Conclusione: violazione dell’art. 6-1
SECONDA SEZIONE
CAUSA LANDINO C. ITALIA
( Richiesta no 11213/04)
SENTENZA
STRASBURGO
16 marzo 2010
Questa sentenza diventerà definitiva nelle condizioni definite all’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire dei ritocchi di forma.
Nella causa Landino c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, riunendosi in una camera composta da:
Francesca Tulkens, presidentessa, Ireneu Cabral Barreto, Vladimiro Zagrebelsky, Danutė Jočienė, Dragoljub Popović, András Sajó, Nona Tsotsoria, giudici,
e di Francesca Elens-Passos, cancelliera collaboratrice di sezione,
Dopo avere deliberato in camera del consiglio il 23 febbraio 2010,
Rende la sentenza che ha adottato in questa data:
PROCEDIMENTO
1. All’origine della causa si trova una richiesta (no 11213/04) diretta contro la Repubblica italiana e in cui una cittadina di questo Stato, la Sig.ra M. A. L. (“la richiedente”), ha investito la Corte il 31 marzo 1999 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2. La richiedente è rappresentata da A. N. e V., avvocati a Benevento. Il governo italiano (“il Governo”) è stato rappresentato successivamente dai suoi agenti, i Sigg. I.M. Braguglia e R. Adam e dal suo coagente, il Sig. N. Lettieri.
3. Il 4 settembre 2007, la presidentessa della seconda sezione ha deciso di comunicare la richiesta al Governo. Come permesso dall’articolo 29 § 3 della Convenzione, ha deciso inoltre che la camera si sarebbe pronunciata sull’ammissibilità ed il merito allo stesso tempo.
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DELLO SPECIFICO
4. La richiedente, la Sig.ra M. A. L., è una cittadina italiana, nata nel 1948 e residente a Benevento.
1. Il procedimento principale
5. Il 19 luglio 1990, la richiedente investì il giudice di istanza (“pretore”) di Benevento (RG no 2665/90) facente funzione di giudice del lavoro, per ottenere la riconoscenza del suo diritto ad una pensione ordinaria di invalidità.
6. Il 6 ottobre 1990, il pretore fissò la prima udienza al 18 novembre 1991. All’udienza del 3 febbraio 1992, ordinò una perizia. L’udienza del 28 giugno 1993 fu rinviata d’ ufficio al 13 febbraio 1995.
7. Con un giudizio dello stesso giorno il cui testo fu depositato alla cancelleria il 25 marzo 1995, il pretore respinse l’istanza della richiedente.
8. Il 2 febbraio 1996, questa ultima interpose appello dinnanzi al tribunale di Benevento (RG no 41/96).
9. Il 22 febbraio 1996, il presidente del tribunale incaricò un giudice delatore della pratica e fissò l’udienza delle arringhe al 16 ottobre 1996. Le udienze del 16 aprile 1997 e del 19 novembre 1997 furono rinviate d’ ufficio. L’ 11 marzo 1998, il presidente del tribunale nominò un perito. L’udienza dell’ 11 novembre 1998 fu rinviata al 24 febbraio 1999.
10. Con un giudizio dello stesso giorno il cui testo fu depositato alla cancelleria il 17 marzo 1999, il tribunale riconobbe il diritto alla pensione della richiedente con effetto retroattivo a partire dal 1 gennaio 1996.
2. Il procedimento “Pinto”
11. Il 6 settembre 2001, la richiedente investì la corte di appello di Roma conformemente alla legge no 89 del 24 marzo 2001, detta “legge Pinto”, per lamentarsi della durata del procedimento principale. Chiese alla corte di concludere alla violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione e di condannare lo stato italiano al risarcimento dei danni subiti. Chiese in particolare 63 000 000 lire italiane (ITL) [32 536,78 euro (EUR)] a titolo di danno patrimoniale e morale.
12. Con una decisione del 13 dicembre 2001 il cui testo fu depositato alla cancelleria il 21 gennaio 2002, la corte di appello respinse la richiesta. Il diritto alla pensione della richiedente essendo stato riconosciuto con effetto retroattivo a partire dal 1 gennaio 1996, o più di dieci mesi il 25 marzo 1995, la corte prese in considerazione dopo il deposito alla cancelleria del giudizio di prima istanza solo il procedimento di appello e stimò la durata ragionevole. Condannò inoltre la richiedente a pagare 2 100 000 ITL (1 084,56 EUR) a titolo di onere di procedimento.
13. Il 27 maggio 2002, la richiedente ricorse in cassazione. Con una sentenza del 1 aprile 2003 il cui testo fu depositato alla cancelleria il 17 ottobre 2003, la Corte di cassazione respinse il ricorso, senza deliberare sugli oneri di procedimento, avendo rinunciato l’amministrazione a difendersi.
II. IL DIRITTO E LA PRATICA INTERNA PERTINENTI
14. Il diritto e la pratica interna pertinenti figurano nella sentenza Cocchiarella c. Italia ([GC], no 64886/01, §§ 23-31, CEDH 2006 -…).
IN DIRITTO
I. SULLA VIOLAZIONE ADDOTTA DELL’ARTICOLO 6 § 1 DELLA CONVENZIONE
15. Dopo avere tentato il procedimento “Pinto”, la richiedente continuò a considerarsi vittima della violazione del diritto ha ̀un processo in un termine ragionevole. Invoca l’articolo 6 della Convenzione, così formulato:
“Ogni persona ha diritto affinché la sua causa sia sentita in un termine ragionevole, da un tribunale che deciderà, delle contestazioni sui suoi diritti ed obblighi di carattere civile “
A. Sull’ammissibilità
1. Non-esaurimento delle vie di ricorso interne
16. Il Governo solleva un’eccezione di no-esaurimento delle vie di ricorso interne. Afferma che la Corte avrebbe sospeso l’esame della richiesta in seguito alla decisione della richiedente di avvalersi del rimedio introdotto dalla legge “Pinto”, entrata in vigore nel frattempo, creando così una disparità di trattamento rispetto ad altre richieste introdotte prima dell’adozione di suddetta legge e respinte dalla Corte per non-esaurimento delle vie di ricorso interne, al motivo che i richiedenti non avevano utilizzati il ricorso “Pinto” ( inter alia, Brusco c. Italia, (dec.), no 69789/01, CEDH 2001-IX).
17. La Corte osserva che, contrariamente alla causa Brusco, dove la richiedente aveva indicato che non desiderava avvalersi del rimedio offerto dalla legge “Pinto” ed aveva invitato la Corte a registrare la sua richiesta, la richiedente, nello specifico, ha comunicato alla Corte la sua intenzione di introdurre il ricorso “Pinto”, il che ha fatto poi, senza rinunciare alla sua richiesta. Essendo state esaurite le vie di ricorso interne (vedere De Sante c. Italia, (dec.), no 56079/00, 24 giugno 2004) la Corte stima che c’è luogo di respingere l’eccezione (vedere, mutatis mutandis, Luigi Serino c. Italia, no 679/03, §§ 15-16, 19 febbraio 2008).
2. Requisito di “vittima”
18. Per sapere se un richiedente può definirsi “vittima” ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione, c’è luogo di esaminare se le autorità nazionali hanno riconosciuto e poi riparato in modo adeguato e sufficiente la violazione controversa (vedere, tra altre, Delle Cave e Corrado c. Italia, no 14626/03, §§ 25-31, 5 giugno 2007, CEDH 2007-VI; Cocchiarella c. Italia, precitata, §§ 69-98).
19. Nello specifico nessuna correzione è stata accordata alla richiedente. Pertanto, questa può sempre definirsi “vittima” ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione.
3. Conclusione
20. La Corte constata che questo motivo di appello non è manifestamente mal fondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione e non incontra nessun altro motivo di inammissibilità. Deve pertanto essere dichiarato ammissibile.
B. Sul merito
21. La Corte constata che il procedimento principale che è cominciato il 19 luglio 1990 per concludersi il 17 marzo 1999, è durato più di otto anni per due gradi di giurisdizione.
22. La Corte ha trattato a più riprese delle richieste che sollevavano delle questioni simili a quella del caso di specie e ha constatato un’incomprensione dell’esigenza del “termine ragionevole”, tenuto conto dei criteri emanati in materia dalla sua giurisprudenza ben consolidata (vedere, in primo luogo, Cocchiarella c. Italia, precitata). Non vedendo niente che possa condurre ad una conclusione differente nella presente causa, la Corte stima che c’è luogo anche di constatare una violazione dell’articolo 6 § 1.
II. SULLE ALTRE VIOLAZIONI ADDOTTE
23. Invocando l’articolo 13, la richiedente sostiene che il ricorso “Pinto” non è effettivo.
24. La Corte ricorda che, secondo la giurisprudenza Delle Cave e Corrado c. Italia ( no 14626/03, §§ 43-46, 15 maggio 2007) e Simaldone c. Italia, ( no 22644/03, §§ 71-72, 31 marzo 2009) l’insufficienza dell’indennizzo “Pinto” non rimette in causa l’effettività di questa via di ricorso. Pertanto, c’è luogo di dichiarare questo motivo di appello inammissibile per difetto manifesto di fondamento.
25. La richiedente adduce poi la violazione degli articoli 14, 17 e 34. Sarebbe stata vittima di una “discriminazione fondata sulla ricchezza”, tenuto conto degli oneri avanzati per intentare il procedimento “Pinto” e della condanna a rimborsare all’amministrazione gli oneri di procedimento in seguito al rigetto della sua domanda.
26. La Corte stima che c’è luogo di esaminare unicamente questi motivi di appello sotto l’angolo del diritto ad un tribunale allo sguardo dell’articolo 6 della Convenzione. Osserva che, sebbene un individuo possa essere ammesso, secondo la legge italiana, a favore dell’assistenza giudiziale gratuita in materia civile, la richiedente non ha chiesto l’aiuto giudiziale. Rileva, inoltre, che ha potuto investire le giurisdizioni competenti ai termini della legge “Pinto” e che la corte di appello ha fatto diritto alla sua richiesta, accordandole una somma a titolo degli oneri di procedimento. Ora, non si potrebbe parlare di ostacoli all’esercizio del diritto ad un tribunale quando una parte, rappresentata da un avvocato, investe liberamente la giurisdizione competente e presenta dinnanzi a lei i suoi argomenti. Pertanto, nessuna apparenza di violazione non potendo essere scoperta, la Corte dichiara i motivi di appello riguardanti gli oneri di procedimento inammissibili perché manifestamente mal fondati ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione (Nicoletti c. Italia, (dec.), no 31332/96, 10 aprile 1997).
27. Sul terreno dell’articolo 6, la richiedente adduce infine che le giurisdizioni “Pinto” non sarebbero imparziali, al motivo che certi giudici esercitano un controllo sulla condotta di altri colleghi, e che la Corte dei conti è tenuta ad iniziare un procedimento per responsabilità contro questi ultimi, nel caso in cui la lunghezza di un procedimento interno sarebbe loro imputabile.
28. Concernente il motivo di appello riguardante l’imparzialità, e dunque l’equità, del procedimento “Pinto”, la Corte ricorda che l’imparzialità di un giudice deve rivalutarsi secondo un passo soggettivo, provando a determinare la convinzione personale di tale giudice in tale occasione, ed anche secondo un passo obiettivo che porta ad assicurarsi che offriva delle garanzie sufficienti per escludere a questo riguardo ogni dubbio legittimo. In quanto alla prima, l’imparzialità personale di un magistrato si presume fino alla prova del contrario. Ora, nessun elemento della pratica dà a pensare che le giurisdizioni “Pinto” avessero dei pregiudizi. In quanto alla seconda, conduce a chiedere se, a prescindere dalla condotta del giudice, certi fatti verificabili autorizzino a sospettare l’imparzialità di questo ultimo.
29. Nello specifico, il timore di un difetto di imparzialità era legato al fatto che i giudici avrebbero respinto la richiedente a nome di uno “spirito di corpo” che avrebbe portato le giurisdizioni “Pinto” a respingere sistematicamente le istanze di soddisfazione equa per difendere la condotta dei loro colleghi. Tuttavia, la Corte constata che queste affermazioni sono vaghe e non supportate. Di conseguenza, questo motivo di appello è da respingere perché manifestamente mal fondato ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione (vedere Padovani c. Italia, sentenza del 26 febbraio 1993, serie A no 257-B, §§ 25-280).
III. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
30. Ai termini dell’articolo 41 della Convenzione,
“Se la Corte dichiara che c’è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente permette di cancellare solo imperfettamente le conseguenze di questa violazione, la Corte accorda alla parte lesa, se c’è luogo, una soddisfazione equa. “
A. Danno
31. Ricordando che il procedimento principale riguardava un oggetto sensibile, ossia la concessione di una pensione di invalidità, la richiedente richiede 31 500 euro (EUR) a titolo del danno morale che avrebbe subito.
32. Il Governo contesta questa pretesa. Sostiene che si basa in parte su dei motivi di appello su cui non è stata invitata a formulare delle osservazioni dalla Corte.
33. La Corte stima che avrebbe potuto accordare alla richiedente, in mancanza di vie di ricorso interne e tenuto conto del fatto che la causa riguardava una pensione di invalidità, la somma di 9 100 EUR. Il fatto che la corte di appello di Roma non abbia concesso niente alla richiedente arriva ad un risultato manifestamente irragionevole. Di conseguenza, avuto riguardo alle caratteristiche della via di ricorso “Pinto” la Corte, tenuto conto della soluzione adottata nella sentenza Cocchiarella c. Italia (precitata, §§ 139-142 e 146) e deliberando in equità, assegna alla richiedente 4 095 EUR.
B. Oneri e spese
34. La richiedente chiede anche il rimborso di 3 926 EUR per gli oneri e le spese relativi al procedimento “Pinto” e 3 891 EUR per quelli impegnati dinnanzi alla Corte.
35. Il Governo giudica queste pretese eccessive.
36. La Corte ricorda che, secondo la sua giurisprudenza, il sussidio degli oneri e delle spese a titolo dell’articolo 41 presuppone che si stabilisca la loro realtà, la loro necessità ed il carattere ragionevole del loro tasso (Iatridis c. Grecia (soddisfazione equa) [GC], no 31107/96, § 54, CEDH 2000-XI). Inoltre, gli oneri di giustizia sono recuperabili solamente nella misura in cui si riferiscono alla violazione constatata (vedere, per esempio, Beyeler c. Italia (soddisfazione equa) [GC], no 33202/96, § 27, 28 maggio 2002; Sahin c. Germania [GC], no 30943/96, § 105, CEDH 2003-VIII).
37. Nello specifico, tenuto conto dei documenti in suo possesso e dei suddetti criteri, la Corte stima ragionevole assegnare alla richiedente 1 000 EUR per gli oneri e le spese del procedimento nazionale e 2 000 EUR per il procedimento dinnanzi a lei.
C. Interessi moratori
38. La Corte giudica appropriato ricalcare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse della facilità di prestito marginale della Banca centrale europea aumentato di tre punti percentuale.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,
1. Dichiara la richiesta ammissibile in quanto al motivo di appello derivato dalla durata eccessiva del procedimento ed inammissibile per il surplus;
2. Stabilisce che c’è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione;
3. Stabilisce
a) che lo stato convenuto deve versare alla richiedente, nei tre mesi a contare dal giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:
( i) 4 095 EUR (quattromila novantacinque euro) più ogni importo che può essere dovuto a titolo di imposta, per danno morale
(ii) 3 000 EUR (tremila euro) globalmente, più ogni importo che può essere dovuto a titolo di imposta, per oneri e spese;
b) che a contare dalla scadenza di suddetto termine e fino al versamento, questo importo sarà da aumentare di un interesse semplice ad un tasso uguale a quello della facilità di prestito marginale della Banca centrale europea applicabile durante questo periodo, aumentato di tre punti percentuale;
4. Respinge la domanda di soddisfazione equa per il surplus.
Fatto in francese, poi comunicato per iscritto il 16 marzo 2010, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 dell’ordinamento.
Francesca Elens-Passos Francesca Tulkens
Cancelliera collaboratrice Presidentessa