SECONDA SEZIONE
CAUSA LEONE C. ITALIA
( Richiesta no 30506/07)
SENTENZA
STRASBURGO
2 febbraio 2010
Questa sentenza diventerà definitiva nelle condizioni definite all’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire dei ritocchi di forma.
Nella causa Leone c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, riunendosi in una camera composta da:
Francesca Tulkens, presidentessa, Ireneu Cabral Barreto, Vladimiro Zagrebelsky, Danutė Jočienė, Dragoljub Popović, András Sajó, Nona Tsotsoria, giudici, e di Francesca Elens-Passos, cancelliera collaboratrice di sezione,
Dopo avere deliberato in camera del consiglio il 12 gennaio 2010,
Rende la sentenza che ha adottato in questa data:
PROCEDIMENTO
1. All’origine della causa si trova una richiesta (no 30506/07) diretta contro la Repubblica italiana e in cui tre cittadini di questo Stato, i Sigg. P. e D. L. e la Sig.ra F. I. M. (“i richiedenti”), hanno investito la Corte il 13 luglio 2007 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2. I richiedenti sono rappresentati da L. E., avvocato a Tarantoo. Il governo italiano (“il Governo”) è stato rappresentato dal suo agente, la Sig.ra E. Spatafora, ed il suo coagente, il Sig. N. Lettieri.
3. Il 9 marzo 2009, la presidentessa della seconda sezione ha deciso di comunicare la richiesta al Governo. Come permesso dall’articolo 29 § 3 della Convenzione, è stato deciso inoltre che la camera si sarebbe pronunciata sull’ammissibilità ed il merito allo stesso tempo.
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DELLO SPECIFICO
4. I richiedenti sono nati rispettivamente nel 1937, 1963 e 1940 e risiedono a San Giorgio Jonico.
5. Il 4 gennaio 2001, in ragione dei sospetti che pesavano su M.A, genero del primo richiedente e del terzo richiedente e cognato del secondo richiedente, che davano a pensare che fosse membro di un’organizzazione criminale coinvolta nel traffico illecito di stupefacenti, la procura di Taranto iniziò un procedimento in vista dell’applicazione delle misure di prevenzione stabilite dalla legge no 575 del 1965, come modificata dalla legge no 646 del 13 settembre 1982.
6. Con un’ordinanza del 12 giugno 2002, la camera del tribunale di Taranto specializzata nell’applicazione delle misure di prevenzione (qui di seguito “il tribunale”) ordinò il sequestro di numerosi beni. Tra immobili che figuravano nell’elenco dei beni sequestrati, parecchie automobili ed un conto bancario appartenente ai richiedenti.
7. In seguito, il procedimento dinnanzi al tribunale si svolse in camera del consiglio. I richiedenti, assistiti da avvocati di loro scelta, furono invitati a partecipare al procedimento in qualità di terze persone toccate dalla misura ed ebbero la facoltà di presentare delle memorie e dei mezzi di prova.
8. Con un’ordinanza del 12 giugno 2002, il tribunale decise di sottoporre M.A. ad una misura di libertà sotto controllo di polizia per una durata di tre anni. Il tribunale ordinò inoltre la confisca dei beni precedentemente sequestrati.
Il tribunale affermò che, alla luce dei numerosi indizi a carico di M.A, c’era luogo di constatare la sua partecipazione ad attività dell’associazione di malviventi ed il pericolo sociale che rappresentava. In quanto alla posizione specifica dei richiedenti, il tribunale sostenne tra la’ltro che le attività esercitate ed i redditi dichiarati da questi, verificati con l’aiuto di una perizia tecnica, non potevano giustificare l’acquisizione dei beni di cui erano proprietari.
9. I richiedenti, così come M.A. interposero appello contro l’ordinanza del tribunale. Addussero che questo ultimo aveva avuto torto a presupporre l’esistenza di una coabitazione con M.A e non aveva stabilito debitamente la provenienza illegittima dei loro beni confiscati.
10. Con un’ordinanza del 3 ottobre 2005, la camera competente della corte di appello di Lecce respinse il ricorso dei richiedenti e confermò la confisca dei loro beni. Affermò che mancava la prova della provenienza legale dei beni confiscati e che alla vista della natura dei rapporti dei richiedenti con M.A, c’era luogo di concludere che questo ultimo avrebbe potuto direttamente o indirettamente disporne. Del resto, il tribunale non aveva considerato che i richiedenti coabitavano con M.A.
11. I richiedenti ricorsero in cassazione. Contestarono l’interpretazione che la corte di appello aveva dato all’articolo 2 ter § 3 della legge no 575 del 1965 e fecero valere che la confisca dei loro beni non era giustificata.
12. Con una sentenza del 16 gennaio 2007 il cui il testo fu depositato alla cancelleria il 7 febbraio 2007, la Corte di cassazione, stimando che la corte di appello di Lecce aveva motivato in un modo logico e corretto tutti i punti controversi, respinse i richiedenti dei loro ricorsi.
II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE
13. Il diritto interno pertinente è descritto nella causa Bocellari e Rizza c. Italia,( no 399/02, §§ 25 e 26, 13 novembre 2007).
IN DIRITTO
I. SULLA VIOLAZIONE ADDOTTA DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE IN QUANTO AL DIFETTO DI PUBBLICITÀ DELLE UDIENZE
14. I richiedenti si lamentano della mancanza di pubblicità del procedimento di applicazione delle misure di prevenzione. Invocano l’articolo 6 § 1 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, si legge come segue:
“Ogni persona ha diritto affinché la sua causa sia equamente sentita, pubblicamente, da un tribunale indipendente ed imparziale, stabilito dalla legge che deciderà, delle contestazioni sui suoi diritti ed obblighi di carattere civile. Il giudizio deve essere reso pubblicamente, ma l’accesso della sala dell’ udienza può essere vietato alla stampa ed al pubblico durante la totalità o una parte del processo nell’interesse della moralità, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando gli interessi dei minorenni o la protezione della vita privata delle parti al processo lo esigono, o nella misura giudicata rigorosamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità sarebbe di natura tale da recare offesa agli interessi della giustizia.”
15. Il Governo si oppone a questa tesi.
A. Sull’ammissibilità
16. Il Governo eccepisce della tardività della richiesta sotto un doppio aspetto. Innanzitutto, considera che i richiedenti avrebbero dovuto introdurre la loro richiesta entro sei mesi a contare dal 3 ottobre 2005, ossia la data della sentenza della corte di appello di Lecce. Facendo valere che il difetto di pubblicità delle udienze nel procedimento di Cassazione non può essere messo in causa dinnanzi alla Corte, sostiene che questa ultima fase del procedimento nazionale non dovrebbe entrare in fila di conto nel calcolo del termine dei sei mesi. In secondo luogo, il Governo rileva che, sebbene la prima comunicazione dei richiedenti con la Corte data 13 luglio 2007, il formulario della richiesta porta la data del 23 gennaio 2008. Invita la Corte a considerare questa ultima data come la data di introduzione della richiesta ed a respingere questa in quanto tardiva.
17. Infine, il Governo sostiene che questa parte della richiesta è inammissibile in ragione del fatto che gli interessati non hanno sollecitato un’udienza pubblica presso le autorità nazionali.
18. Trattandosi del primo risvolto dell’eccezione di tardività del Governo, la Corte ricorda che in virtù dell’articolo 35 § 1 della Convenzione, può essere investita di una causa solo “entro sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva” cioè dell’atto che chiude il processo di “esaurimento delle vie di ricorso interne”, ai sensi della stessa disposizione (Kadiÿis c. Lettonia (no 2) (dec.), no 62393/00, 25 settembre 2003).
Nello specifico, osserva che il procedimento controverso si è svolto in tre fasi, conformemente alle regole del sistema giudiziale italiano, e si è concluso dinnanzi alla Corte di cassazione. La Corte considera che la “decisione interna definitiva” è la sentenza dell’alta giurisdizione italiana del 16 gennaio 2007, depositata alla cancelleria il 7 febbraio 2007.
19. In quanto al secondo risvolto dell’eccezione, la Corte constata che la richiesta è stata introdotta in una prima lettera del 13 luglio 2007 con la quale gli interessati avevano sollevato in modo dettagliato le loro lamentele. Il 23 gennaio 2008, hanno mandato poi, il loro formulario di richiesta debitamente compilato.
La Corte ricorda a questo proposito la pratica consolidata degli organi della Convenzione che vuole che la data di introduzione di una richiesta sia quella della prima lettera con la quale il richiedente formula il motivo di appello che intende sollevare (Nee c. Irlanda, (dec.), no 52787/99, 30 gennaio 2003, ed Ataman c. Turchia, (dec.), no 46252/99, 11 settembre 2001). Certo, un scarto troppo importante tra i momenti della prima comunicazione inviata alla Corte e la formalizzazione della richiesta potrebbe porre dei problemi in quanto alla determinazione della data di introduzione di questa.
Peṛ, la Corte considera che il termine messo dai richiedenti per formalizzare la loro richiesta non è irragionevole. Pertanto, la data da prendere in considerazione nello specifico come data di introduzione della richiesta è quella della suddetta prima lettera.
Ne segue che i due risvolti dell’eccezione di tardività del Governo non possono essere considerati.
20. In quanto all’ultima eccezione sollevata dal Governo, la Corte ricorda che nella causa Bocellari e Rizza (sentenza precitata, § 38,)aveva constatato che:
“Lo svolgimento in camera del consiglio dei procedimenti che prevedono l’applicazione delle misure di prevenzione, tanto in prima istanza che in appello, è previsto espressamente dall’articolo 4 della legge no 1423 del 1956 e le parti non hanno la possibilità di chiedere e di ottenere un’udienza pubblica. Del resto, il Governo stesso esprime dei dubbi in quanto alle probabilità di successo di un’eventuale richiesta di dibattimenti pubblici proveniente dalle parti.”
Non vede nessuna ragione di scostarsi da questa conclusione in quanto alla possibilità per i richiedenti di chiedere e di ottenere un’udienza pubblica nel procedimento di applicazione delle misure di prevenzione.
21. Alla vista di ciò che precede, la Corte respinge le eccezioni sollevate dal Governo. Constata peraltro che questa parte della richiesta non è manifestamente mal fondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione e che non incontra nessun altro motivo di inammissibilità. Conviene dunque dichiararla ammissibile.
B. Sul merito
22. I richiedenti adducono che il procedimento controverso si è svolto in camera del consiglio, e dunque in modo non pubblico.
23. Il Governo afferma che i richiedenti hanno beneficiato di un procedimento equo. Fa valere che la pubblicità dei dibattimenti non è sempre un elemento cruciale nella valutazione dell’equità di un procedimento. Al contrario, riveste importanza sotto il terreno della Convenzione solo quando contribuisce in modo reale ed effettivo allo svolgimento equo del procedimento.
24. Per il Governo, il procedimento in camera del consiglio era, nello specifico, auspicabile in ragione dell’oggetto del procedimento, essenzialmente tecnico e contabile. Inoltre, gli elementi della causa erano gli stessi di quelli del procedimento penale principale che si era svolto in modo pubblico.
25. Tenuto conto di questi elementi, il Governo sostiene che un’udienza orale che permetteva alle parti interessate di intervenire e di esporre i loro argomenti, anche senza dibattimenti pubblici, soddisfaceva le condizioni richieste dall’articolo 6 della Convenzione.
26. La Corte osserva che il presente caso è simile alla causa Bocellari e Rizza precitata nella quale ha esaminato la compatibilità dei procedimenti di applicazione delle misure di prevenzione con le esigenze del processo equo previsto dall’articolo 6 della Convenzione (vedere anche Perre ed altri c. Italia, no 1905/05, 8 luglio 200)8.
27. La Corte ha osservato che lo svolgimento in camera del consiglio dei procedimenti che prevedono l’applicazione delle misure di prevenzione, tanto in prima istanza che in appello, è previsto espressamente dall’articolo 4 della legge no 1423 del 1956 e che le parti non hanno la possibilità di chiedere e di ottenere un’udienza pubblica.
28. Peraltro, questo genere di procedimento prevede l’applicazione di una misura di confisca di beni e di capitali, il che mette direttamente e sostanzialmente in causa la situazione patrimoniale del giudicabile. In questo contesto, si potrebbe pretendere che il controllo del pubblico non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato.
29. Pure ammettendo che gli interessi superiori ed il grado elevato di tecnicità possano talvolta entrare in gioco in questo genere di procedimenti, la Corte ha giudicato essenziale, tenuto conto in particolare della posta dei procedimenti di applicazione delle misure di prevenzione e degli effetti che sono suscettibili di produrre sulla situazione personale delle persone implicate, che i giudicabili si vedano offrire perlomeno la possibilità di sollecitare un’udienza pubblica dinnanzi alle camere specializzate dei tribunali e dei corsi di appello.
30. La Corte considera che la presente causa non presenta elementi suscettibili di distinguerla dalla causa Bocellari e Rizza.
31. Conclude, di conseguenza, alla violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.
II. SULLE ALTRE VIOLAZIONI ADDOTTE DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE
32. Invocando l’articolo 6 della Convenzione, i richiedenti si lamentano dell’iniquità del procedimento che ha portato alla confisca dei loro beni in mancanza di ogni condanna a loro carico. In particolare, adducono che le autorità giudiziarie non hanno esaminato debitamente gli elementi di prova che dimostravano la provenienza legittima dei loro beni.
33. La Corte ricorda innanzitutto che l’articolo 6 si applica ai procedimenti di applicazione delle misure di prevenzione sotto il suo risvolto civile, tenuto conto in particolare del loro oggetto “patrimoniale” (Arcuri c. Italia, precitata; Riela ed altri c. Italia precitata; Bocellari e Rizza c. Italia, (dec.), no 399/02, 28 ottobre 2004 e 16 marzo 2006).
34. Ricorda poi che non le spetta conoscere gli errori di fatto o di diritto presumibilmente commessi da una giurisdizione interna, salvo se e nella misura in cui abbia potuto portare attentato ai diritti e libertà salvaguardate dalla Convenzione (vedere García Ruiz c. Spagna [GC], no 30544/96, § 28, CEDH 1999-I). In più, l’ammissibilità delle prove dipende al primo capo dalle regole del diritto nazionale, e spetta in principio alle giurisdizioni interne, ed in particolare ai tribunali, interpretare questa legislazione (vedere, tra molte altre, Brualla Gómez del Torre c. Spagna, sentenza del 19 dicembre 1997, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-VII, p. 2955, § 31). Il ruolo della Corte si limita a verificare la compatibilità con la Convenzione degli effetti di simile interpretazione (Edificaciones March Gallego S.p.A. c. Spagna, sentenza del 19 febbraio 1998, Raccolta 1998-I, p. 290, § 33).
35. Nello specifico, i richiedenti, rappresentati da un avvocato di loro scelta, parteciparono al procedimento ed ebbero la possibilità di presentare delle memorie e dei mezzi di prova che hanno stimato necessari per salvaguardare i loro interessi. La Corte rileva che il procedimento concernente l’applicazione delle misure di prevenzione si è svolto in modo contraddittorio dinnanzi a tre giurisdizioni successive.
36. La Corte osserva inoltre che le giurisdizioni italiane non potevano basarsi su dei semplici sospetti. Dovevano stabilire e dovevano valutare obiettivamente i fatti esposti dalle parti e niente nella pratica permette di credere che abbiano valutato in modo arbitrario gli elementi che sono stati sottoposti loro.
37. I giudici nazionali si sono basati sulle informazioni raccolte su M.A, il genero del primo richiedente e del terzo richiedente e cognato del secondo richiedente, da cui risultava che questo era membro di un’associazione di malviventi e disponeva di risorse finanziarie sproporzionate rispetto ai suoi redditi. I tribunali nazionali hanno analizzato inoltre la situazione finanziaria dei richiedenti e la natura delle loro relazioni con M.A. e hanno concluso che l’acquisizione dei beni confiscati aveva potuto avere luogo solo con l’impiego di profitti illeciti di colui che li gestiva de facto. In più, conformemente all’articolo 2ter della legge del 1965, la presunzione non era irrefragabile, potendo essere contraddetta dalla prova del contrario (vedere diritto interno pertinente).
38. Ne segue che questo motivo di appello deve essere respinto come manifestamente mal fondato, in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
III. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
39. Ai termini dell’articolo 41 della Convenzione,
“Se la Corte dichiara che c’è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente permette di cancellare solo imperfettamente le conseguenze di questa violazione, la Corte accorda alla parte lesa, se c’è luogo, una soddisfazione equa. “
A. Danno
40. I richiedenti richiedono 1 161 452 EUR circa a titolo del danno patrimoniale, ossia il rimborso del valore dei beni confiscati, e 50 000 EUR per il danno morale subito.
41. Il Governo contesta queste pretese.
42. La Corte non vede legame di causalità tra la violazione constatata ed il danno patrimoniale addotto e respingi questa richiesta. In quanto al danno morale subito dai richiedenti, la Corte stima che, nelle circostanze particolari dello specifico, si trova riparato sufficientemente dalla constatazione di violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione al quale giunge (vedere, tra numerosi altre, le sentenze Yvon c. Francia, del 24 aprile 2003, no 44962/98, CEDH 2003-V e Bocellari, precitata, § 46).
B. Oneri e spese
43. Giustificativi in appoggio, i richiedenti sollecitano 14 000 EUR per il rimborso della perizia tecnica stabilita a livello nazionale. Chiedono anche 10 000 EUR per gli oneri e le spese impegnate dinnanzi alla Corte.
44. Il Governo si oppone.
45. Secondo la giurisprudenza della Corte, un richiedente può ottenere il rimborso dei suoi oneri e spese solo nella misura in cui si stabilisca la loro realtà, la loro necessità ed il carattere ragionevole del loro tasso.
Nello specifico, la Corte considera che non c’è luogo di rimborsare ai richiedenti gli oneri incorsi dinnanzi alle giurisdizioni interne, perché non sono stati esposti per ovviare alla violazione constatata. Per ciò che riguarda gli oneri e le spese riferiti al presente procedimento, la Corte giudica eccessiva la richiesta dei richiedenti e decide di assegnare loro, congiuntamente, 3 000 EUR a questo titolo.
C. Interessi moratori
46. La Corte giudica appropriato ricalcare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse della facilità di prestito marginale della Banca centrale europea aumentato di tre punti percentuale.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,
1. Dichiara la richiesta ammissibile in quanto al motivo di appello tratto dall’articolo 6 § 1, in quanto al difetto di pubblicità delle udienze, ed inammissibile per il surplus;
2. Stabilisce che c’è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione;
3. Stabilisce
a) che lo stato convenuto deve versare ai richiedenti, congiuntamente, nei tre mesi a contare dal giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, 3 000 EUR (tremila euro) per oneri e spese, più ogni importo che può essere dovuto dai richiedenti, a titolo di imposta;
b) che a contare dalla scadenza di suddetto termine e fino al versamento, questo importo sarà da aumentare di un interesse semplice ad un tasso uguale a quello della facilità di prestito marginale della Banca centrale europea applicabile durante questo periodo, aumentato di tre punti percentuale;
4. Respinge la domanda di soddisfazione equa per il surplus.
Fatto in francese, poi comunicato per iscritto il 2 febbraio 2010, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 dell’ordinamento.
Francesca Elens-Passos Francesca Tulkens
Cancelliera collaboratrice Presidentessa