni carcerarie ben più severe di quelle denunciate dal richiedente (vedere, in particolare, Gallico c. Italia, no 53723/00, 28 giugno 2005, e Viola c. Italia, no 8316/02, 29 giugno 2006) due cause in cui il regime speciale era stato applicato rispettivamente per più di dodici anni e tredici anni.
2. Valutazione della Corte
a) Principi generali
39. La Corte ricorda che l’articolo 3 della Convenzione consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche. Proibisce in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti disumani o degradanti, qualunque siano stati glia atti della persona riguardata (Saadi c. Italia [GC], no 37201/06, § 127, 28 febbraio 2008, e Labita c. Italia [GC], no 26772/95, § 119, CEDH 2000-IV). Impone allo stato di assicurarsi che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni che sono compatibili col rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno sconforto o ad una prova di un’intensità che supera il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e che, avuto riguardo alle esigenze pratiche della detenzione, la salute ed il benessere del prigioniero siano garantiti in modo adeguato (Kudła c. Polonia [GC], no 30210/96, § 92-94, CEDH 2000-XI).
40. La Corte ricorda anche che il CPT ha fissato a 7 m2 per persona la superficie minima auspicabile per un’unità di detenzione (vedere il secondo rapporto generale- CPT/Inf (92) 3, § 43) e che una sovrappopolazione carceraria grave ponga in sé un problema sotto l’angolo dell’articolo 3 della Convenzione (Kalachnikov, precitata, § 97). Però, la Corte non potrebbe dare la misura, in modo preciso e definitivo, dello spazio personale che deve essere concesso ad ogni detenuto ai termini della Convenzione, potendo dipendere questa questione da numerosi fattori, come la durata della privazione di libertà, le possibilità di accesso alla passeggiata all’aperto o la condizione mentale e fisica del prigioniero (Trepachkine c. Russia, no 36898/03, § 92, 19 luglio 2007).
41. Non ne rimane meno che in certi casi la mancanza di spazio personale per i detenuti era talmente flagrante che giustificava, da sola, la constatazione di violazione dell’articolo 3. In questi casi, in principio, i richiedenti disponevano individualmente di meno di 3 m² (Aleksandr Makarov c. Russia, no 15217/07, § 93, 12 marzo 2009; vedere anche Lind c. Russia, no 25664/05, § 59, 6 dicembre 2007; Kantyrev c. Russia, no 37213/02, §§ 50-51, 21 giugno 2007; Andreï Frolov c. Russia, no 205/02, §§ 47-49, 29 marzo 2007; Labzov c. Russia, no 62208/00, § 44, 16 giugno 2005, e Mayzit c. Russia, no 63378/00, § 40, 20 gennaio 2005).
42. In compenso, nelle cause in cui la sovrappopolazione non era importante al punto da sollevare da sola un problema sotto l’angolo dell’articolo 3, la Corte ha notato che altri aspetti delle condizioni di detenzione erano da prendere in conto nell’esame del rispetto di questa disposizione. Tra questi elementi raffigurano la possibilità di utilizzare i servizi in modo privato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce ed alle aria naturali, la qualità del riscaldamento ed il rispetto delle esigenze sanitarie di base (vedere anche gli elementi che risultano dalle regole penitenziarie europee adottate dal Comitato dei Ministri, citate al paragrafo 21 sopra). Inoltre, anche nelle cause in cui ogni detenuto disponeva di 3 a 4 m², la Corte ha concluso alla violazione dell’articolo 3 dal momento che la mancanza di spazio si accompagnava ad una mancanza di ventilazione e di luce (Moisseiev c. Russia, no 62936/00, 9 ottobre 2008; vedere anche Vlassov c. Russia, no 78146/01, § 84, 12 giugno 2008; Babouchkine c. Russia, no 67253/01, § 44, 18 ottobre 2007; Trepachkine, precitata, e Peers, precitata, §§ 70-72).
b,) Applicazione di questi principi al presente caso
43. Nello specifico, il richiedente afferma di essere stato detenuto, dal 30 novembre 2002 all’ aprile 2003, in un’unità di 16,20 m² condivisa con cinque altre persone. Secondo i documenti prodotti dal Governo (paragrafo 17 sopra) l’unità citata al richiedente era stata occupata da sei prigionieri solo a partire dal 17 gennaio 2003. La Corte osserva che, anche supponendo che tale fosse stato il caso, non ne rimane meno che per un periodo di più di due mesi e mezzo ogni detenuto disponeva solamente in media di 2,70 m². Stima che tale situazione ha potuto indurre solamente dei dispiaceri e degli inconvenienti quotidiani per il richiedente, obbligato a vivere in uno spazio molto esiguo, ben inferiore alla superficie minima stimata auspicabile dal CPT. Agli occhi della Corte, la mancanza flagrante di spazio personale di cui il richiedente ha sofferto è, in sé, costitutiva di un trattamento disumano o degradante.
44. Ne segue che c’è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione a ragione delle condizioni in cui il richiedente è stato detenuto fino all’aprile 2003.
45. Ne va diversamente per il periodo ulteriore. Difatti, secondo i documenti forniti dal Governo, e non contestati dal richiedente, a partire dall’ aprile 2003 l’interessato è stato trasferito in un’altra unità, che ha da prima condiviso con quattro altre persone, poi, a partire dal 26 maggio 2003, con tre altri o due altri detenuti. Ne segue che fino alla sua rimessa in libertà il richiedente ha disposto, rispettivamente, di 3,24 m2, 4,05 m2 e 5,40 m². La sua situazione ha conosciuto un netto miglioramento dunque.
46. La Corte non sottovaluta le ripercussioni gravi che la sovrappopolazione carceraria può avere sui diritti dei detenuti, ivi compreso il diritto a non essere sottomessi a trattamenti disumani e degradanti. Nota che un problema di sovrappopolazione rimaneva probabilmente nel penitenziario di Roma-Rebibbia all’epoca della privazione di libertà del richiedente. Difatti, tra l’ ottobre 2002 e il novembre 2003, questa struttura che, secondo i documenti ufficiali prodotti dal Governo, era concepita per ospitare 1 271 prigionieri-e non 1 188, siccome ha affermato il richiedente-, ha dato alloggio ad un numero di detenuti compresi tra i 1 456 e i 1 660. Questa situazione è certo molto spiacevole; non ne rimane meno che la capacità di accoglimento massimale è stata superata, nel periodo incriminato solo del 14,50% al 30%, il che sembra indicare che il problema della sovrappopolazione non aveva, all’epoca in causa, raggiunto delle proporzioni drammatiche.
47. La Corte nota anche che il richiedente non ha denunciato nessuno problema relativo al riscaldamento o all’accesso ed alla qualità dei servizi sanitari, e che un locale sanitario di circa 5 m² era attiguo alla sua unità. L’interessato non ha indicato neanche con precisione le ripercussioni che le condizioni alle quali è stato sottoposto hanno avuto sul suo stato di salute fisica, limitandosi, nelle sue richieste di soddisfazione equa (paragrafo 54 qui di seguito) ad affermare di essere stato colpito “gravemente nella sua integrità fisica e psichica.”
48. Per ciò che riguarda la possibilità di passeggiare all’aperto, risulta dall’ordine di servizio no 118 del 4 dicembre 2000 che, nel penitenziario di Roma-Rebibbia, i detenuti avevano la possibilità di recarsi nella corte di passeggiata dalle 8 h 30 alle 11 ore e dalle 13 ore alle 15, cioè per quattro ore e trenta minuti al giorno. In più, dalle 16 alle 18, erano autorizzati ad uscire dalle loro unità per accedere alle docce ed alla sala da tennis da tavolo e per acquistare del cibo. Potevano intrattenersi nella sala da tennis da tavolo fino alle 18 h 50, e tra le 18 h 50 e 20 h 20 avevano la possibilità di consumare la loro cena in unità diverse dalla loro. Al totale, il tempo che un detenuto poteva passare all’infuori della sua unità era dunque di otto ore e cinquanta minuti.
49. Di conseguenza, la Corte considera che il richiedente ha beneficiato di un accesso sufficiente alla luce e all’ aria naturale ed ai momenti di libertà e di socievolezza coi detenuti differenti da quelli che si trovavano nella sua unità.
50. Infine, è certo spiacevole che il richiedente non abbia potuto essere autorizzato a lavorare in prigione; però, questa circostanza da sola non potrebbe costituire un trattamento contrario all’articolo 3 della Convenzione.
51. Alla luce di ciò che precede, la Corte stima che, per il periodo in cui il richiedente disponeva di più di 3 m² di spazio personale-e in cui la sovrappopolazione carceraria non era importante al punto da sollevare da sola un problema sotto l’angolo dell’articolo 3 dunque-, il trattamento di cui l’interessato è stato oggetto non ha raggiunto il livello minimo di gravità richiesto per ricadere sotto l’influenza dell’articolo 3 della Convenzione.
52. Quindi, le condizioni di detenzione del richiedente dopo l’aprile 2003 non hanno provocato alcuna violazione di questa disposizione.
II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
53. Ai termini dell’articolo 41 della Convenzione,
“Se la Corte dichiara che c’è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente permette di cancellare solo imperfettamente le conseguenze di questa violazione, la Corte accorda alla parte lesa, se c’è luogo, una soddisfazione equa. “
A. Danno
54. Adducendo di essere stato raggiunto “gravemente nella sua integrità fisica e psichica” a ragione delle condizioni della sua detenzione, il richiedente richiede per danno morale una somma di un importo almeno uguale a 15 000 euro (EUR).
55. Il Governo considera questa somma come “manifestamente esorbitante.” Sottolinea che l’interessato è stato liberato prima di avere scontato interamente la sua pena in virtù di una legge che mirava a palliare la sovrappopolazione carceraria e prega la Corte di dire che la semplice constatazione di violazione costituisce in sé una soddisfazione equa sufficiente. A titolo accessorio, considera che la somma da concedere al richiedente non dovrebbe superare i 3 000 EUR.
56. La Corte stima che il richiedente ha subito un torto morale certo. Deliberando in equità, come vuole l’articolo 41 della Convenzione, gli concede 1 000 EUR a titolo del danno morale.
B. Oneri e spese
57. Il richiedente chiede anche 4 000 EUR per gli oneri e le spese impegnati dinnanzi alla Corte.
58. Il Governo osserva che il richiedente non ha fornito nessun documento giustificativo e che non ha supportato per niente la sua richiesta, e suggerisce il rigetto di questa.
59. Secondo la giurisprudenza della Corte, un richiedente può ottenere il rimborso dei suoi oneri e spese solo nella misura in cui si stabilisca la loro realtà, la loro necessità ed il carattere ragionevole del loro tasso. Nello specifico, il richiedente non ha prodotto nessuno documento giustificativo a sostegno della sua richiesta di rimborso. La Corte decide di conseguenza di respingerla.
C. Interessi moratori
60. La Corte giudica appropriati ricalcare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse della facilità di prestito marginale della Banca centrale europea aumentato di tre punti percentuale.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE,
1. Dichiara, alla maggioranza, la richiesta ammissibile,;
2. Stabilisce, per cinque voci contro due, che c’è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione a ragione delle condizioni di detenzione del richiedente fino nell’aprile 2003;
3. Stabilisce, all’unanimità, che non c’è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione allo sguardo delle condizioni di detenzione del richiedente dopo l’aprile 2003;
4. Stabilisce per cinque voci contro due,
a) che lo stato convenuto deve versare al richiedente, nei tre mesi a contare dal giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva in virtù dell’articolo 44 § 2 della Convenzione, 1 000 EUR (mille euro) più ogni importo che può essere dovuto a titolo di imposta, per danno morale;
b) che a contare dalla scadenza di suddetto termine e fino al versamento, questi importi saranno da aumentare di un interesse semplice ad un tasso uguale a quello della facilità di prestito marginale della Banca centrale europea applicabile durante questo periodo, aumentato di tre punti percentuale;
5. Respingi, all’unanimità, la domanda di soddisfazione equa per il surplus.
Fatto in francese, poi comunicato per iscritto il 16 luglio 2009, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 dell’ordinamento.
Francesca Elens-Passos Francesca Tulkens
Cancelliera collaboratrice Presidentessa
Alla presente sentenza si trova unita, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 dell’ordinamento, l’esposizione delle seguenti opinioni separate:
-opinione concordante del giudice Sajó;
-opinione dissidente del giudice Zagrebelsky alla quale aderisce il giudice Joèienë.
F.T.
F.E.P.

OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE SAJÓ
(Traduzione)
Aderisco alla conclusione della Corte secondo la quale c’è stata nella specifico violazione dell’articolo 3, ma stimo che c’è luogo di spiegare perché la “mancanza flagrante di spazio personale di cui il richiedente ha sofferto” costituisce un trattamento disumano. Il richiedente è stato mantenuto in condizioni estremamente faticose per un periodo relativamente lungo in ragione della sovrappopolazione carceraria improvvisa. Nella presente causa, non è la mancanza di spazio nell’unità che costituisce in sé un trattamento disumano o degradante. Le condizioni non erano di natura tale da provocare immancabilmente o probabilmente un danno per la salute mentale e fisica del richiedente o per la sua integrità, ma erano manifestamente poco al di là dalle norme raccomandate dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani e degradanti (CPT) per ciò che riguarda lo spazio disponibile per detenuto. Nelle circostanze particolari dello specifico, l’inumanità della situazione risiede nel fatto che lo stato non ha mostrato che aveva adottato delle misure compensatorie supplementari per attenuare le condizioni estremamente provanti risultanti dalla sovrappopolazione carceraria. Avrebbe potuto accordare un’attenzione particolare alla situazione, per esempio accordando ai detenuti altri vantaggi, il che avrebbe fatto passare a loro il messaggio che lo stato, sebbene confrontato ad una crisi carceraria improvvisa, non era indifferente alla sorte dei detenuti ed intendeva creare delle condizioni di detenzione che, tutto sommato, non davano a pensare che un detenuto fosse semplicemente un corpo che bisognava put mettere da qualche parte. Nello specifico, la mancanza di preoccupazione dello stato aggiunge una nota di indifferenza alla viva sofferenza provocata dal castigo, sofferenza che andava già quasi al di là dell’inevitabile (Kudła c. Polonia [GC], no 30210/96, § 92, CEDH 2000-XI).

OPINIONE DISSIDENTE DEL GIUDICE ZAGREBELSKY
ALLA QUALE ADERISCE IL GIUDICE JOÈIENË
Mi dispiace non potere condividere il parere della maggioranza che ha concluso alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione nella presente causa. Ecco le ragioni della mia presa di posizione.
Ricordo innanzitutto la giurisprudenza ben stabilita della Corte secondo la quale, da una parte, le condizioni di detenzione non devono sottoporre l’interessato ad uno sconforto o ad una prova di un’intensità da superare il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione (Kudła c. Polonia [GC], no 30210/96, §§ 92-94, CEDH 2000-XI) e, dall’altra parte, un maltrattamento, per ricadere sotto l’influenza dell’articolo 3 della Convenzione, deve raggiungere un minimo di gravità. La valutazione di questo minimo è relativa; dipende dall’insieme dei dati della causa, in particolare dalla durata del trattamento e dei suoi effetti fisici o mentali così come, talvolta, dal sesso, dall’età e dello stato di salute della vittima (vedere, tra altre, Price c. Regno Unito, no 33394/96, § 24, CEDH 2001-VII, Mouisel c,. Francia, no 67263/01, § 37, CEDH 2002-IX, e Gennadi Naoumenko c. Ucraina, no 42023/98, § 108, 10 febbraio 2004).
Osservo poi che il problema della sovrappopolazione carceraria al quale rinvia la presente causa è un problema grave che tocca parecchi Stati del Consiglio dell’Europa, ivi compreso l’Italia di cui le autorità interne hanno loro stesse ammesso l’esistenza in parecchie occasioni pubbliche. Aggiungo che il rapporto (2005) del Commissario ai diritti dell’uomo del Consiglio dell’Europa ne ha trattato. Questa opinione dissidente non significa dunque che sottovaluto la gravità del problema in Italia. Tratta del “minimo di gravità” nell’applicazione dell’articolo 3 della Convenzione e con ciò -anche di una questione di ordine generale, e ha per scopo di mostrarne in che cosa, dal mio punto di vista, le condizioni di detenzione del richiedente non hanno raggiunto il “minimo” richiesto.
L’interessato è stato detenuto per due o cinque mesi, su questo punto, le informazione fornite dal Governo e quelle fornite dal richiedente differiscono, con cinque altri prigionieri in un’unità di 16,20 m2. In seguito, è stato, per sei mesi, detenuto in un’unità differente, successivamente con quattro, due, tre e due altre persone (paragrafi 17 e 43 della sentenza). La maggioranza ha stimato che il minimo di gravità richiesto allo sguardo dell’articolo 3 era stato raggiunto solamente per il primo periodo.
La maggioranza ha fatto riferimento alle indicazioni provenienti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti (CPT). Noto che questo comitato, quando indica un livello auspicabile-piuttosto che una norma minima- di circa 7 m² per 2 m o più tra i muri e 2,50 m tra il suolo e il soffitto, tratta delle unità individuali di polizia, e non delle unità destinate alla detenzione, che ospitano normalmente più di una persona. E’ ben riferendosi a questa seconda categoria che il CPT prende in conto la questione della sovrappopolazione e delle sue conseguenze generali, che enumera e considera in un modo molto ragionevole escludendo ogni automatismo in quanto alla dimensione delle unità ed al numero dei detenuti. Difatti, considera che “l’obiettivo dovrebbe essere di garantire che i detenuti nelle strutture di detenzione provvisoria siano in grado di passare una parte ragionevole della giornata, otto ore o più, fuori dalla loro unità, occupati in attività motivanti di natura varia. Nelle strutture per prigionieri condannati, evidentemente, i regimi dovrebbero essere di un livello ancora più elevato.” Aggiunge che “i prigionieri devono essere autorizzati ogni giorno ad almeno un’ora di esercizio all’aperto” e che “l’accesso, al momento opportuno, ai servizi igienici adatti ed il mantenimento delle buone condizioni di igiene sono degli elementi essenziali di un ambiente umano.”
Ciò dicendo, noto che il richiedente aveva durante la giornata accesso alla passeggiata dalle 8 h 30 alle 11 ore e dalle 13 alle 15. Dalle 16 alle 18 h 50, aveva accesso alle docce ed alla sala da tennis da tavolo e poteva occuparsi della preparazione della cena. In più, tra le 18 h 50 e le 20 h 20, poteva intrattenersi apparentemente nelle unità di altri per “momenti di socievolezza” (paragrafo 16 della sentenza). È evidente dunque che il richiedente aveva la possibilità di uscire dalla sua unità per dei periodo più lunghi di quelli che il CPT considera come auspicabili.
Se si esamina le cause in cui la Corte ha concluso alla violazione dell’articolo 3 a ragione del numero eccessivo di prigionieri rispetto alle dimensioni della loro unità, si nota che l’esiguità dello spazio a disposizione di un detenuto non ha costituito un criterio esclusivo. La Corte ha preso in conto dei fattori supplementari come un accesso insufficiente alla luce ed alle aria naturali, delle condizioni di igiene inadempienti, un caldo eccessivo associato ad una mancanza di ventilazione, un rischio concreto di propagazione di malattie, la mancanza di acqua potabile o corrente, la condivisione dei letti tra prigionieri, una durata molto corta della passeggiata- una o due ore al giorno-, la circostanza che i servizi sanitari si trovavano nell’unità ed erano visibili, e la mancanza di trattamento adeguato per le patologie di un richiedente (vedere, in particolare, le sentenze Aleksandr Makarov c. Russia, no 15217/07, §§ 94-100, 12 marzo 2009; Gagiu c. Romania, no 63258/00, §§ 76-82, 24 febbraio 2009; Moisseiev c. Russia, no 62936/00, §§ 121-127, 9 ottobre 2008; Lind c. Russia, no 25664/05, §§ 58-63, 6 dicembre 2007; Grichine c. Russia, no 30983/02, §§ 85-97, 15 novembre 2007; Babouchkine c. Russia, no 67253/01, §§ 40-51, 18 ottobre 2007; Trepachkine c. Russia, no 36898/03, §§ 84-95, 19 luglio 2007; Andreï Frolov c. Russia, no 205/02, §§ 43-51, 29 marzo 2007; Kantyrev c. Russia, no 37213/02, §§ 46-54, 21 giugno 2007; Mamedova c. Russia, no 7064/05, §§ 61-67, 1 giugno 2006; Kadiķis c. Lettonia (no 2), no 62393/00, §§ 51-56, 4 maggio 2006; Khoudoïorov c. Russia, no 6847/02, §§ 104-109, CEDH 2005-X; Novosselov c. Russia, no 66460/01, §§ 40-46, 2 giugno 2005; Mayzit c. Russia, no 63378/00, §§ 39-43, 20 gennaio 2005; Poltoratskiy c. Ucraina, no 38812/97, §§ 134-149, CEDH 2003-V; Kalachnikov c. Russia, no 47095/99, §§ 96-103, CEDH 2002-VI; Peers c. Grecia, no 28524/95, §§ 69-75, CEDH 2001-III, e Dougoz c. Grecia, no 40907/98, §§ 45-49, CEDH 2001-II).
Essendo così, è vero che si trova nella giurisprudenza della Corte l’affermazione secondo la quale l’esiguità dello spazio personale a disposizione di un detenuto può, da sola, giustificare una constatazione di violazione dell’articolo 3 della Convenzione, in particolare quando il richiedente dispone di meno di 3 m² (vedere, tra le sentenze più recenti, Aleksandr Makarov, precitata, § 93). Questo principio è, però, smentito con l’applicazione pratica che la Corte ne ha fatto. Per esempio, nella causa Valašinas c. Lituania,( no 44558/98, §§ 107-112, 24 luglio 2001) ha concluso alla non-violazione dell’articolo 3 anche se spazio personale era constato tra i 2,70 e i 3,20 m²; nella causa Labzov c. Russia (no 62208/00, § 44, 15 giugno 2005) ha affermato che, per determinare se le condizioni della privazione di libertà in causa erano “degradanti”, la mancanza flagrante di spazio, si trattava, nello specifico, di meno di 1 m² per detenuto, era un fattore che “pesava molto”, senza per questo dire che era, da solo, sufficiente; infine, nella sentenza Trepachkine (precitata, § 92) viene detto che la Corte non potrebbe dare la misura, in modo preciso e definitivo, dello spazio personale che deve essere concesso ad ogni detenuto ai termini della Convenzione, questa questione potendo dipendere da numerosi fattori, come la durata della privazione di libertà, le condizioni di accesso alla passeggiata o lo stato di salute fisica e mentale del prigioniero.
Nella presente causa, nessun altro elemento (mancanza di luce, di aria, di igiene, ecc.) se non l’insufficienza di spazio disponibile per il richiedente quando restava chiuso nell’unità viene denunciato. Inoltre, l’interessato ha beneficiato di periodi di attività all’infuori dell’unità più importanti di quelli raccomandati dal CPT. Ne concludo che -nel caso specifico del richiedente, tenendo anche conto della sua età e del periodo relativamente breve della sua detenzione -il “minimo di gravità” non è stato raggiunto.
Aggiungo una considerazione di ordine generale che riguarda una tendenza che intravedo nella giurisprudenza della Corte.
L’articolo 3 contempla un’interdizione assoluta della tortura e dei trattamenti disumani o degradanti. Anche il diritto alla vita (articolo 2) non è assoluto. Credo che la ragione della natura assoluta dell’interdizione dei trattamenti proibiti dall’articolo 3 risieda nel fatto che, nella coscienza e nella sensibilità degli europei, tali trattamenti appaiono come inammissibili in sé, in ogni occasione ed in ogni situazione. Ora, tra ciò che si considera nella cornice dell’articolo 3 come inammissibile e ciò che si può considerare come auspicabile, c’è, ai miei occhi, la stessa differenza che quella che corre tra il ruolo della Corte ed il ruolo del CPT, del Consiglio dell’Europa, delle organizzazioni non governative e dei Parlamenti nazionali.
La tendenza che questa sentenza sembra mettere in luce, ossia che la Corte pone il suo esame nella cornice di ciò che è “auspicabile”, dovrebbe avere per effetto di aumentare la protezione contro i trattamenti proibiti dall’articolo 3. Ora, anche se questa tendenza si nutre di generosità, favorisce in realtà una deriva pericolosa verso la relativizzazione dell’interdizione, poiché più si abbassa la soglia “minima di gravità”, più si è costretti a tenere conto delle ragioni e delle circostanze, o a ridurre a nulla la soddisfazione equa.
Si possono trovare alcuni esempi di questo rischio negli argomenti di seguente natura: “La Corte ammette che l’applicazione prolungata delle restrizioni può porre un detenuto in una situazione che potrebbe costituire un trattamento disumano o degradante, ai sensi dell’articolo 3. Però, (…) ha il dovere di controllare se, in un dato caso, il prolungamento delle sanzioni si giustificava o se, al contrario, costituiva la reiterazione di restrizioni che non si giustificano più. (…) la Corte nota che gli argomenti invocati per giustificare il mantenimento delle limitazioni non erano sproporzionati rispetto ai fatti precedentemente rimproverati al richiedente che era stato condannato a pesanti pene per fatti molto gravi. Per questo fatto la sofferenza o l’umiliazione che il richiedente ha potuto provare non è andata al di là di quella che comprende inevitabilmente una data forma di trattamento -nello specifico prolungato-o di pena legittima” (Gallico c. Italia, no 53723/00, §§ 21-22, 28 giugno 2005).
Ed ancora: “Per ciò che riguarda il grado di necessità dell’intervento medico con la forza per l’ottenimento degli elementi di prova, la Corte rileva che il traffico di stupefacenti è una violazione grave. Ha una consapevolezza acuta dei problemi che incontrano gli Stati contraenti nella loro lotta per proteggere le loro società dai mali che provocano l’afflusso di droga (vedere, in particolare, D. c. Regno Unito, sentenza del 2 maggio 1997, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-III, pp. 791-792, § 46). Tuttavia, nello specifico, era chiaro prima che la misura controversa fosse stata ordinata e messa in opera che il trafficante di via al quale era applicata conservava gli stupefacenti nella bocca e non procedeva dunque alla vendita in grandi quantità, come testimonia del resto la pena inflitta (sei mesi di detenzione col beneficio della condizionale e messa alla prova) la più leggera delle pene in cui si può incorre. La Corte riconosce che era essenziale che gli inquirenti fossero in grado di determinare la quantità e la qualità esatta degli stupefacenti offerti alla vendita. Ciò dicendo, non è convinta che l’amministrazione con la forza di un emetico era indispensabile nello specifico per ottenere le prove. Le autorità di perseguimento avrebbero potuto aspettare semplicemente l’eliminazione della droga per vie naturali (….) ” (Jalloh c. Germania, no 54810/00, §§ 77, 11 luglio 2006 che ha suscitato la critica puntuale del giudice Bratza nella sua opinione separata).
Anche se è tecnicamente differente, vedo un altro esempio nella sentenza con cui la Corte ha cancellato dal ruolo una richiesta che sollevava recentemente un problema sul terreno dell’articolo 3. In questa causa, la Corte ha considerato difatti che il richiedente aveva perso la qualità di vittima a ragione del fatto che l’amministrazione penitenziaria -dopo tre anni e quattro mesi-aveva ovviato alla situazione denunciata dal detenuto nella sua richiesta, che la Corte non aveva considerato tuttavia come o priva di ogni fondamento (Stojanović c. Serbia, no 34425/04, § 80, 19 maggio 2009, con la mia opinione dissidente annessa).
E’ per tutte queste ragioni che penso che questa causa avrebbe dovuto trovare una conclusione differente e che i problemi che pone vanno bene al di là del solo caso specifico.

Testo Tradotto

Conclusion Violation de l’art. 3 ; Non-violation de l’art. 3 ; Préjudice morale – réparation
DEUXIÈME SECTION
AFFAIRE SULEJMANOVIC c. ITALIE
(Requête no 22635/03)
ARRÊT
STRASBOURG
16 juillet 2009
Cet arrêt deviendra définitif dans les conditions définies à l’article 44 § 2 de la Convention. Il peut subir des retouches de forme.

En l’affaire Sulejmanovic c. Italie,
La Cour européenne des droits de l’homme (deuxième section), siégeant en une chambre composée de :
Françoise Tulkens, présidente,
Ireneu Cabral Barreto,
Vladimiro Zagrebelsky,
Danutė Jočienė,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Işıl Karakaş, juges,
et de Françoise Elens-Passos, greffière adjointe de section,
Après en avoir délibéré en chambre du conseil le 16 juin 2009,
Rend l’arrêt que voici, adopté à cette date :
PROCÉDURE
1. A l’origine de l’affaire se trouve une requête (no 22635/03) dirigée contre la République italienne et dont un ressortissant de la Bosnie-Herzégovine, M. I. S. (« le requérant »), a saisi la Cour le 4 juillet 2003 en vertu de l’article 34 de la Convention de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentales (« la Convention »).
2. Le requérant est représenté par Mes N. P. et A. M , avocats à Rome. Le gouvernement italien (« le Gouvernement ») est représenté par son agente, Mme E. Spatafora, et par son coagent, M. F. Crisafulli.
3. Le requérant allègue que les conditions de sa détention étaient contraires à l’article 3 de la Convention.
4. Le 5 novembre 2007, la présidente de la deuxième section a décidé de communiquer la requête au Gouvernement. Comme le permet l’article 29 § 3 de la Convention, il a en outre été décidé que la chambre se prononcerait en même temps sur la recevabilité et le fond de l’affaire.
EN FAIT
5. Le requérant est né en 1973. Son lieu de résidence n’est pas connu.
I. LES CIRCONSTANCES DE L’ESPÈCE
A. L’arrestation du requérant
6. Il ressort d’une décision (provvedimento di esecuzione di pene concorrenti) du 27 mai 2002 du parquet de Cagliari qu’entre 1992 et 1998 le requérant avait été condamné à plusieurs reprises pour vol aggravé, tentative de vol, recel et faux en écritures. Il devait purger une peine de deux ans, cinq mois et cinq jours d’emprisonnement en exécution de ces condamnations. Le 8 mai 2003, le tribunal de Cagliari, agissant en tant que juge de l’exécution, fixa la peine que le requérant devait purger à un an, neuf mois et cinq jours d’emprisonnement.
7. Le 30 novembre 2002, le requérant et sa famille se présentèrent au bureau des étrangers de la préfecture (Questura) de Rome afin d’obtenir un permis de séjour. Le requérant fut arrêté et incarcéré au pénitencier de Rebibbia, à Rome.
B. Les conditions de détention du requérant
8. En juillet 2003, 1 560 personnes étaient détenues dans cet établissement qui, selon le requérant, était prévu pour en accueillir 1 188. L’intéressé fut placé dans différentes cellules d’une superficie de 16,20 mètres carrés (m2) chacune, auxquelles était annexé un local sanitaire de 5,04 m2.
9. Il affirme avoir, jusqu’au 15 avril 2003, partagé sa cellule avec cinq autres personnes, chaque détenu disposant d’une superficie moyenne de 2,70 m2.
10. Du 15 avril au 20 octobre 2003, il fut placé dans une autre cellule, qu’il partagea avec quatre autres personnes au maximum, chaque détenu disposant en moyenne d’une surface de 3,40 m2.
11. Le requérant rapporte que le déroulement de ses journées en prison était le suivant :
– de 18 heures à 8 h 30 : fermeture de la cellule ;
– 6 h 30 : distribution du petit déjeuner, que les détenus consommaient, comme tous les autres repas, dans leur cellule, étant donné l’absence d’un local destiné à la restauration ;
– 8 h 30 : ouverture de la cellule avec possibilité de sortie dans la cour du pénitencier ;
– 10 heures : distribution du déjeuner ;
– 10 h 30 : fermeture de la cellule ;
– 13 heures : ouverture de la cellule avec possibilité de sortie dans la cour du pénitencier ;
– 14 h 30 : fermeture de la cellule ;
– 16 heures : ouverture de la cellule avec possibilité de circulation dans le couloir ;
– 17 h 30 : distribution du repas du soir.
12. Il ressort de ce planning que le requérant restait enfermé quotidiennement dans sa cellule pendant dix-huit heures et trente minutes, auxquelles s’ajoutait une heure de consommation des repas. Il pouvait donc sortir de sa cellule pendant quatre heures et trente minutes par jour.
13. Le requérant demanda en vain à deux reprises à travailler en prison. Il fournit des statistiques officielles datées de décembre 2002, selon lesquelles seuls 24,20 % des détenus étaient autorisés à travailler en prison.
14. Le 20 octobre 2003, le requérant, qui avait bénéficié d’une remise de peine, fut libéré.
C. Les documents produits par le Gouvernement
15. A la demande de la Cour, le Gouvernement a produit le 4 juillet 2008 une série de documents relatifs à la vie carcérale au pénitencier de Rebibbia, à Rome.
16. Il ressort d’un ordre de service no 118 du 4 décembre 2000 que les horaires des sections G9, G11 et G12, destinées aux détenus ordinaires, parmi lesquels le requérant, étaient les suivants :
« 7 heures : ouverture des portes blindées.
8 h 30 – 11 heures : promenade dans la cour.
Il est possible d’accéder à la cour jusqu’à 9 h 30.
A 11 heures, tous les détenus doivent se trouver dans leurs cellules respectives afin de permettre la fermeture rapide des portes.
11 heures – 13 heures : déjeuner dans les cellules, portes fermées.
13 heures – 15 heures : promenade dans la cour.
Il est possible d’accéder à la cour jusqu’à 13 h 30.
A 15 heures, tous les détenus doivent se trouver dans leurs cellules respectives afin de permettre la fermeture rapide des portes.
15 heures – 16 heures : les détenus restent dans leurs cellules, portes fermées.
16 heures – 18 heures : ouverture des cellules pour permettre l’accès aux douches, l’échange de nourriture autorisée pour la préparation du dîner et l’accès à la salle de tennis de table, où il est possible de rester jusqu’à 18 h 50 (la porte étant fermée de 18 heures à 18 h 50).
18 h 50 – 20 h 20 : moments de convivialité dans les cellules avec fermeture des portes pour le dîner.
20 h 20 : retour dans les cellules respectives et fermeture des portes.
23 heures : fermeture des portes blindées. »
17. Il ressort d’un autre document qu’avant le 5 avril 2003, le requérant avait été assigné à des cellules différentes, qu’il avait partagées avec une ou deux autres personnes ; à partir du 17 janvier 2003, il avait été assigné à la cellule no 11, située au rez-de-chaussée B, et l’avait partagée avec cinq autres détenus. Entre le 5 avril 2003 et la date de remise en liberté, le nombre des détenus ayant partagé cette cellule avec l’intéressé a varié comme suit :
– du 5 avril au 23 mai 2003 : quatre ;
– du 26 mai au 5 juillet 2003 : deux ;
– du 10 juillet au 1er octobre 2003 : trois ;
– du 9 au 20 octobre 2003 : deux.
18. Entre octobre 2002 et novembre 2003, le nombre des personnes détenues au pénitencier de Rome-Rebibbia était compris entre 1 456 et 1 660. Selon un décret du ministre de la Justice du 6 septembre 1990, ce pénitencier était prévu pour héberger 1 271 prisonniers.
II. LE DROIT INTERNE PERTINENT
19. L’article 6 de la loi no 354 du 26 juillet 1975 (dite loi sur l’administration pénitentiaire), se lit comme suit :
« Les locaux dans lesquels se déroule la vie des détenus doivent être suffisamment grands, et éclairés par la lumière naturelle ou artificielle de manière à permettre le travail et la lecture ; [ils doivent être] aérés, chauffés lorsque les conditions climatiques l’exigent et équipés de services sanitaires privés, décents et de type rationnel. [Ils] doivent être maintenus en bon état d’entretien et de propreté. Les locaux où les prisonniers passent la nuit sont des cellules individuelles ou collectives.
Un soin particulier doit présider au choix des personnes qui seront placées dans des cellules collectives.
Les personnes en détention provisoire doivent pouvoir bénéficier d’un séjour en cellule individuelle à moins que la situation particulière du pénitencier ne le permette pas.
Chaque détenu (…) dispose du nécessaire pour son lit. »
20. Les articles 6 et 7 du décret présidentiel no 230 du 30 juin 2000 sont ainsi libellés :
Article 6
« 1. Les locaux où se déroule la vie des détenus (…) doivent être adéquats du point de vue de l’hygiène.
2. Les fenêtres des cellules doivent permettre le passage direct de la lumière et de l’air naturels. Les écrans empêchant un tel passage sont interdits. Ce n’est que dans des cas exceptionnels et pour des raisons avérées de sûreté que pourront être utilisés des écrans qui ne soient pas placés au contact des murs de l’édifice [et] qui permettent dans tous les cas un passage direct suffisant d’air et de lumière.
3. Des interrupteurs pour l’éclairage artificiel des cellules et pour le fonctionnement des appareils de radio et de télévision doivent être prévus, à l’extérieur, pour le personnel, à l’intérieur, pour les détenus (…) Le personnel, en utilisant les interrupteurs extérieurs, peut exclure le fonctionnement des [interrupteurs] intérieurs, lorsque l’utilisation de ces derniers est préjudiciable à une vie commune ordonnée des détenus (…)
4. Pour les contrôles nocturnes du personnel, l’éclairage doit être d’une intensité réduite.
5. Les détenus (…) dont la condition physique et psychique le permet se chargent eux-mêmes du nettoyage de leurs cellules et des sanitaires attenants. A cette fin, des moyens adéquats sont mis à leur disposition.
6. Pour le nettoyage des cellules dans lesquelles se trouvent des personnes ne pouvant pas s’en charger, l’administration fait appel au travail rémunéré d’autres détenus (…)
7. Des sections pour fumeurs sont créées lorsque la logistique le permet. »
Article 7
« 1. Les toilettes sont placées dans un local attenant à la cellule.
2. Les locaux où sont placées les toilettes sont équipés en eau courante, chaude et froide, et dotés de lavabos, de douches et, notamment dans les prisons ou sections pour femmes, de bidets, pour répondre aux exigences en matière d’hygiène des détenus (…)
3. Des toilettes, lavabos et douches en nombre adéquat doivent en outre être placés à proximité des locaux et des lieux où se déroulent les activités communes. »
III. TEXTES INTERNATIONAUX PERTINENTS
21. La deuxième partie de la Recommandation Rec(2006)2 du Comité des Ministres aux Etats membres sur les règles pénitentiaires européennes (adoptée le 11 janvier 2006, lors de la 952e réunion des Délégués des Ministres) est dédiée aux conditions de détention. Dans ses passages pertinents en l’espèce, elle se lit comme suit :
« 18.1 Les locaux de détention et, en particulier, ceux qui sont destinés au logement des détenus pendant la nuit, doivent satisfaire aux exigences de respect de la dignité humaine et, dans la mesure du possible, de la vie privée, et répondre aux conditions minimales requises en matière de santé et d’hygiène, compte tenu des conditions climatiques, notamment en ce qui concerne l’espace au sol, le volume d’air, l’éclairage, le chauffage et l’aération.
18.2 Dans tous les bâtiments où des détenus sont appelés à vivre, à travailler ou à se réunir :
a. les fenêtres doivent être suffisamment grandes pour que les détenus puissent lire et travailler à la lumière naturelle dans des conditions normales, et pour permettre l’entrée d’air frais, sauf s’il existe un système de climatisation approprié ;
b. la lumière artificielle doit être conforme aux normes techniques reconnues en la matière ; et
c. un système d’alarme doit permettre aux détenus de contacter le personnel immédiatement.
18.3 Le droit interne doit définir les conditions minimales requises concernant les points répertoriés aux paragraphes 1 et 2.
18.4 Le droit interne doit prévoir des mécanismes garantissant que le respect de ces conditions minimales ne soit pas atteint à la suite du surpeuplement carcéral.
18.5 Chaque détenu doit en principe être logé pendant la nuit dans une cellule individuelle, sauf lorsqu’il est considéré comme préférable pour lui qu’il cohabite avec d’autres détenus.
18.6 Une cellule doit être partagée uniquement si elle est adaptée à un usage collectif et doit être occupée par des détenus reconnus aptes à cohabiter.
18.7 Dans la mesure du possible, les détenus doivent pouvoir choisir avant d’être contraints de partager une cellule pendant la nuit.
18.8 La décision de placer un détenu dans une prison ou une partie de prison particulière doit tenir compte de la nécessité de séparer :
a. les prévenus des détenus condamnés ;
b. les détenus de sexe masculin des détenus de sexe féminin ; et
c. les jeunes détenus adultes des détenus plus âgés.
18.9 Il peut être dérogé aux dispositions du paragraphe 8 en matière de séparation des détenus afin de permettre à ces derniers de participer ensemble à des activités organisées. Cependant les groupes visés doivent toujours être séparés la nuit, à moins que les intéressés ne consentent à cohabiter et que les autorités pénitentiaires estiment que cette mesure s’inscrit dans l’intérêt de tous les détenus concernés.
18.10 Les conditions de logement des détenus doivent satisfaire aux mesures de sécurité les moins restrictives possible et compatibles avec le risque que les intéressés s’évadent, se blessent ou blessent d’autres personnes. »
EN DROIT
I. SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L’ARTICLE 3 DE LA CONVENTION
22. Le requérant considère que les conditions de sa détention ont été contraires à l’article 3 de la Convention, ainsi libellé :
« Nul ne peut être soumis à la torture ni à des peines ou traitements inhumains ou dégradants. »
23. Le Gouvernement combat cette thèse.
A. Sur la recevabilité
24. La Cour constate que ce grief n’est pas manifestement mal fondé au sens de l’article 35 § 3 de la Convention. Elle relève par ailleurs qu’il ne se heurte à aucun autre motif d’irrecevabilité. Il convient donc de le déclarer recevable.
B. Sur le fond
1. Arguments des parties
a) Le requérant
25. Le requérant allègue que, selon le Comité européen pour la prévention de la torture et des traitements inhumains et dégradants (CPT), chaque détenu devrait pouvoir passer au moins huit heures par jour en dehors de sa cellule, et que l’espace disponible par détenu dans les cellules devrait être de 7 m2, avec une distance de 2 mètres entre les murs et de 2,50 mètres entre le sol et le plafond.
26. Il reconnaît que le CPT a seulement présenté les normes mentionnées ci-dessus comme « souhaitables », mais il souligne que la Cour a plus d’une fois fait référence aux paramètres du CPT dans sa jurisprudence (voir, notamment, Kalachnikov c. Russie, no 47095/99, CEDH 2002-VI).
27. D’après le requérant, le Gouvernement lui-même admet que le problème de la surpopulation des prisons, dénoncé par le CPT en 1992, s’est aggravé. L’intéressé ajoute que si le CPT n’a plus effectué de visite au pénitencier de Rome-Rebibbia depuis 1992, cela ne signifie pas que cet établissement ait été évalué de manière positive. Il affirme également qu’aucun obstacle d’ordre économique ou social ne saurait justifier une méconnaissance des principes inscrits à l’article 3 de la Convention.
28. Le requérant soutient ensuite qu’il a été contraint de partager sa cellule – prévue pour deux détenus – avec cinq autres personnes pendant dix-neuf heures et demie par jour. Il précise que sa condition d’homme jeune et en bonne santé ne saurait exclure l’existence d’une violation de l’article 3.
29. Il soutient en outre que les souffrances qu’il a subies ont été aggravées par le fait qu’il n’a pas bénéficié de la possibilité de travailler en prison, ce qui méconnaîtrait les règles pénitentiaires européennes approuvées par le Conseil de l’Europe, et les articles 15 et 20 de la loi no 354 de 1975 garantissant le droit au travail en prison en dehors des cas d’impossibilité objective.
b) Le Gouvernement
30. Le Gouvernement observe d’abord que le requérant a été privé de sa liberté pour une période totale de dix mois et vingt jours et considère qu’il appartient à l’intéressé de prouver que les traitements dont il se plaint ont atteint le seuil de gravité requis pour tomber sous le coup de l’article 3 de la Convention.
31. Il relève ensuite que, pour étayer ses thèses, le requérant s’est appuyé sur les critères dégagés par le CPT. Or le deuxième rapport de cet organe, daté de 1991, cité par le requérant, indiquerait pour les dimensions des cellules les paramètres simplement souhaitables, et non des normes minimales. Pour le Gouvernement, le non-respect de ces paramètres n’est donc pas, en tant que tel, constitutif d’une violation de l’article 3 de la Convention.
32. Le Gouvernement reconnaît que la Cour a souvent utilisé les rapports du CPT comme des indicateurs utiles, mais il soutient que les critères du CPT sont plus stricts et plus exigeants que ceux de la Cour. Il en irait de même pour les instruments internationaux en matière de règles de détention. Par ailleurs, la Cour n’aurait parfois pas aligné son jugement sur les recommandations du CPT, même lorsque celles-ci concernaient directement la situation du requérant (voir, par exemple, Öcalan c. Turquie [GC], no 46221/99, CEDH 2005-IV).
33. En ce qui concerne l’Italie, le Gouvernement indique que le CPT a effectué, entre 1992 et 2006, six visites. Seule la première aurait concerné le pénitencier de Rebibbia à Rome et elle n’aurait débouché que sur des remarques et recommandations marginales, l’ensemble des conditions de détention ayant été jugées acceptables. Aucune visite de suivi n’aurait été estimée utile.
34. Certes, la surpopulation carcérale dont le CPT avait fait le constat se serait accentuée, mais sans pour autant atteindre le niveau critique requis pour faire entrer en jeu l’article 3. De plus, les autorités auraient déployé des efforts pour remédier au problème, par exemple en adoptant les lois sur la remise de certaines peines, dont le requérant aurait d’ailleurs bénéficié.
35. Le Gouvernement note en outre que le requérant, un homme jeune et en bonne santé, aurait passé en prison une période relativement courte. Il ne se plaindrait pas d’avoir été isolé ni d’avoir été soumis à des coups ni d’avoir subi des entraves à sa correspondance, aux visites des membres de sa famille ou à l’accès aux soins médicaux. Il ne prétendrait pas non plus que les mauvais traitements qu’il allègue aient provoqué des conséquences durables.
36. Afin de satisfaire la demande du requérant portant sur la possibilité de travailler en prison, les autorités auraient été contraintes de prendre des mesures d’organisation ; cependant, la brièveté séjour de l’intéressé au pénitencier de Rome n’aurait pas permis de trouver une solution adéquate.
37. Le Gouvernement affirme de surcroît que, si l’on compare les circonstances de la présente espèce avec d’autres affaires similaires (Mathew c. Pays-Bas, no 24919/03, 29 septembre 2005 ; Poltoratski c. Ukraine, no 38812/97, CEDH 2003-V ; Kalachnikov, précité ; Papon c. France (déc.), no 64666/01, CEDH 2001-VI ; Peers c. Grèce, no 28524/95, CEDH 2001-III, et Dougoz c. Grèce, no 40907/98, CEDH 2001-II), on ne peut que parvenir à la conclusion selon laquelle, même cumulés entre eux, les désagréments dénoncés n’ont pas constitué un traitement inhumain ou dégradant.
38. Il ajoute enfin que la Cour a par ailleurs reconnu la compatibilité avec l’article 3 de la Convention du régime spécial de détention prévu par l’article 41bis de la loi sur l’administration pénitentiaire, qui impose des conditions carcérales bien plus sévères que celles dénoncées par le requérant (voir, notamment, Gallico c. Italie, no 53723/00, 28 juin 2005, et Viola c. Italie, no 8316/02, 29 juin 2006, deux affaires dans lesquelles le régime spécial avait été appliqué respectivement pendant plus de douze ans et treize ans).
2. Appréciation de la Cour
a) Principes généraux
39. La Cour rappelle que l’article 3 de la Convention consacre l’une des valeurs fondamentales des sociétés démocratiques. Il prohibe en termes absolus la torture et les peines ou traitements inhumains ou dégradants, quels que soient les agissements de la personne concernée (Saadi c. Italie [GC], no 37201/06, § 127, 28 février 2008, et Labita c. Italie [GC], no 26772/95, § 119, CEDH 2000-IV). Il impose à l’Etat de s’assurer que tout prisonnier est détenu dans des conditions qui sont compatibles avec le respect de la dignité humaine, que les modalités d’exécution de la mesure ne soumettent pas l’intéressé à une détresse ou à une épreuve d’une intensité qui excède le niveau inévitable de souffrance inhérent à la détention et que, eu égard aux exigences pratiques de l’emprisonnement, la santé et le bien-être du prisonnier sont assurés de manière adéquate (Kudła c. Pologne [GC], no 30210/96, § 92-94, CEDH 2000-XI).
40. La Cour rappelle également que le CPT a fixé à 7 m2 par personne la surface minimum souhaitable pour une cellule de détention (voir le deuxième rapport général – CPT/Inf (92) 3, § 43) et qu’une surpopulation carcérale grave pose en soi un problème sous l’angle de l’article 3 de la Convention (Kalachnikov, précité, § 97). Cependant, la Cour ne saurait donner la mesure, de manière précise et définitive, de l’espace personnel qui doit être octroyé à chaque détenu aux termes de la Convention, cette question pouvant dépendre de nombreux facteurs, tels que la durée de la privation de liberté, les possibilités d’accès à la promenade en plein air ou la condition mentale et physique du prisonnier (Trepachkine c. Russie, no 36898/03, § 92, 19 juillet 2007).
41. Il n’en demeure pas moins que dans certains cas le manque d’espace personnel pour les détenus était tellement flagrant qu’il justifiait, à lui seul, le constat de violation de l’article 3. Dans ces cas, en principe, les requérants disposaient individuellement de moins de 3 m² (Aleksandr Makarov c. Russie, no 15217/07, § 93, 12 mars 2009 ; voir également Lind c. Russie, no 25664/05, § 59, 6 décembre 2007 ; Kantyrev c. Russie, no 37213/02, §§ 50-51, 21 juin 2007 ; Andreï Frolov c. Russie, no 205/02, §§ 47-49, 29 mars 2007 ; Labzov c. Russie, no 62208/00, § 44, 16 juin 2005, et Mayzit c. Russie, no 63378/00, § 40, 20 janvier 2005).
42. En revanche, dans des affaires où la surpopulation n’était pas importante au point de soulever à elle seule un problème sous l’angle de l’article 3, la Cour a noté que d’autres aspects des conditions de détention étaient à prendre en compte dans l’examen du respect de cette disposition. Parmi ces éléments figurent la possibilité d’utiliser les toilettes de manière privée, l’aération disponible, l’accès à la lumière et à l’air naturels, la qualité du chauffage et le respect des exigences sanitaires de base (voir également les éléments ressortant des règles pénitentiaires européennes adoptées par le Comité des Ministres, citées au paragraphe 21 ci-dessus). Aussi, même dans des affaires où chaque détenu disposait de 3 à 4 m², la Cour a conclu à la violation de l’article 3 dès lors que le manque d’espace s’accompagnait d’un manque de ventilation et de lumière (Moisseiev c. Russie, no 62936/00, 9 octobre 2008 ; voir également Vlassov c. Russie, no 78146/01, § 84, 12 juin 2008 ; Babouchkine c. Russie, no 67253/01, § 44, 18 octobre 2007 ; Trepachkine, précité, et Peers, précité, §§ 70-72).
b) Application de ces principes à la présente espèce
43. En l’espèce, le requérant affirme avoir été détenu, du 30 novembre 2002 à avril 2003, dans une cellule de 16,20 m² partagée avec cinq autres personnes. Selon les documents produits par le Gouvernement (paragraphe 17 ci-dessus), la cellule assignée au requérant n’avait été occupée par six prisonniers qu’à partir du 17 janvier 2003. La Cour observe que, même à supposer que tel eût été le cas, il n’en demeure pas moins que pendant une période de plus de deux mois et demi chaque détenu ne disposait que de 2,70 m² en moyenne. Elle estime qu’une telle situation n’a pu que provoquer des désagréments et des inconvénients quotidiens pour le requérant, obligé de vivre dans un espace très exigu, bien inférieur à la surface minimum estimée souhaitable par le CPT. Aux yeux de la Cour, le manque flagrant d’espace personnel dont le requérant a souffert est, en soi, constitutif d’un traitement inhumain ou dégradant.
44. Il s’ensuit qu’il y a eu violation de l’article 3 de la Convention à raison des conditions dans lesquelles le requérant a été détenu jusqu’en avril 2003.
45. Il en va autrement pour la période ultérieure. En effet, selon les documents fournis par le Gouvernement, et non contestés par le requérant, à partir d’avril 2003 l’intéressé a été transféré dans une autre cellule, qu’il a d’abord partagé avec quatre autres personnes, puis, à partir du 26 mai 2003, avec trois autres ou deux autres détenus. Il s’ensuit que jusqu’à sa remise en liberté le requérant a disposé, respectivement, de 3,24 m2, 4,05 m2 et 5,40 m². Sa situation a donc connu une nette amélioration.
46. La Cour ne sous-estime pas les répercussions graves que la surpopulation carcérale peut avoir sur les droits des détenus, y compris le droit à ne pas être soumis à des traitements inhumains et dégradants. Elle note qu’un problème de surpopulation subsistait sans doute dans le pénitencier de Rome-Rebibbia à l’époque de la privation de liberté du requérant. En effet, entre octobre 2002 et novembre 2003, cet établissement, qui, selon les documents officiels produits par le Gouvernement, était prévu pour héberger 1 271 prisonniers – et non 1 188, comme l’a affirmé le requérant –, a abrité un nombre de détenus compris entre 1 456 et 1 660. Cette situation est certes fort regrettable ; il n’en demeure pas moins que la capacité d’accueil maximale n’a été dépassée, dans la période incriminée, que de 14,50 % à 30 %, ce qui semble indiquer que le problème de la surpopulation n’avait pas, à l’époque en cause, atteint des proportions dramatiques.
47. La Cour note également que le requérant n’a dénoncé aucun problème relatif au chauffage ou à l’accès et à la qualité des services sanitaires, et qu’un local sanitaire d’environ 5 m² était attenant à sa cellule. L’intéressé n’a pas non plus indiqué avec précision les répercussions que les conditions auxquelles il a été soumis ont eues sur son état de santé physique, se bornant, dans ses demandes de satisfaction équitable (paragraphe 54 ci-après), à affirmer avoir été « gravement atteint dans son intégrité physique et psychique ».
48. Pour ce qui est de la possibilité de se promener en plein air, il ressort de l’ordre de service no 118 du 4 décembre 2000 que, dans le pénitencier de Rome-Rebibbia, les détenus avaient la possibilité de se rendre dans la cour de promenade de 8 h 30 à 11 heures et de 13 heures à 15 heures, c’est-à-dire pendant quatre heures et trente minutes par jour. De plus, de 16 heures à 18 heures, ils étaient autorisés à sortir de leurs cellules pour accéder aux douches et à la salle de tennis de table et pour acheter de la nourriture. Ils pouvaient se tenir dans la salle de tennis de table jusqu’à 18 h 50, et entre 18 h 50 et 20 h 20 ils avaient la possibilité de consommer leur dîner dans des cellules autres que la leur. Au total, le temps qu’un détenu pouvait passer en dehors de sa cellule était donc de huit heures et cinquante minutes.
49. Par conséquent, la Cour considère que le requérant a bénéficié d’un accès suffisant à la lumière et l’air naturels et à des moments de loisirs et de convivialité avec des détenus autres que ceux qui se trouvaient dans sa cellule.
50. Enfin, il est certes regrettable que le requérant n’ait pas pu être autorisé à travailler en prison ; cependant, cette circonstance à elle seule ne saurait constituer un traitement contraire à l’article 3 de la Convention.
51. A la lumière de ce qui précède, la Cour estime que, pour la période où le requérant disposait de plus de 3 m² d’espace personnel – et où la surpopulation carcérale n’était donc pas importante au point de soulever à elle seule un problème sous l’angle de l’article 3 –, le traitement dont l’intéressé a fait l’objet n’a pas atteint le niveau minimum de gravité requis pour tomber sous le coup de l’article 3 de la Convention.
52. Dès lors, les conditions de détention du requérant après avril 2003 n’ont pas entraîné de violation de cette disposition.
II. SUR L’APPLICATION DE L’ARTICLE 41 DE LA CONVENTION
53. Aux termes de l’article 41 de la Convention,
« Si la Cour déclare qu’il y a eu violation de la Convention ou de ses Protocoles, et si le droit interne de la Haute Partie contractante ne permet d’effacer qu’imparfaitement les conséquences de cette violation, la Cour accorde à la partie lésée, s’il y a lieu, une satisfaction équitable. »
A. Dommage
54. Alléguant avoir été « gravement atteint dans son intégrité physique et psychique » à raison des conditions de sa détention, le requérant réclame pour préjudice moral une somme d’un montant au moins égal à 15 000 euros (EUR).
55. Le Gouvernement considère cette somme comme étant « manifestement exorbitante ». Il souligne que l’intéressé a été libéré avant d’avoir purgé entièrement sa peine en vertu d’une loi visant à pallier le surpeuplement carcéral et prie la Cour de dire que le simple constat de violation constitue en soi une satisfaction équitable suffisante. A titre subsidiaire, il considère que la somme à octroyer au requérant ne devrait pas dépasser 3 000 EUR.
56. La Cour estime que le requérant a subi un tort moral certain. Statuant en équité, comme le veut l’article 41 de la Convention, elle lui octroie 1 000 EUR au titre du dommage moral.
B. Frais et dépens
57. Le requérant demande également 4 000 EUR pour les frais et dépens engagés devant la Cour.
58. Le Gouvernement observe que le requérant n’a fourni aucune pièce justificative et qu’il n’a nullement étayé sa demande, et suggère le rejet de celle-ci.
59. Selon la jurisprudence de la Cour, un requérant ne peut obtenir le remboursement de ses frais et dépens que dans la mesure où se trouvent établis leur réalité, leur nécessité et le caractère raisonnable de leur taux. En l’espèce, le requérant n’a produit aucune pièce justificative à l’appui de sa demande de remboursement. La Cour décide par conséquent de la rejeter.
C. Intérêts moratoires
60. La Cour juge approprié de calquer le taux des intérêts moratoires sur le taux d’intérêt de la facilité de prêt marginal de la Banque centrale européenne majoré de trois points de pourcentage.
PAR CES MOTIFS, LA COUR,
1. Déclare, à la majorité, la requête recevable ;
2. Dit, par cinq voix contre deux, qu’il y a eu violation de l’article 3 de la Convention à raison des conditions de détention du requérant jusqu’en avril 2003 ;
3. Dit, à l’unanimité, qu’il n’y a pas eu violation de l’article 3 de la Convention au regard des conditions de détention du requérant après avril 2003 ;
4. Dit, par cinq voix contre deux,
a) que l’Etat défendeur doit verser au requérant, dans les trois mois à compter du jour où l’arrêt sera devenu définitif en vertu de l’article 44 § 2 de la Convention, 1 000 EUR (mille euros), plus tout montant pouvant être dû à titre d’impôt, pour dommage moral ;
b) qu’à compter de l’expiration dudit délai et jusqu’au versement, ces montants seront à majorer d’un intérêt simple à un taux égal à celui de la facilité de prêt marginal de la Banque centrale européenne applicable pendant cette période, augmenté de trois points de pourcentage ;
5. Rejette, à l’unanimité, la demande de satisfaction équitable pour le surplus.
Fait en français, puis communiqué par écrit le 16 juillet 2009, en application de l’article 77 §§ 2 et 3 du règlement.
Françoise Elens-Passos Françoise Tulkens
Greffière adjointe Présidente
Au présent arrêt se trouve joint, conformément aux articles 45 § 2 de la Convention et 74 § 2 du règlement, l’exposé des opinions séparées suivantes :
– opinion concordante du juge Sajó ;
– opinion dissidente du juge Zagrebelsky, à laquelle se rallie la juge Jočienė.
F.T.
F.E.P.

OPINION CONCORDANTE DU JUGE SAJÓ
(Traduction)
Je souscris à la conclusion de la Cour selon laquelle il y a eu en l’espèce violation de l’article 3, mais j’estime qu’il y a lieu d’expliquer pourquoi le « manque flagrant d’espace personnel dont le requérant a souffert » constitue un traitement inhumain. Le requérant a été maintenu dans des conditions extrêmement pénibles pendant une période relativement longue en raison de la surpopulation carcérale soudaine. Dans la présente affaire, ce n’est pas le manque d’espace dans la cellule qui constitue en soi un traitement inhumain ou dégradant. Les conditions n’étaient pas de nature à entraîner immanquablement ou probablement un dommage pour la santé mentale et physique du requérant ou pour son intégrité, mais elles étaient manifestement très en-deçà des normes recommandées par le Comité européen pour la prévention de la torture et des peines ou traitements inhumains et dégradants (CPT) en ce qui concerne l’espace disponible par détenu. Dans les circonstances particulières de l’espèce, l’inhumanité de la situation réside dans le fait que l’Etat n’a pas montré qu’il avait adopté des mesures compensatoires supplémentaires pour atténuer les conditions extrêmement éprouvantes résultant de la surpopulation carcérale. Il aurait pu prêter une attention particulière à la situation, par exemple en accordant aux détenus d’autres avantages, ce qui leur aurait fait passer le message que l’Etat, bien que confronté à une crise carcérale soudaine, n’était pas indifférent au sort des détenus et entendait créer des conditions de détention qui, en somme, ne donnaient pas à penser qu’un détenu était simplement un corps qu’il fallait bien mettre quelque part. En l’espèce, l’absence de préoccupation de l’Etat ajoute une touche d’indifférence à la vive souffrance provoquée par le châtiment, souffrance qui allait déjà quasiment au-delà de l’inévitable (Kudła c. Pologne [GC], no 30210/96, § 92, CEDH 2000-XI).

OPINION DISSIDENTE DU JUGE ZAGREBELSKY,
À LAQUELLE SE RALLIE LA JUGE JOČIENĖ
Je regrette ne pas pouvoir partager l’avis de la majorité, qui a conclu à la violation de l’article 3 de la Convention dans la présente affaire. Voici les raisons de ma prise de position.
Je rappelle tout d’abord la jurisprudence bien établie de la Cour, selon laquelle, d’une part, les conditions de détention ne doivent pas soumettre l’intéressé à une détresse ou à une épreuve d’une intensité qui excède le niveau inévitable de souffrance inhérent à la détention (Kudła c. Pologne [GC], no 30210/96, §§ 92-94, CEDH 2000-XI) et, d’autre part, un mauvais traitement, pour tomber sous le coup de l’article 3 de la Convention, doit atteindre un minimum de gravité. L’appréciation de ce minimum est relative ; elle dépend de l’ensemble des données de la cause, notamment de la durée du traitement et de ses effets physiques ou mentaux ainsi que, parfois, du sexe, de l’âge et de l’état de santé de la victime (voir, entre autres, Price c. Royaume-Uni, no 33394/96, § 24, CEDH 2001-VII, Mouisel c. France, no 67263/01, § 37, CEDH 2002-IX, et Gennadi Naoumenko c. Ukraine, no 42023/98, § 108, 10 février 2004).
J’observe ensuite que le problème de la surpopulation carcérale auquel renvoie la présente affaire est un problème grave qui touche plusieurs Etats du Conseil de l’Europe, y compris l’Italie dont les autorités internes ont elles-mêmes admis l’existence à plusieurs occasions publiques. J’ajoute que le rapport (2005) du Commissaire aux droits de l’homme du Conseil de l’Europe en a traité. Cette opinion dissidente ne signifie donc pas que je sous-estime la gravité du problème en Italie. Elle traite du « minimum de gravité » dans l’application de l’article 3 de la Convention et par là-même d’une question d’ordre général, et a pour but de montrer en quoi, de mon point de vue, les conditions de détention du requérant n’ont pas atteint le « minimum » requis.
L’intéressé a été détenu pendant deux ou cinq mois (sur ce point, les informations fournies par le Gouvernement et celles fournies par le requérant diffèrent) avec cinq autres prisonniers dans une cellule de 16,20 m2. Par la suite, il a été, pendant six mois, détenu dans une cellule différente, successivement avec quatre, deux, trois et deux autres personnes (paragraphes 17 et 43 de l’arrêt). La majorité a estimé que le minimum de gravité requis au regard de l’article 3 avait été atteint seulement pendant la première période.
La majorité a fait référence aux indications provenant du Comité européen pour la prévention de la torture et des traitements inhumains et dégradants (CPT). Je note que ce comité, lorsqu’il indique un niveau souhaitable – plutôt qu’une norme minimale – d’environ 7 m² avec 2 m ou plus entre les murs et 2,50 m entre le sol et le plafond, traite des cellules individuelles de police, et non pas des cellules destinées à l’emprisonnement, logeant normalement plus d’une personne. C’est bien en se référant à cette seconde catégorie que le CPT prend en compte la question du surpeuplement et de ses conséquences générales, qu’il énumère et considère d’une façon très raisonnable en excluant tout automatisme quant à la dimension des cellules et au nombre des détenus. En effet, il considère que « l’objectif devrait être d’assurer que les détenus dans les établissements de détention provisoire soient en mesure de passer une partie raisonnable de la journée (huit heures ou plus) hors de leur cellule, occupés à des activités motivantes de nature variée. Dans les établissements pour prisonniers condamnés, évidemment, les régimes devraient être d’un niveau encore plus élevé ». Il ajoute que « les prisonniers doivent être autorisés chaque jour à au moins une heure d’exercice en plein air » et que « l’accès, au moment voulu, à des toilettes convenables et le maintien de bonnes conditions d’hygiène sont des éléments essentiels d’un environnement humain ».
Cela étant dit, je note que le requérant avait pendant la journée accès à la promenade de 8 h 30 à 11 heures et de 13 à 15 heures. De 16 heures à 18 h 50, il avait accès aux douches et à la salle de tennis de table et pouvait s’occuper de la préparation du dîner. De plus, entre 18 h 50 et 20 h 20, il pouvait apparemment se tenir dans des cellules autres que la sienne pour des « moments de convivialité » (paragraphe 16 de l’arrêt). Il est donc évident que le requérant avait la possibilité de sortir de sa cellule pour des durées bien plus longues que celles que le CPT considère comme étant souhaitables.
Si l’on examine les affaires dans lesquelles la Cour a conclu à la violation de l’article 3 à raison du nombre excessif de prisonniers par rapport aux dimensions de leur cellule, on note que l’exiguïté de l’espace à la disposition d’un détenu n’a pas constitué un critère exclusif. La Cour a pris en compte des facteurs supplémentaires tels qu’un accès insuffisant à la lumière et à l’air naturels, des conditions d’hygiène défaillantes, une chaleur excessive associée à un manque de ventilation, un risque concret de propagation de maladies, l’absence d’eau potable ou courante, le partage des lits entre prisonniers, une très courte durée de la promenade – une ou deux heures par jour –, la circonstance que les services sanitaires se trouvaient dans la cellule et étaient visibles, et l’absence de traitement adéquat pour les pathologies d’un requérant (voir, notamment, les arrêts Aleksandr Makarov c. Russie, no 15217/07, §§ 94-100, 12 mars 2009 ; Gagiu c. Roumanie, no 63258/00, §§ 76-82, 24 février 2009 ; Moisseiev c. Russie, no 62936/00, §§ 121-127, 9 octobre 2008 ; Lind c. Russie, no 25664/05, §§ 58-63, 6 décembre 2007 ; Grichine c. Russie, no 30983/02, §§ 85-97, 15 novembre 2007 ; Babouchkine c. Russie, no 67253/01, §§ 40-51, 18 octobre 2007 ; Trepachkine c. Russie, no 36898/03, §§ 84-95, 19 juillet 2007 ; Andreï Frolov c. Russie, no 205/02, §§ 43-51, 29 mars 2007 ; Kantyrev c. Russie, no 37213/02, §§ 46-54, 21 juin 2007 ; Mamedova c. Russie, no 7064/05, §§ 61-67, 1er juin 2006 ; Kadiķis c. Lettonie (no 2), no 62393/00, §§ 51-56, 4 mai 2006 ; Khoudoïorov c. Russie, no 6847/02, §§ 104-109, CEDH 2005-X ; Novosselov c. Russie, no 66460/01, §§ 40-46, 2 juin 2005 ; Mayzit c. Russie, no 63378/00, §§ 39-43, 20 janvier 2005 ; Poltoratskiy c. Ukraine, no 38812/97, §§ 134-149, CEDH 2003-V ; Kalachnikov c. Russie, no 47095/99, §§ 96-103, CEDH 2002-VI ; Peers c. Grèce, no 28524/95, §§ 69-75, CEDH 2001-III, et Dougoz c. Grèce, no 40907/98, §§ 45-49, CEDH 2001-II).
Cela étant, il est vrai qu’on trouve dans la jurisprudence de la Cour l’affirmation selon laquelle l’exiguïté de l’espace personnel à la disposition d’un détenu peut, à elle seule, justifier un constat de violation de l’article 3 de la Convention, notamment lorsque le requérant dispose de moins de 3 m² (voir, parmi les arrêts les plus récents, Aleksandr Makarov, précité, § 93). Ce principe est, cependant, démenti par l’application pratique que la Cour en a fait. Par exemple, dans l’affaire Valašinas c. Lituanie (no 44558/98, §§ 107-112, 24 juillet 2001), elle a conclu à la non-violation de l’article 3 alors que l’espace personnel était compris entre 2,70 et 3,20 m² ; dans l’affaire Labzov c. Russie (no 62208/00, § 44, 15 juin 2005), elle a affirmé que, pour déterminer si les conditions de la privation de liberté en cause étaient « dégradantes », le manque flagrant d’espace (il s’agissait, en l’espèce, de moins d’1 m² par détenu) était un facteur qui « pesait lourd », sans pour autant dire qu’il était, à lui seul, suffisant ; enfin, dans l’arrêt Trepachkine (précité, § 92), il est dit que la Cour ne saurait donner la mesure, de manière précise et définitive, de l’espace personnel qui doit être octroyé à chaque détenu aux termes de la Convention, cette question pouvant dépendre de nombreux facteurs, tels que la durée de la privation de liberté, les conditions d’accès à la promenade ou l’état de santé physique et mentale du prisonnier.
Dans la présente affaire, aucun élément autre (manque de lumière, d’air, d’hygiène, etc.) que l’insuffisance d’espace disponible pour le requérant quand il restait enfermé dans la cellule n’est dénoncé. En outre, l’intéressé a bénéficié de périodes d’activité en dehors de la cellule plus importantes que celles préconisées par le CPT. J’en conclus que – dans le cas spécifique du requérant, en tenant compte également de son âge et de la période relativement brève de sa détention – le « minimum de gravité » n’a pas été atteint.
J’ajoute une considération d’ordre général qui porte sur une tendance que j’entrevois dans la jurisprudence de la Cour.
L’article 3 prévoit une interdiction absolue de la torture et des traitements inhumains ou dégradants. Même le droit à la vie (article 2) n’est pas aussi absolu. Je crois que la raison de la nature absolue de l’interdiction des traitements prohibés par l’article 3 réside dans le fait que, dans la conscience et la sensibilité des Européens, de tels traitements apparaissent comme intolérables en soi, en toute occasion et dans toute situation. Or, entre ce que l’on considère dans le cadre de l’article 3 comme étant intolérable et ce que l’on peut considérer comme étant souhaitable, il y a, à mes yeux, la même différence que celle qui a cours entre le rôle de la Cour et les rôles du CPT, du Conseil de l’Europe, des organisations non gouvernementales et des Parlements nationaux.
La tendance que cet arrêt semble mettre en lumière, à savoir que la Cour place son examen dans le cadre de ce qui est « souhaitable », devrait avoir pour effet d’accroître la protection contre les traitements prohibés par l’article 3. Or, même si cette tendance se nourrit de générosité, elle favorise en réalité une dérive dangereuse vers la relativisation de l’interdiction, puisque plus l’on abaisse le seuil « minimum de gravité », plus on est contraint de tenir compte des raisons et circonstances (ou bien de réduire à néant la satisfaction équitable).
On peut trouver quelques exemples de ce risque dans des arguments de la nature suivante : « La Cour admet que l’application prolongée des restrictions peut placer un détenu dans une situation qui pourrait constituer un traitement inhumain ou dégradant, au sens de l’article 3. Cependant, (…) elle se doit de contrôler si, dans un cas donné, la prolongation des sanctions se justifiait ou si, au contraire, elle constituait la réitération de restrictions ne se justifiant plus. (…) la Cour note que les arguments invoqués pour justifier le maintien des limitations n’étaient pas disproportionnés par rapport aux faits précédemment reprochés au requérant, qui avait été condamné à de lourdes peines pour des faits très graves. De ce fait la souffrance ou l’humiliation que le requérant a pu ressentir ne sont pas allées au-delà de celles que comporte inévitablement une forme donnée de traitement – en l’espèce prolongé – ou de peine légitime » (Gallico c. Italie, no 53723/00, §§ 21-22, 28 juin 2005).
Et encore : « En ce qui concerne le degré de nécessité de l’intervention médicale de force pour l’obtention des éléments de preuve, la Cour relève que le trafic de stupéfiants est une infraction grave. Elle a une conscience aiguë des problèmes que rencontrent les Etats contractants dans leur lutte pour protéger leurs sociétés des maux que provoque l’afflux de drogue (voir, en particulier, D. c. Royaume-Uni, arrêt du 2 mai 1997, Recueil des arrêts et décisions 1997-III, pp. 791-792, § 46). Toutefois, en l’espèce, il était clair avant que la mesure litigieuse n’ait été ordonnée et mise en œuvre que le trafiquant de rue auquel elle était appliquée conservait les stupéfiants dans la bouche et ne procédait donc pas à la vente en grandes quantités, comme en témoigne d’ailleurs la peine infligée (six mois d’emprisonnement avec sursis et mise à l’épreuve), la plus légère des peines encourues. La Cour reconnaît qu’il était essentiel que les enquêteurs fussent en mesure de déterminer la quantité et la qualité exactes des stupéfiants offerts à la vente. Cela dit, elle n’est pas convaincue que l’administration de force d’un émétique était indispensable en l’espèce pour obtenir les preuves. Les autorités de poursuite auraient pu simplement attendre l’élimination de la drogue par les voies naturelles (….) » (Jalloh c. Allemagne, no 54810/00, §§ 77, 11 juillet 2006, qui a suscité la critique ponctuelle du juge Bratza dans son opinion séparée).
Même s’il est techniquement différent, je vois un autre exemple dans l’arrêt par lequel la Cour a récemment rayé du rôle une requête qui soulevait un problème sur le terrain de l’article 3. Dans cette affaire, la Cour a en effet considéré que le requérant avait perdu la qualité de victime à raison du fait que l’administration pénitentiaire – après trois ans et quatre mois – avait remédié à la situation dénoncée par le détenu dans sa requête, que la Cour n’avait pourtant pas considérée comme étant dépourvue de tout fondement (Stojanović c. Serbie, no 34425/04, § 80, 19 mai 2009, avec mon opinion dissidente annexée).
C’est pour toutes ces raisons que je pense que cette affaire aurait dû trouver une conclusion différente et que le problème qu’elle pose va bien au-delà du seul cas d’espèce.

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