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Testo originale e tradotto della sentenza selezionata

AFFAIRE GIULIANI ET GAGGIO c. ITALIE

Tipologia: Sentenza
Importanza: 1
Articoli: 02, 13, 38
Numero: 23458/02/2011
Stato: Italia
Data: 2011-03-24 00:00:00
Organo: Grande Camera
Testo Originale

Conclusione Non – violazione dell’art. 2 (risvolto materiale); Non -violazione dell’art. 2 (risvolto materiale); Non -violazione dell’art. 2 (risvolto materiale); Non -violazione dell’art. 2 (risvolto procedurale); Non -violazione dell’art.13; Non -violazione dell’art. 38
GRANDE CAMERA
CAUSA GIULIANI E GAGGIO C. ITALIA
( Richiesta no 23458/02)
SENTENZA
STRASBURGO
24 marzo 2011
Questa sentenza è definitiva. Può subire dei ritocchi di forma.

Nella causa Giuliani e Gaggio c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, riunendosi in una Grande Camera composta da:
Jean-Paul Costa, presidente, Christos Rozakis, Francesca Tulkens, Ireneu Cabral Barreto, Boštjan il Sig. Zupančič, Nina Vajić, Elisabetta Steiner, Alvina Gyulumyan, Renate Jaeger, Davide Thór Björgvinsson, Ineta Ziemele, Isabelle Berro-Lefèvre, Ledi Bianku, Nona Tsotsoria, Zdravka Kalaydjieva, Işıl Karakaş, Guido Raimondi, giudici,
e di Vincent Berger, giureconsulto,
Dopo avere deliberato in camera del consiglio il 29 settembre 2010 ed il 16 febbraio 2011,
Rende la sentenza che ha adottato in questa ultima data:
PROCEDIMENTO
1. All’origine della causa si trova una richiesta (no 23458/02) diretta contro la Repubblica italiana e in cui tre cittadini di questo Stato, OMISSIS, moglie di G., ed OMISSIS (“i richiedenti”), hanno investito la Corte il 18 giugno 2002 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2. I richiedenti sono stati rappresentati da N. P. e G. Pisapia, avvocati a Roma. Il governo italiano (“il Governo”) è stato rappresentato dal suo agente, la Sig.ra E. Spatafora, e col suo coagente, il Sig. N. Lettieri.
3. I richiedenti si lamentavano del decesso del loro figlio e fratello, C. G., che stimavano essere dovuto ad un ricorso eccessivo alla forza. Adducevano inoltre che lo stato convenuto non aveva preso le disposizioni legislative, amministrative e regolamentari necessarie per ridurre per quanto possibile le conseguenze nefaste dell’uso della forza, che l’organizzazione e la pianificazione delle operazioni di polizia non erano stati conformi all’obbligo di proteggere la vita e che l’inchiesta sulle circostanze del decesso del loro prossimo non era stata efficace.
4. La richiesta è stata assegnata alla quarta sezione della Corte, articolo 52 § 1 dell’ordinamento. Il 6 febbraio 2007, dopo un’udienza avendo portato al tempo stesso sulle questioni di ammissibilità e su queste di fondo, articolo 54 § 3 dell’ordinamento, è stata dichiarata ammissibile con una camera di suddetta sezione, composta dei giudici di cui segue il nome: Sir Nicolas Bratza, Josep Casadevall, Giovanni Bonello, Kristaq Traja, Vladimiro Zagrebelsky, Stanislav Pavlovschi, Lech Garlicki, così come di Lawrence Early, cancelliere di sezione.
5. Il 25 agosto 2009, una camera della quarta sezione, composta da Sir Nicolas Bratza, Josep Casadevall, Lech Garlicki, Giovanni Bonello, Vladimiro Zagrebelsky, Ljiljana Mijović, Ján Šikuta, giudici, e di Lawrence Early, cancelliere di sezione, ha reso una sentenza in che ha concluso: all’unanimità, che non c’era stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione nel suo risvolto materiale per ciò che era dell’uso eccessivo della forza; per cinque voci contro due, che non c’era stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione nel suo risvolto materiale per ciò che era degli obblighi positivi di proteggere la vita; per quattro voci contro tre, che c’era stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione nel suo risvolto procedurale; all’unanimità, che non c’era luogo di esaminare la causa sotto l’angolo degli articoli 3, 6 e 13 della Convenzione; all’unanimità, che non c’era stata violazione dell’articolo 38 della Convenzione. Ha concesso anche, per danno morale, 15 000 euro, EUR, per ciascuno ai richiesti OMISSIS, e 10 000 EUR al richiedente OMISSIS.
6. Il 24 novembre 2009, il Governo ed i richiedenti hanno chiesto il rinvio della causa dinnanzi alla Grande Camera in virtù degli articoli 43 della Convenzione e 73 dell’ordinamento. Il 1 marzo 2010, un collegio della Grande Camera ha fatto diritto a queste domande.
7. La composizione della Grande Camera è stata formata conformemente agli articoli 26 §§ 4 e 5 della Convenzione e 24 dell’ordinamento.
8. Tanto i richiedenti che il Governo hanno depositato delle osservazioni scritte complementari, articolo 59 § 1 dell’ordinamento.
9. Il 27 settembre 2010, i giudici, titolari e supplenti, nominati per riunirsi nella presente causa hanno visionato il CD-ROM sottomesso dalle parti il 28 giugno ed il 9 luglio 2010, paragrafo 139 sotto.
10. Un’udienza si è svolta in pubblico al Palazzo dei diritti dell’uomo, a Strasburgo, il 29 settembre 2010, articolo 59 § 3 dell’ordinamento.
Sono comparsi:
OMISSIS
La Corte li ha ascoltati nelle loro dichiarazioni.
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DELLO SPECIFICO
11. I richiedenti sono nati rispettivamente nel 1938, nel 1944 e nel 1972; risiedono a Genova ed a Milano. Sono rispettivamente il padre, la madre ed la sorella di C. G. che fu ferito mortalmente da un proiettile all’epoca delle manifestazioni in margine del “G8” che hanno avuto luogo a Genova nel luglio 2001.
A. Il contesto in cui si è tenuto il G8 a Genova ed i fatti che hanno preceduto il decesso di C. G.
12. I 19, 20 e 21 luglio 2001 si svolse a Genova il vertice dice del “G8.” Di numerosi manifestazioni “antiglobalizzazione” furono organizzati nella città ed un importante dispositivo di sicurezza fu messo in posto con le autorità italiane. In virtù dell’articolo 4 § 1 della legge no 149 del 8 giugno 2000, il prefetto di Genova era autorizzato a ricorrere al personale militare delle forze armate per le esigenze di sicurezza pubblica legata allo svolgimento del vertice. Inoltre, una “zona rossa” era stata delimitata con l’aiuto di una rete metallica nella parte della città, il centro storico, riguardato dalle riunioni del G8. Del tipo, soli i rivierasco e le persone che dovevano lavorare potevano aderire ci. L’accesso al porto era stato vietato e l’aeroporto chiuso al traffico. La zona rossa era cinta in una zona gialla che, al suo turno, era vincolata da una zona bianca (zona normale).
13. L’ordine di servizio del 19 luglio 2001 fu emesso dal comandante delle forze dell’ordine la veglio del decesso di C. G.. Riassume così le precedenze delle forze dell’ordine: mettere in opera dentro alla zona rossa una linea di difesa che permette di respingere velocemente ogni tentativo di intrusione; mettere in opera nella zona gialla una linea di difesa per potere fare fronte ad ogni azione, tenuto conto della posizione dei manifestanti in differenti luoghi così come delle azioni che provengono da elementi più estremisti; prendere delle misure di ordine pubblico sugli assi toccati dalle manifestazioni, avuto riguardo al pericolo di aggressioni avvantaggiate dagli effetti della massa.
14. Le parti si accordano sul fatto che l’ordine di servizio del 19 luglio 2001 ha modificato i piani stabiliti fino là in quanto al modo di esporre le risorse ed i mezzi disponibili, per permettere alle forze dell’ordine di bloccare efficacemente ogni tentativo di intrusione nella zona rossa di persone che partecipano alla manifestazione detta dei “Tute Bianche”, le combinazioni bianche, annunciati ed autorizzata per l’indomani.
15. I richiedenti sostengono che l’ordine di servizio del 19 luglio ha assegnato ad un plotone di carabinieri implicati nel decesso di C. G. una funzione dinamica mentre prima era supposto essere statico. Il Governo ha indicato che le istruzioni contenute negli ordini di servizio sono state trasmesse oralmente agli ufficiali presenti sul terreno.
16. Un sistema di comunicazione radio era stato messo in posto, con una centrale operativa situata presso la questura, uffici della polizia, di Genova che era in contatto con le forze presenti sul terreno. I carabinieri ed i poliziotti non potevano comunicare direttamente tra essi con radio; potevano unire solamente la centrale operativa.
17. La mattina del 20 luglio, dei gruppi di manifestanti particolarmente aggressivi, incappucciati e mascherati ( i “Black Block”) provocarono numerosi incidenti e scontri con le forze dell’ordine. Il corteo dei Tute Bianche doveva partire dallo stadio Carlini. Si trattava di una manifestazione che raggruppa parecchie organizzazioni: dei rappresentanti del movimento “no global”, dei centri sociali, dei giovani comunisti dello Partito “Rifondazione comunista.” Credevano nella contestazione non violenta (disobbedienza civile) ma avevano annunciato un obiettivo politico: tentare di superare il limite della zona rossa. Il 19 luglio 2001, il capo dell’ufficio della polizia (questore) di Genova aveva vietato al corteo dei Tute Bianche di penetrare in questa zona o in quell’adiacente ed aveva esposto le forze dell’ordine in modo da arrestare il corteo al livello del posto Verdi. Il corteo poteva sfilare tra lo stadio Carlini e tutte le lunghezze della via Tolemaide dunque, fino al posto Verdi, o buoni al di là dell’incrocio tra questa via ed i viali Torino, dove- come sarà indicato poi- degli scontri ebbero luogo.
18. Verso 13 h 30, il corteo si mise in strada ed avanzò lentamente verso l’ovest. Nel settore della via Tolemaide, c’erano delle tracce di disordini sopraggiunti precedentemente. Un gruppo di contatto composto di politici ed un gruppo di giornalisti muniti di cineprese o di macchina fotografica lavorava in testa al corteo. Quest’ ultimo rallentava e segnò parecchie fermate. Nella zona di via Tolemaide, degli incidenti opposero delle persone mascherate ed incappucciate alle forze dell’ordine. Il corteo raggiunse la galleria della strada ferrata, all’incrocio del viale Torino. Improvviso, degli arnesi lacrimogeni furono lanciati sul corteo coi carabinieri posti sotto gli ordini del Sig. M.. I carabinieri avanzarono facendo uso dei loro manganelli. Il corteo fu respinto verso l’est fino all’incrocio con la via di Invrea.
19. I manifestanti si divisero: certi si diressero verso il mare, di altri si rifugiarono di prima via di Invrea poi nel settore del posto Alimonda. Certi dei manifestanti reagirono all’assalto lanciando verso le forze dell’ordine degli oggetti contundenti, come delle bottiglie in bicchiere o dei container a scarti. Dei blindati di carabinieri percorsero a viva andatura la via Casaregis e la via di Invrea, sfondando le barricate poste dai manifestanti e provocando l’allontanamento dei manifestanti presenti sui luoghi. A 15 h 22, la centrale operativa ordinò al Sig. M. di spostarsi e di lasciare passare il corteo.
20. Certi espressi organizzarono una risposta violenta. Degli scontri con le forze dell’ordine ebbero luogo. Verso 15 h 40, un gruppo di manifestanti attaccò un furgone corazzato dei carabinieri e l’incendiò.
B. Il decesso di C. G.
21. Verso le 17, la presenza di un gruppo di espressa parvenza molto aggressiva fu notata dalla battaglione Sicilia, composto di una cinquantina di carabinieri imbucati vicino piazza Alimonda. Due jeep Defender sostavano vicino ad essi. Il funzionario di polizia L. ordinò di incaricare i manifestanti. A piede e seguito con le jeep, i carabinieri eseguirono questo ordine. I manifestanti riuscirono a respingere il carico, ed i carabinieri furono costretti di ripiegarsi in modo disordinata vicino piazza Alimonda. Le immagini prese da elicottero a 17 h 23 mostrano i manifestanti che avanzano lungo via Caffa decorrendo dopo le forze dell’ordine.
22. Tenuto conto del ritiro dei carabinieri, le jeep provarono a lasciare i luoghi in retromarcia. Una di esse riuscì ad allontanarsi, mentre l’altro restò bloccato con un container a scarti rovesciati. Improvviso, parecchi manifestanti armati di pietre, di bastoni e di barre di ferro lo vincolarono. I finestrini laterale parte posteriore e l’occhiale posteriore della jeep furono rotti. I manifestanti insultarono e minacciarono gli occupanti della jeep e lanciarono delle pietre ed un estintore verso il veicolo.
23. A bordo della jeep si trovavano tre carabinieri: OMISSIS (“F.C. “), l’autista, OMISSIS (“M.P. “) e OMISSIS (“D.R. “). M.P, intossicato dalle granate lacrimogene che aveva lanciato durante la giornata, era stato autorizzato dal capitano C., comandando di una compagnia di carabinieri, ad ammontare nella jeep per allontanarsi dal luogo degli scontri. Si accovacciato dietro alla jeep, ferito, terrorizzato, si proteggeva, secondo le dichiarazioni del manifestante P., da un lato con un scudo. Pure urlante ai manifestanti di andarsene “se no li avrebbe uccisi”, M.P. sguaina la sua pistola Beretta 9 mm, lo puntò in direzione del lunotto posteriore spezzato del veicolo e, dopo alcune decine di secondi, fece due spari.
24. Uno di questi spari raggiunse C. G., un manifestante incappucciato, al viso, sotto l’occhio sinistro. Era vicino alla parte posteriore della jeep ed aveva appena raccolto e di sollevare un estintore vuoto. Crollò vicino alla ruota posteriore sinistra del veicolo.
25. Poco dopo, F.C. riesce a ripartire la jeep e, nello scopo di liberarsi, fece retromarcia, scorrevole così sul corpo di C. G.. Passò poi la prima velocità ed arrotolò una seconda volta sul corpo lasciando i luoghi. La jeep si diresse allora verso piazza Tommaseo.
26. Dopo “alcuni metri”, il maresciallo dei carabinieri A. ammontò a bordo della jeep e si mise al volante, “l’autista che è in stato di shock”. Il carabiniere R. ammontò anche nel veicolo.
27. Delle forze di polizia che sostavano dall’altro lato di piazza Alimonda intervennero e dispersero i manifestanti. Furono raggiunte dai carabinieri. A 17 h 27, un poliziotto presente sui luoghi chiamò la centrale operativa per chiedere un’ambulanza. Un medico arrivato constatò in seguito, sul posto il decesso di C. G..
28. Il ministero dell’interno, ministero dell’Interno, ha affermato che era impossibile indicare il numero preciso di carabinieri e dei poliziotti presenti sui luoghi al momento del decesso di C. G.; c’erano approssimativamente cinquanta carabinieri, ad una distanza di 150 metri della jeep. Inoltre, a 200 metri, all’altezza di piazza Tommaseo, c’era un gruppo di poliziotti.
29. Appellandosi, entra altri, sulle testimonianze si concesse dai membri delle forze dell’ordine durante un processo parallelo, il “processo dei 25”, vedere sotto i paragrafi 121-138, i richiedenti indicano in particolare che in piazza Alimonda i carabinieri avevano potuto togliere le loro maschere antigas, mangiare e rimettere si. In questo “contesto calmo”, il capitano C. aveva ordinato a M.P. ed a D.R. di ammontare a bordo di una delle due jeep. Stimava che questi due carabinieri erano psicologicamente “a terra” (“a terra”) e non soddisfacevano più le condizioni fisiche per essere in servizio. Considerando inoltre che M.P. doveva smettere di lanciare gli ordigni lacrimogeni, gli aveva tolto il suo lancia-lacrimogeni così come la bisaccia contenente gli ordigni.
30. Riferendosi alle fotografie prese poco prima il tiro mortale, i richiedenti sottolineano che l’arma era tenuta orizzontalmente e verso il basso. Rinviano inoltre alle dichiarazioni del tenente-colonnello T., paragrafo 43 sotto che ha affermato essere trovato si ad una decina di metri da piazza Alimonda ed a trenta – quaranta metri della jeep. Ad alcune decine di metri della jeep si trovavano i carabinieri, un centinaio. I poliziotti erano alla fine della via Caffa, verso la piazzaTommaseo. I richiedenti ricordano che le fotografie versate alla pratica dell’inchiesta mostrano chiaramente la presenza di carabinieri no lontano dalla jeep.
C. l’indagine condotta dalle autorità nazionali
1. I primi atti di inchiesta
31. Un bossolo fu scoperto ad alcuni metri del corpo di C. G.. Nessuna pallottola fu trovata. Accanto al corpo fu ricuperato, tra l’altro, un estintore ed una pietra sporca di sangue. Questi oggetti furono investiti dalla polizia. Risulta della pratica che la procura affidò trentasei atti alla polizia di inchiesta. La jeep che aveva riparato M.P, l’arma e l’attrezzatura di questo ultimo restarono tra le mani dei carabinieri; furono oggetto di un sequestro giudiziale in seguito. Un bossolo fu ritrovato dentro alla jeep.
32. La sera del 20 luglio 2001, la squadra mobile della polizia di Genova ascoltò due polizieschi, Sigg. M. e F.. Il 21 luglio 2001, il capitano C., responsabile della compagnia Eco, riferì gli avvenimenti della vigilia ed indicò i nomi dei carabinieri che si erano trovati a bordo della jeep. Dichiarò non avere inteso di spari, probabilmente a causa dell’orecchietta della radio, del casco e della maschera antigas che limitava il suo ascolto.
2. Il collocamento in esame di M.P. e di F.C.
33. Nella notte del 20 al 21 luglio 2001, M.P. e F.C. è identificato ed ascoltato dalla procura di Genova in quanto persone sospettate di omicidio volontario. Questi interrogatori ebbero luogo nei locali del precetto dei carabinieri a Genova.
ha, Le prime dichiarazioni di M.P.
34. M.P. era un carabiniere ausiliare, assegnato al battaglione no 12 “Sicilie” ed integrato alla compagnia Eco, costituita per i bisogni del G8. Con quattro altre compagnie venute altre regioni dell’Italia, la compagnia Eco faceva parte del CCIR, collocato sotto gli ordini del tenente-colonnello T.. La compagnia Eco era sotto gli ordini del capitano C. e della sua collaboratori M. e Z., e sotto la direzione ed il coordinamento del Sig. L., un funzionario della polizia, vizio questore, di Roma. Ciascuna delle cinque compagnie era diviso in quattro plotoni di cinquanta uomini ciascuno. Il comandante di tutte le compagnie era il colonnello L..
35. Nato il 13 agosto 1980 ed entrato in servizio il 16 settembre 2000, M.P. aveva, all’epoca dei fatti, vent’ anni ed undici mesi. Faceva il granatiere ed era stato destinato al lancio di ordigni lacrimogeni. Dichiarò che durante le operazioni di mantenimento e di ristabilimento dell’ordine pubblico, era supposto spostarsi a piedi col suo plotone. Dopo avere lanciato parecchi arnesi lacrimogeni, aveva avuto gli occhi ed il viso bruciato ed aveva chiesto al capitano C. l’autorizzazione di ammontare a bordo di una jeep. Poco dopo, un altro carabiniere (D.R), ferito, l’aveva raggiunto.
36. M.P. afferma avere avuto molto paura, a causa di tutto ciò che aveva visto lanciare durante la giornata, ed avere temuto in particolare che i manifestanti non lanciano delle bottiglie Molotov. Spiegò che la sua paura era stata aumentata quando era stato ferito alla gamba con un oggetto metallico ed alla testa con una pietra. Aveva percepito la presenza di aggressori in ragione degli zampilli di pietre ed aveva pensato che le centinaia di manifestanti accerchiavano la jeep”, anche se aggiunse che “al momento degli spari non c’era nessuno vista.” Precisò essere stato “in preda al panico.” Ad un dato momento, aveva realizzato che la sua mano aveva agguantato la sua pistola; aveva estratto la sua mano, esercito, con l’occhiale posteriore della jeep e dopo circa un minuto aveva derivato due spari. Non sostenne essere visto si della presenza di C. G. dietro la jeep, né prima di né dopo avere sparato.
b) Le dichiarazioni di F.C.
37. F.C, l’autista della jeep, nato il 3 settembre 1977, era in servizio da ventidue mesi. All’epoca dei fatti, aveva ventitre anni e dieci mesi. Dichiarò che si era trovato in una viuzza vicino al posto Alimonda e che aveva cercato di spettare verso la piazza in retromarcia perché il plotone arretrava sotto la spinta dei manifestanti. La sua strada era stata bloccata tuttavia da un container a scarti, ed il motore aveva appoggiato. Aveva concentrato i suoi sforzi sul modo di estrarre la jeep, mentre i suoi compagni a bordo del veicolo urlavano. Di questo fatto, non aveva inteso le detonazioni. Infine, dichiarò: “Non ho notato non di nessuno a terra perché portavo una maschera che mi lasciava solamente un campo visivo parziale, ed anche perché la visione laterale, nell’automobile, non è ottimale. Ho fatto retromarcia e non ho percepito nessuna resistenza; in fatto, ho percepito un soprassalto della ruota sulla sinistra, ed io ha pensato ad un mucchio di detrito perché il container a scarti era stato rovesciato. Avevo solamente un’idea in testa, quella di allontanarmi da questo disastro.”
c) Le dichiarazioni di D.R.
38. D.R, nato il 25 gennaio 1982, effettuava il suo servizio militare dal 16 marzo 2001. All’epoca dei fatti, era vecchio di diciannove anni e sei mesi. Dichiarò che era stato colpito al viso ed alla schiena con le pietre lanciate dai manifestanti e che aveva cominciato a sanguinare. Aveva provato a proteggersi coprendo il viso, e M.P. aveva tentato a sua colta di riparare facendogli scudo col suo corpo. In quel momento, non aveva più niente visto, ma aveva sentito gli urla ed il rumore dei colpi e degli oggetti che entravano nell’abitacolo della jeep. Aveva inteso M.P. urlare agli aggressori di arrestare e di partire, poi due detonazioni.
d) Le secondo dichiarazioni di M.P.
39. L’ 11 settembre 2001, M.P, interrogato dalla procura, confermò le sue dichiarazioni del 20 luglio 2001 ed aggiunse di avere urlato ai manifestanti “andatevene o io vi uccido! .”
3. Le altre dichiarazioni raccolte durante l’inchiesta
A) Le dichiarazioni fatte da altri carabinieri
40. Il maresciallo A. che si trovava nell’altra jeep presente in piazza Alimonda, dichiarò di avere visto che la jeep a bordo della quale si trovava M.P. era immobilizzata da un container dei rifiuti e che era circondata da numerosi manifestanti, “certamente più di venti.” Questi ultimi lanciavano dei proiettili sulla jeep. Aveva visto in particolare un manifestante avviare un estintore contro l’occhiale posteriore. Aveva inteso le detonazioni ed aveva visto C. G. crollare. La jeep era passata poi due volte sul corpo di C. G.. Una volta che la jeep era riuscita a lasciare la piazzaAlimonda, si era avvicinato a questa ed aveva visto che l’autista era sceso dall’automobile ed aveva chiesto dell’aiuto, visibilmente agitato. Aveva preso allora la piazzadell’autista ed aveva notato che M.P. aveva una pistola in mano; gli aveva ordinato di rimettere la tacca di sicurezza. Aveva pensato immediatamente che si trattava dell’arma che aveva appena derivato, ma non ne aveva discusso con M.P che era ferito e sanguinava della testa. L’autista gli dice che aveva inteso le detonazioni mentre egli manovrava la jeep. Non raccolse nessuna spiegazione in quanto alle circostanze avendo cinto la decisione di derivare e non pose nessuna questione a questo motivo.
41. Il carabiniere R. aveva raggiunto a piedi la jeep. Dichiarò avere visto l’arma uscita della sua guaina ed avere chiesto a M.P. se avesse derivato. Questo aveva risposto dall’affermativo, senza precisare se aveva derivato nell’aria o in direzione di un manifestante dato. M.P. ripeteva senza tregua “volevano uccidermi, non voglio morire.”
42. Il 11 settembre 2001, la procura intese sopra il capitano C., comandando della compagnia Eco, paragrafo 34. Questo dichiarò che aveva autorizzato M.P. ad ammontare nella jeep e che aveva ricuperato i lancia-lacrimogeno di questo ultimo perché era in difficoltà. Precisò ulteriormente, al “processo dei 25”, udienza del 20 settembre 2005 che M.P. era fisicamente inabile ad inseguire il suo servizio in ragione di problemi psicologici e di tensione nervosa. Il Sig. C. si era diretto poi coi suoi uomini-una cinquantina-verso l’angolo del posto Alimonda e della via Caffa. Era stato pregato dal funzionario di polizia L. di risalire la via Caffa in direzione della via Tolemaide per aiutare le forze occupate laggiù a respingere i manifestanti. Era stato perplessa faccia a questa domanda, vista il numero di uomini alla sua disposizione ed il loro stato di stanchezza, ma li aveva imbucati tuttavia via Caffa. Sotto la spinta dei manifestanti che vengono dalla via Tolemaide, i carabinieri erano stati costretti di arretrare; si erano ripiegati di prima nell’ordine poi in modo disordinata. Il Sig. C. non aveva realizzato che all’epoca del ritiro le due jeep seguivano i carabinieri, la presenza di questi veicoli che non hanno nessuna “giustificazione funzionale.” I manifestanti non erano stati dispersi che grazie all’intervento di squadre mobili della polizia, presenti dall’altro lato del posto Alimonda. Era solamente dopo questa dispersione che aveva constatato che un uomo incappucciato giaceva a terra, apparentemente gravemente ferito. Certi dei suoi uomini portavano un casco attrezzato di videocamere, ciò che doveva permettere di chiarire lo svolgimento dei fatti; il registrazioni video realizzato era stato rimesso al colonnello Leso.
43. Il tenente-colonnello T., superiore gerarchico del capitano C., dichiarò essere arrestato si ad una decina di metri del posto Alimonda ed a trenta -quaranta metri della jeep, ed avere notato che questa passava su un corpo esteso a terra.
b, Le dichiarazioni del funzionario di polizia L.
44. Il 21 dicembre 2001, il Sig. L. fu sentito con la procura. Dichiarò che aveva appreso la modifica degli ordini di servizio il 20 luglio 2001 alla mattina. Il 26 aprile 2005 nella cornice del “processo dei 25”, il Sig. L. affermò all’epoca dell’udienza tenuta che il 19 luglio 2001 era stato informato che nessuno corteo era stato autorizzato per l’indomani. Il 20 luglio, ignorava sempre che un corteo autorizzato doveva sfilare. Durante la giornata, si era reso posto Tommaseo, dove avevano luogo degli scontri coi manifestanti. A 15 h 30, ad un momento calmo, il tenente-colonnello T. e le due jeep avevano raggiunto il contingente. Tra 16 ore e 16 h 45, il contingente era stato implicato negli scontri viale Torino. Poi era arrivato nel settore delle piazze Tommaseo ed Alimonda. Il tenente-colonnello T. e le due jeep erano spettati ed il contingente era stato riorganizzato. Il Sig. L. aveva notato, alla fine della via Caffa, un gruppo di manifestanti che avevano formato una barriera coi container su roulette e che avanzavano verso le forze dell’ordine. Aveva chiesto al Sig. C. se i suoi uomini erano in grado di fare fronte alla situazione ed aveva ottenuto una risposta affermativa. Il Sig. L. ed il contingente si erano messi allora vicino alla via Caffa. Aveva inteso un ordine di recesso ed aveva assistito alla pensione disordinata del contingente.
c) Le altre dichiarazioni fatte alla procura,
45. Dei manifestanti presenti al momento dei fatti furono anche sentiti con la procura. Alcuni di loro dichiararono essere molto stato vicino alla jeep, avere loro stessi lanciato delle pietre ed avere dato sulla jeep dei colpi con l’aiuto di bastoni o di altri oggetti. Secondo uno dei manifestanti, M.P. aveva urlato “bastardi, vado a tutto uccidervi! .” Un altro si era accorto che il carabiniere a bordo della jeep aveva estratto la sua pistola; aveva urlato allora ai suoi compagni di fare attenzione e si era allontanato. Un altro dichiarò che M.P. si era protetto da un lato con un scudo.
46. Alcune persone che avevano assistito ai fatti dalle finestre dai loro alloggi dichiararono di avere visto un manifestante raccogliere un estintore e sollevarlo. Avevano sentito due detonazioni ed avevano visto il manifestante crollare.
4. Il materiale audiovisivo
47. La procura ordinò alle forze dell’ordine di rimettergli il materiale audiovisivo potendo contribuire alla ricostituzione dei fatti sopraggiunti in piazza Alimonda. Difatti, delle fotografie e del registrazioni video erano state realizzate dalle squadre di ripresa, delle cineprese ammontate su degli elicotteri e delle mini-cineprese poste sui caschi di alcuni agenti. Delle immagini di origine privata erano anche disponibili.
5. Le perizie
a) L’autopsia
48. Nelle ventiquattro ore, la procura ordinò un’autopsia per stabilire la causa del decesso di C. G.. Il 21 luglio 2001, a 12 h 10, un parere di autopsia-precisando che la parte lesa poteva nominare un perito ed un difensore-fu notificato al primo richiedente, padre della vittima. A 15 h 15, Sigg. Ca. e S., periti della procura, furono investiti formalmente del mandato, e le operazioni di autopsia cominciarono. I richiedenti non mandarono né rappresentante né perito scelto con essi.
49. I periti chiesero alla procura un termine di sessanta giorni per depositare il loro rapporto di autopsia. La procura fece diritto a questa domanda. Il 23 luglio 2001, la procura autorizzò l’incenerimento del corpo di C. G., desiderato dalla famiglia.
50. Il rapporto di perizia fu depositato il 6 novembre 2001. Indicava che C. G. era stato raggiunto sotto il œil sinistro con un proiettile e che questo aveva attraversato il cranio ed era risultato dalla parete posteriore sinistra. La traiettoria del proiettile era stata il segui: era stato tratto a più da cinquanta centimetri di distanza, della parte anteriore verso la parte posteriore, della destra verso la sinistra, dell’altezza verso il basso. C. G. misurava 1,65 metro. Il tiratore si trovava di fronte alla vittima, leggermente spostato verso la destra. Secondo i periti, lo sparo alla testa aveva provocato la morte in alcuni minuti; il passaggio della jeep sul corpo aveva causato solamente delle lesioni minori e non valutabili agli organi toracici ed addominali.
b) Le perizie medicolegali praticate su M.P. e su D.R.
51. Dopo avere lasciato piazza Alimonda, i tre carabinieri che si trovavano a bordo della jeep si erano resi alle emergenze dell’ospedale di Genova. M.P. aveva segnalato delle contusioni diffuse alla gamba dritta ed un trauma cranico con ferite aperte; in dispetto del parere dei medici che volevano ricoverarlo, M.P. aveva firmato una scarica e, verso 21 h 30, aveva lasciato l’ospedale. Soffriva di un trauma cranico, indotto secondo lui con un colpo alla testa che gli era stata portata con un oggetto contundente quando era a bordo della jeep.
52. D.R. presentava delle contusioni e delle escoriazioni sul naso e lo zigomo destro, delle contusioni alla spallottola sinistra ed al piede sinistro. F.C. soffriva di una sindrome psicologica post-traumatica guaribile in quindici giorni.
53. Delle perizie medicolegali furono compiute per stabilire la natura di queste lesioni ed il loro legame con l’aggressione subita dagli occupanti della jeep. Queste perizie conclusero che le lesioni inflitte a M.P. ed a D.R. non avevano impiegato i loro giorni in pericolo. Le lesioni di M.P. alla testa erano potuti essere causate da un lancio di pietra, ma non si poteva determinare l’origine delle altre lesioni. La lesione di D.R. al viso era potuto essere provocata da un zampillo di pietra, e quell’alla spallottola con un colpo portato con l’aiuto di un’asse.
c) Le perizie balistiche ordinate dalla procura
i. La prima perizia
54. Il 4 settembre 2001, la procura incaricò il Sig. C. di stabilire se i due bossoli ritrovati sui luoghi, una nella jeep, l’altro ad alcuni metri del corpo di C. G. -paragrafo 31 sopra, provenivano dalla stessa arma, ed in particolare di quella di M.P. Nel suo rapporto del 5 dicembre 2001, il perito stimò che c’erano il 90% di probabilità che il bossolo scoperto nella jeep provenisse dalla pistola di M.P, mentre non vi era che il 10% di probabilità che quello ritrovato vicino al corpo di C. G. fosse la conclusione di questa stessa arma. In applicazione dell’articolo 392 del codice di procedimento penale (CPP), questa perizia fu effettuata unilateralmente, cioè senza possibilità per la parte lesa di partecipare.
ii. La seconda perizia
55. La procura nominò un secondo perito, l’ispettore di polizia M.. In un rapporto presentato il 15 gennaio 2002, questo indicò che c’erano il 60% di probabilità che il bossolo ritrovato vicino al corpo della vittima provenisse dall’arma di M.P. Conclude che i due bossoli provenivano da questa pistola e stimò inoltre che la distanza tra M.P. e C. G. al momento dell’impatto si trovava tra 110 e 140 centimetri. Questa perizia fu effettuata unilateralmente.
iii. La terza perizia
56. Il 12 febbraio 2002, la procura incaricò un collegio di periti, composto di Sigg. B., Benedetti, R. e T., di “ricostituire, anche sotto forma virtuale, la condotta di M.P. e di C. G. nei momenti avendo preceduto immediatamente e seguito l’istante dove la pallottola ha raggiunto il corpo.” I periti dovevano “determinare in particolare la distanza avendo diviso M.P. e C. G., gli angoli di vista rispettiva ed il campo visivo di M.P. dentro alla jeep al momento dei tiri.” Risulta della pratica che il Sig. R. era l’autore di un articolo, pubblicato nel settembre 2001 in una rivista specializzata, Tac Armi in cui aveva affermato, entra altri, che la condotta di M.P. si analizzava in una “evidente reazione di difesa, pienamente giustificata”.
57. I rappresentanti ed i periti dei richiedenti parteciparono agli atti della perizia collegiale. Io Vinci, avvocato dei richiedenti, dichiarò volere non formulare di domanda di incidente probatorio (proposizione incidentale probatoria). L’articolo 392 § 1 f, e 2 del CPP permettono in particolare alla procura ed all’imputato di pregare il giudice delle investigazioni preliminari, (giudice per l’indagini preliminari -il “GIP”) di ordinare una perizia se questa riguarda una persona, una cosa o un luogo di cui lo stato è suscettibile di modificarsi in modo inevitabile o quando, se fosse ordinata durante i dibattimenti, questa perizia potrebbe provocare la sospensione di questi durante un periodo superiore a sessanta giorni. Ai termini dell’articolo 394 del CPP, la parte lesa può chiedere alla procura di sollecitare un incidente probatorio. Se decide di non accettare questa domanda, la procura deve emettere un’ordinanza motivata e notificarla alla parte lesa.
58. Una discesa sui luoghi fu effettuata il 20 aprile 2002. A questa occasione, un impatto provocato da un sparo fu scoperto sul muro di un edificio di piazza Alimonda, a circa cinque metri di quota.
59. Il 10 giugno 2002, i periti depositarono il loro rapporto. Questo documento indicava al primo colpo che l’indisponibilità del cadavere di C. G., in ragione del suo incenerimento, aveva costituito un importante ostacolo che aveva reso il lavoro dei periti non esauriente; difatti, questi non avevano potuto riesaminare certe parti del corpo né avevano potuto ricercare dei microtracce. Sulla base del “poco materiale a disposizione”, i periti tentavano di prima di rispondere alla questione di sapere che era stato l’impatto della pallottola su C. G., esponendo il seguente considerazioni.
60. Le lesioni al cranio erano molto gravi ed avevano provocato la morte “dopo poco tempo.” La pallottola non era uscita intera della testa di C. G.; difatti, risultava dal resoconto (referto radiologico) dello scanner “total body” del cadavere effettuato prima dell’autopsia che le ossa della parte occipitale si trovavano al di sotto probabilmente un “frammento sottocutaneo di natura metallica.” Per il suo aspetto, questo pezzo di metallo opaco sembrava essere un frammento di corazza. L’orifizio di entrata sul viso aveva un aspetto che non suscitava un’interpretazione univoca, la sua forma irregolare che si spiega con la tipologia dei tessuti della zona del corpo raggiunto dalla pallottola in primo luogo. Una spiegazione poteva essere avanzata tuttavia secondo la quale la pallottola non aveva colpito forse direttamente C. G. ma aveva incontrato un oggetto intermedio, capace di deformarla e di rallentarla, prima di raggiungere il corpo della vittima. Questa ipotesi avrebbe spiegato le dimensioni ridotte dell’orifizio di uscita ed il fatto che la pallottola si era frammentata dentro alla testa di C. G..
61. I periti avevano ritrovato un piccolo frammento metallico di piombo, proveniente verosimilmente della pallottola che si era staccata dal passamontagna di C. G. all’epoca della manipolazione di questa; era impossibile sapere se questo frammento proveniva dalla parte anteriore, laterale o posteriore del passamontagna. Portava delle tracce di una materia che non apparteneva al proiettile in quanto tale ma proveniente di un materiale utilizzato nella costruzione. Inoltre, dei microfono-frammenti di piombo erano stati trovati alla parte anteriore e dietro al passamontagna, ciò che sembrava confermare l’ipotesi secondo la quale la pallottola aveva in parte perso la sua corazza all’epoca dell’impatto. Non era possibile stabilire la natura dell’ “oggetto intermedio” che sarebbe stato toccato dalla pallottola, ma si poteva escludere che si trattasse dell’estintore che C. G. aveva tenuto ad estremità di braccio. La distanza di tiro era stata superiore a 50-100 centimetri.
62. Per ricostituire i fatti nella cornice della “teoria dell’oggetto intermedio”, i periti avevano proceduto poi alle prove di tiro ed al simulazioni video e con l’aiuto di un software. Concludevano che non era possibile stabilire la traiettoria della pallottola perché questa era stata modificata certamente dalla collisione. Basandosi su un sequenza video dei fatti che mostrano una pietra che si disgrega nell’aria e sulla detonazione percepita nella banda suo, i periti stimavano che la pietra era esplosa immediatamente dopo lo sparo. Una simulazione con computer mostrava verso l’alto la pallottola tirata che colpiva C. G. dopo avere colpito questa pietra, lanciata da un altro manifestante contro la jeep. I periti stimavano che la distanza tra C. G. e la jeep erano state di circa 1,75 metro e che al momento dello sparo M.P. aveva potuto vedere C. G..
6. Le investigazioni condotte dai richiedenti
63. I richiedenti depositarono una dichiarazione fatta il 19 febbraio 2002 dinnanzi al loro avvocato con J.M, un manifestante. Questo ultimo aveva dichiarato in particolare che C. G. era ancora vivente dopo il passaggio della jeep sul suo corpo. I richiedenti produssero anche la dichiarazione di un carabiniere (V.M) facendo stato di una pratica secondo lui diffusa in seno alle forze dell’ordine, consistendo in modificare i proiettili del tipo di quell’utilizzato da M.P. per aumentare ne la capacità di espansione e dunque di frammentazione.
64. I richiedenti sottoposero infine due rapporti redatti dai periti che avevano loro stessi scelti. Secondo uno di essi, il Sig. G., la pallottola era frammentata già nel momento in cui aveva raggiunto la vittima. La frammentazione della pallottola poteva spiegarsi con un difetto di fabbricazione o con una manipolazione del proiettile che mira ad aumentare la sua capacità di frammentazione. Del parere del perito, queste due ipotesi si verificavano tuttavia raramente e, quindi, erano meno probabili di quell’emessa coi periti della procura, a sapere che la pallottola aveva urtato un oggetto intermedio.
65. Gli altri periti incaricati dai richiedenti di ricostituire lo svolgimento dei fatti stimavano che la pietra si era frammentata colpendo non la pallottola derivata da M.P, ma la jeep. Per potere ricostituire i fatti a partire dal materiale audiovisivo, ed in particolare a partire dalle fotografie, bisognava stabilire necessariamente la posizione precisa del fotografo, in particolare il suo angolo di visione, tenendo anche conto del tipo di materiale utilizzato. Inoltre, bisognava mettere in rapporto, da una parte, le immagini ed il tempo, e, altro parte, le immagini ed il suono. I periti dei richiedenti criticavano il metodo dei periti della procura che si erano basati su un “simulazione video e di software” e non avevano analizzato le immagini disponibili con rigore e precisione. Alcune critiche erano formulate anche a riguardo del metodo seguito all’epoca delle prove di sparo.
66. I periti dei richiedenti concludevano che al momento dello sparo C. G. si trovava a circa tre metri della jeep. Non si poteva negare che la pallottola era frammentata quando aveva raggiunto la vittima; non ne rimaneva meno che si doveva escludere un impatto con la pietra che appariva sul video. Difatti, una pietra avrebbe deformato la pallottola in modo differente ed avrebbe lasciato un altro tipo di traccia sul corpo di C. G.. Di più, M.P. non aveva sparato verso l’alto.
D. La richiesta di archiviazione e l’opposizione dei richiedenti
1. L’istanza di archiviazione senza seguito
67. Al termine dell’inchiesta interna, la procura di Genova decise di chiedere l’archiviazione senza seguito delle accuse portate contro M.P. e F.C. A titolo preliminare, osservava che l’organizzazione delle operazioni di mantenimento e di ristabilimento dell’ordine pubblico era stata modificata profondamente nella notte dal 19 al 20 luglio 2001, e considerava che ciò spiegava una parte delle disfunzioni sopraggiunte il 20 luglio. Non enumerava tuttavia le modifiche e le disfunzioni che ne avevano derivato.
68. La procura notava poi che le versioni dei fatti di Sigg. L. e C. divergevano su un punto preciso: il primo affermava che la decisione di imbucare le forze dell’ordine nella via Caffa per bloccare i manifestanti era stata presa di un comune accordo, mentre il secondo sosteneva che si trattava di una decisione unilaterale del Sig. L., preso in dispetto dei rischi legati al numero, riduce degli effettivi ed al loro stato di stanchezza.
69. Peraltro, i periti si accordavano sui seguenti fatti: la pistola di M.P. aveva sparato due pallottole di cui la prima aveva raggiunto mortalmente C. G.; la pallottola in causa non si era frammentata unicamente perché aveva raggiunto la vittima; la fotografia che mostra C. G. che porta l’estintore era stata presa mentre si trovava a circa tre metri della jeep.
70. In compenso, i periti avevano delle opinioni divergenti sui seguenti punti:
ha, nel momento in cui era stato raggiunto, C. G. era a 1,75 metro della jeep secondo i periti della procura, ma a circa 3 metri per i periti del famiglia Giuliani;
b) per i periti del famiglia G., il tiro era partito prima che si potesse vedere la pietra sul video, mentre i periti della procura pensavano il contrario.
71. Le parti che si accordano a dire che la pallottola era frammentata già quando aveva raggiunto la vittima, la procura ne deduceva che erano anche di accordo sulle cause di questa frammentazione e che i richiedenti aderivano alla “teoria dell’oggetto intermedio.” Le altre ipotesi suscettibili di spiegare la frammentazione della pallottola avanzata dai richiedenti- come una manipolazione o un difetto di fabbricazione del proiettile-erano considerate dai richiedenti loro stessi come essendo molto più improbabili. Quindi, queste ipotesi non potevano secondo la procura fornire una spiegazione valida.
72. L’inchiesta era stata lunga, in particolare in ragione dei ritardi accusati da certi periti, della “superficialità” del rapporto di autopsia e degli errori commessa dal Sig. Cantarella, uno dei periti. Allo stesso tempo, aveva permesso di abbordare e di approfondire ogni questione pertinente e di concludere che l’ipotesi della pallottola tirata verso l’alto e deviata da una pietra era più convincente.” In compenso, gli elementi della pratica non permettevano di stabilire se M.P. aveva derivato nella sola intenzione di disperdere i manifestanti o prendendo il rischio di ferire ne o di uccidere ne uno o parecchi. Tre ipotesi alle quali “egli non c’aura[it] mai di risposta certa”, potevano essere formulate come segue:
-si trattava di tiri di intimidazione e dunque di un omicidio involontario;
-M.P. aveva derivato per arrestare l’aggressione ed aveva preso il rischio di uccidere, ipotesi nella quale c’era stato omicidio volontario,;
-M.P. aveva previsto C. G. e si trattava di un omicidio volontario.
Secondo la procura, gli elementi della pratica permettevano di escludere la terza ipotesi.
73. La procura considerava poi che la collisione tra le pietre e la pallottola non erano di natura tale da rompere il legame di causalità tra i comportamenti di M.P. ed il decesso di C. G.. Dato che questo legame di causalità rimaneva, la questione era di sapere se M.P. aveva agito in stato di legittima difesa.
74. Era accertato che l’integrità fisica degli occupanti della jeep era stata minacciata e che M.P. “aveva risposto” mentre era in pericolo. Bisognava valutare questa risposta, tanti l’affatto di vista della necessità che la proporzionalità, “questo ultimo aspetto che è più delicato”.
75. Del parere della procura, M.P. non aveva avuto di altra opzione e lui non si poteva aspettarsi di ciò che si comportasse diversamente, perché “la jeep era accerchiata dai manifestanti [e] l’aggressione fisica contro gli occupanti era evidente e violenta.” Questo era a buon diritto che M.P. aveva avuto il sentimento di essere in pericolo di morte. La pistola era un strumento capace di fare cessare l’aggressione, ed il non si poteva criticare M.P. per l’attrezzatura che gli era stata fornita. Il non si poteva esigere di M.P. che si astenesse da utilizzare la sua arma e subisse un’aggressione suscettibile di minacciare la sua integrità fisica. Queste considerazioni giustificavano l’archiviazione senza seguito della causa.
2. L’opposizione dei richiedenti
76. Il 10 dicembre 2002, i richiedenti fecero opposizione all’istanza di archiviazione della procura. Adducevano che poiché la procura sé aveva riconosciuto che l’inchiesta era stata caratterizzata dagli errori e con le questioni che non avevano trovato risposta certa, dei dibattimenti contraddittori erano indispensabili alla ricerca della verità. Stimavano che il non si poteva affermare al tempo stesso che M.P. aveva derivato nell’aria e che aveva agito in stato di legittima difesa, di aveva dichiarato tanto quanto l’interessato non avere visto C. G. al momento di derivare.
77. I richiedenti facevano notare poi che la tesi dell’oggetto intermedio, che contestavano, era stata emessa un anno dopo i fatti e si basava su una semplice ipotesi non corroborata dagli elementi obiettivi. Altre spiegazioni potevano essere avanzate.
78. I richiedenti facevano osservare anche che risultava della pratica che C. G. era ancora vivente dopo il passaggio della jeep sul suo corpo. Sottolineavano che l’autopsia avendo concluso alla mancanza di lesioni apprezzabili provocate dai passaggi della jeep era stata qualificata di superficiale con la procura, e criticavano la scelta di affidare parecchi atti ai carabinieri di inchiesta.
79. Seguiva che M.P. e F.C. sarebbero dovuti essere rinviati in giudizio. A titolo accessorio, i richiedenti chiedevano il compimento di altri atti di inchiesta, ed in particolare:
a) una perizia che mira a stabilire le cause ed il momento del decesso di C. G., in particolare per sapere se questo era ancora vivente durante e dopo il passaggio della jeep;
b) un ascolto del capo della polizia, Sig. De G., e del carabiniere Z., per sapere quali direttive era stato dato in quanto al porto dell’arma sulla coscia;
c) la ricerca e l’identificazione della persona avendo lanciato la pietra che avrebbe deviato la pallottola;
d) un secondo ascolto dei manifestanti che si erano presentati spontaneamente;
e) l’ascolto del carabiniere V.M che aveva fatto stato della pratica che consiste nell’ incidere la punta dei proiettili, paragrafo 63 sopra,;
f) una perizia sui bossoli ritrovati e sulle armi di tutti gli agenti presenti in piazza Alimonda al momento dei fatti.
3. L’udienza dinnanzi al GIP
80. L’udienza dinnanzi al GIP ebbe luogo il 17 aprile 2003. I richiedenti mantennero la loro tesi secondo la quale la pallottola mortale non era stata deviata ed avevano raggiunto direttamente la vittima. Concedevano invece che non c’erano prove che M.P. avesse modificato il proiettile per renderlo più ad alto rendimento; si trattava là di una semplice ipotesi.
81. Il rappresentante della procura dichiarò di avere l’impressione che “certe questioni di cui [aveva] crudo che erano l’oggetto di una convergenza, non erano e [qu] ‘ egli ci [aveva] contrariamente alle divergenze.” Ricordò che il perito dei richiedenti, il Sig. Gentile, era di accordo sul fatto che il proiettile era stato danneggiato prima di raggiungere C. G.. Di più, aveva riconosciuto che, tra le cause possibili del danno, c’era una collisione con un oggetto o un difetto intrinseco del proiettile, e che la seconda causa era meno probabile della prima.
E. La decisione del GIP
82. Con un’ordinanza depositata alla cancelleria il 5 maggio 2003, il GIP di Genova accolse l’istanza di archiviazione della procura della repubblia1.
1. La determinazione dei fatti
83. Il GIP si riferì ad un riassunto dei fatti stabiliti da un anonimo francesi e messi sul netto con un sito anarchico (www.anarchy99.net), riassunto che stimava credibile tenuto conto della sua concordanza col materiale audiovisivo e le dichiarazioni dei testimoni. Il racconto in questione descriveva la situazione che aveva regnato in piazza Alimonda e riferiva un carico degli espresso contro i carabinieri con, in prima linea, quelli che lanciava tutto ciò che trovavano e, in seconda linea, quelli che trasportava dei container e pattumiere potendo servire di barricate mobili. L’atmosfera era descritta sulla piazza come “pazza furiosa”, con le forze dell’ordine attaccato da una folla che avanzava, lanciava dei proiettili e ne ricuperava subito di altri. I carabinieri, al loro turno, lanciavano dei lacrimogeni, ma un contingente fu costretto alla fine di arretrare verso la piazza Alimonda, dove una delle due jeep che li accompagnavano si trovò bloccata ed accerchiata dai manifestanti. Armati di barre di ferro e di altri oggetti, questi ultimi cominciarono a battere contro la carrozzeria della jeep di cui il finestrino posteriore fu rotto rapidamente. L’autore del racconto intese due detonazioni e fu in grado di vedere la mano di uno dei due carabinieri dentro alla jeep che tiene un’arma. Quando la jeep si allontanò e che il rumore si attenuò, vide il corpo di un giovane uomo gravemente ferito alla testa e giacendo a terra. L’autore del racconto ha descritto anche a fronte la collera di certa espressi alla notizia della morte di uno di essi.
84. Il GIP osservò che il racconto del manifestante anonimo concordava coi conclusioni dell’inchiesta secondo che, verso le 17, un gruppo di manifestanti si era radunato via Caffa, all’incrocio con la via Tolemaide, erigendo delle barricate con le pattumiere, dei carri di supermercato e di altri oggetti. A partire da questa barricata, il gruppo aveva cominciato a lanciare delle multipli pietre ed oggetti contundenti su un contingente di carabinieri che, alla partenza posizionata piazza Alimonda, all’angolo con la via Caffa, aveva cominciato ad avanzare nello scopo di arrestare i manifestanti di cui il numero era aumentato nel frattempo. Due jeep di cui una condotta con F.C. e riparando M.P. e D.R, avevano raggiunto il contingente dei carabinieri; i manifestanti avevano caricato però, violentemente, cortese il contingente a ritirarsi. Le jeep avevano fatto retromarcia verso la piazza Alimonda, dove una di esse aveva cozzato un container contro scarti. In alcuni istanti, i manifestanti avevano accerchiato il veicolo, il sorprendente con tutti i mezzi disponibili e lanciando delle pietre. Siccome lo mostrava il materiale audiovisivo versato alla pratica, i finestrini della jeep erano stati rotti dalle pietre, delle barre di ferro e dei bastoni. L’accanimento degli espressi contro la jeep era stato “impressionante”; certe pietre avevano raggiunto i carabinieri al viso ed alla testa, ed uno dei manifestanti, il Sig. M., aveva introdotto una lunga trave in legna con una delle finestre, loquace così a D.R. delle contusioni con scorticature alla spalla destra.
85. Una delle fotografie mostrava M.P. in treno di respingere un estintore col suo piede; si trattava molto probabilmente dell’oggetto metallico che gli era valso un’importante contusione alla gamba. Sulle fotografie successive appariva una mano che tiene al di sotto un’arma la ruota di scorta della jeep, mentre un giovane uomo, C. G., si dedicava verso il suolo e sollevava un estintore, con ogni probabilità nello scopo dell’avviare verso il finestrino posteriore della jeep. Questo era in quel momento che due spari erano stati derivati dall’interno della jeep e che il giovane uomo era caduto a terra. La jeep aveva circolato a due riprese sul suo corpo prima di potere lasciare i luoghi.
86. Tutti gli elementi disponibili, ivi compreso le dichiarazioni di M.P. del 20 luglio 2001, paragrafi 34-36 sopra, portavano a pensare che il decesso di C. G. era stato provocato da uno degli spari derivati da M.P. Il GIP citava quasi integralmente le dichiarazioni in questione, dove M.P. faceva stato del suo panico, delle lesioni che gli erano state inflitte, così come a D.R, e per il fatto che al momento in cui aveva puntato la sua pistola non aveva visto nessuno ma aveva percepito la presenza di aggressori a causa del lancio ininterrotto di pietre. Questa versione concordava con le dichiarazioni di D.R. e di F.C, così come con queste di altri militari e dei testimoni. Di più, risultava della pratica che M.P. aveva delle contusioni e delle lesioni alla gamba dritta, al braccio ed al vertice del cranio; D.R. soffriva di escoriazioni al viso e di contusioni alla spalla ed al piede; F.C. aveva una sindrome post-traumatica guaribile in quindici giorni, paragrafi 51-53 sopra.
2. La teoria dell’ “oggetto intermedio”
87. Il GIP prese atto di ciò che gli elementi della pratica mostravano che la prima pallottola sparata da M.P. aveva toccato mortalmente C. G.. Uscendo con l’osso occipitale del cranio, questa pallottola aveva perso un frammento del suo rivestimento, risultava così delle radiografie fatte prima dell’autopsia. Questa circostanza, così come le caratteristiche delle lesioni di entrata e di uscita, avevano portato i periti della procura a formulare la tesi secondo la quale il proiettile aveva colpito un oggetto prima di raggiungere C. G.. La ferita di entrata era difatti, molto irregolare e la ferita di uscita aveva delle dimensioni ridotte, si prodursi così in caso di dispersione di energia e/o di frammentazione del proiettile.
88. Nell’occorrenza, si trattava di un proiettile corazzato di calibro 9 mm parabellum, dunque di grande potere. Questo potere e la debole resistenza dei tessuti attraversati dalla pallottola confermavano la tesi dei periti della procura. Di più, nel passamontagna della vittima si era trovato un “minuscolo frammento di piombo”, compatibile coi proiettili di cui M.P. disponeva, e su che erano raggelati delle particelle di osso, ciò che dava a pensare che la pallottola aveva perso una parte della sua corazza prima di raggiungere l’osso.
89. Secondo le simulazioni di tiro, l’oggetto intermedio avendo frammentato la pallottola non poteva essere l’estintore portato dalla vittima né uno delle ossa che aveva attraversato; poteva trattarsi, invece, di una delle numerose pietre lanciate dai manifestanti in direzione della jeep. Ciò sembrava confermato dal sequenza video che mostra una pietra che si disgregava nell’aria, al momento stesso dove si intendeva una detonazione. La simultaneità del suono e della disintegrazione dell’oggetto conduceva a giudicare meno convincente la tesi dei periti dei richiedenti secondo la quale la pietra in questione si era schiacciata contro il tetto della jeep. Di più, il frammento di piombo presente nel passamontagna della vittima portava delle tracce di materiali di costruzione. Infine, le prove di tiro mostravano che quando erano colpiti da un proiettile, gli oggetti composti di materiali di costruzione “esplodevano” in modo simile a quella visibile sul sequenza video e danneggiavano la corazza delle cartucce. I test compiuti mostravano che la disintegrazione aveva delle caratteristiche differenti, la produzione di polvere, meno abbondante, era consecutiva e non concomitante alla frammentazione, quando dei tali oggetti erano lanciati contro un veicolo.
90. Il secondo sparo derivato da M.P. aveva lasciato una traccia, a 5,30 metri di altezza, sul muro della chiesa di piazza Alimonda. Il primo aveva raggiunto C. G.. La traiettoria iniziale di questo tiro non era potuta essere stabilita dalla perizia balistica. I periti della procura avevano preso però in conto lo fa che la jeep aveva una quota di 1,96 metro e che la pietra visibile nel film si trovava ad una quota di circa 1,90 metro quando la cinepresa aveva fissato l’immagine. Quindi, avevano effettuato delle prove di tiro posizionando l’arma a circa 1,30 metro di una pietra sospesa a 1,90 metro del suolo: ne era risultato che il proiettile era stato deviato verso il basso ed aveva raggiunto un “traghetto di recupero”, situato a 1,75 metro dell’arma, alle quote che vanno di 1,10 a 1,80 metro. Questi dati concordavano con le deposizioni di certe espressi, testimoni oculari dei fatti secondo che C. G. si trovava a circa 2 metri della jeep quando era stato raggiunto mortalmente dalla pallottola. I periti della procura non disponevano di queste deposizioni nel momento in cui avevano compiuto il loro mandato.
91. Alla luce degli elementi precedenti, c’era luogo di pensare che, conformemente ai conclusioni dei periti della procura, lo sparo era stato derivato verso l’alto, al di sotto C. G. che misurava 1,65 metro. Difatti, la pietra si era disgregata a 1,90 metro dal suolo.
3. L’angolo visuale di M.P.
92. Era probabile che l’angolo visuale di M.P. era stato limitato dalla ruota di scorta della jeep. Era però difficile avere delle certezze su questo punto, perché il viso di M.P. non appariva su nessuna delle fotografie versate alla pratica, mentre queste ultime mostravano chiaramente la sua mano che tiene l’arma. Le immagini davano tuttavia a pensare che era allungato a metà, in posizione semidistesa, o accovacciato sull’investimento, siccome lo confermavano le proprie dichiarazioni di M.P. così come queste di D.R. e del manifestante P.. Ciò permetteva di concludere che M.P. non aveva potuto vedere le persone che si trovavano sotto vicino alla porta posteriore della jeep la ruota di scorta, e che aveva derivato nello scopo di intimidire i manifestanti.
4. La qualifica giuridica della condotta di M.P.
93. Avendo ricostituito così i fatti, il GIP si dedicò sulla qualifica giuridica della condotta di M.P. A questo riguardo, la procura aveva formulato due ipotesi, paragrafo 72 sopra,: a che M.P. aveva derivato più alto possibile nella sola intenzione di intimidire gli aggressori al quale caso doveva rispondere di un omicidio involontario, omicidio colposo,; b che M.P. aveva sparato senza prevedere che cosa o ciò che questo fosse, nell’intenzione di fare cessare l’aggressione al quale caso doveva rispondere di un omicidio volontario in ragione di un “dolo eventuale” perché aveva accettato il rischio di colpire dei manifestanti.
94. Il GIP stimò che la prima delle ipotesi della procura non era corretta. Difatti, così M.P. aveva derivato più alto possibile, la sua condotta sarebbe stata non punibile ai termini dell’articolo 53 del codice penale (CP) e, ad ogni modo, il legame di causalità sarebbe stato interrotto da un fattore imprevedibile ed incontrollabile, a sapere la collisione del proiettile con un oggetto intermedio.
95. Così invece si seguiva la seconda ipotesi della procura, si imporsi di stabilire se una causa di giustificazione, a sapere l’uso legittimo degli armi et/ou la legittima difesa-articoli 53 e 52 del CP, vedere sotto i paragrafi 142-144, neutralizzavano la responsabilità penale e rendevano la condotta di M.P. non punibile.
5. La questione di sapere se M.P. aveva fatto un uso legittimo delle armi (articolo 53 del CP)
96. Il GIP si dedicò di prima sulla questione di sapere se il ricorso ad un’arma fosse stato necessario. L’articolo 53 del CP, paragrafo 143 sotto, conferiva agli ufficiali pubblici un potere più ampio che quello di cui disponeva ogni persona nella cornice della legittima difesa; difatti, questa causa di giustificazione non era subordinata alla condizione della proporzionalità tra minaccia e reazioni, ma a quella della “necessità.” Anche per gli ufficiali pubblici, l’uso di un’arma era un rimedio estremo, extrema ratio,; però, la realizzazione di un avvenimento più grave che quello previsto con l’ufficiale pubblico non poteva essere messo al carico di questo ultimo, perché ciò rilevava del rischio inerente all’utilizzazione delle armi da fuoco. In generale, l’articolo 53 del CP giustificava il ricorso alla forza quando era necessario per bloccare una violenza o una resistenza all’autorità.
97. M.P. si era trovato in una situazione di estrema violenza che tende a destabilizzare l’ordine pubblico e prevedendo i carabinieri di cui l’integrità fisica era minacciata direttamente. Il GIP citò a questo riguardo dei brani delle testimonianze di due aggressori della jeep, Sigg. P.i e M., facendo stato, ancora una volta, della violenza con la quale l’attacco era stato condotto, e si riferì alle fotografie versate alla pratica. La condotta della vittima non si analizzava in un atto di aggressione isolata, ma in una delle fasi di una violenta attacco che parecchie persone avevano portato contro la jeep, facendo ribaltarla e provando, probabilmente, di aprire ne la porta posteriore.
98. Gli elementi della pratica portavano ad escludere che M.P. avesse previsto deliberatamente C. G.; però, a supporre anche che tale fosse stato il caso, nelle circostanze particolari dello specifico la sua condotta sarebbe stata giustificata dall’articolo 53 del CP, perché era legittimo derivare verso gli aggressori per obbligarli a cessare il loro attacco, provando a limitare i danni allo stesso tempo, evitando di toccare degli organi vitali per esempio. In conclusione, l’uso dell’arma da fuoco era giustificato e suscettibile di non essere gravemente pregiudizievole, dal momento che M.P. aveva sparato “certamente verso l’alto” e che la pallottola aveva raggiunto unicamente C. G. perché la sua traiettoria era stata deviata in modo imprevedibile.
6. La questione di sapere se M.P. aveva agito in stato di legittima difesa (articolo 52 del CP)
99. Il GIP stimò poi dovere decidere se M.P. aveva agito in stato di legittima difesa, criterio più rigoroso” di neutralizzazione della responsabilità. Stimò che M.P. aveva, a buon diritto, avuto l’impressione di un pericolo per la sua integrità fisica e quella dei suoi compagni, e che questo pericolo era rimasto in ragione della violenta aggressione contro la jeep perpetrata da una folla di aggressori, e non solamente con C. G.. Per essere valutata nel suo contesto, la risposta di M.P. doveva essere messa in rapporto con questa aggressione. La tesi della famiglia della vittima secondo la quale le lesioni che M.P. aveva avuto alla testa non erano dovute alle pietre lanciate dai manifestanti ma ad un shock contro la leva interna del lampeggiatore posizionato sul tetto della jeep, non poteva essere considerata.
100. La risposta di M.P. era stato necessario tenuto conto del numero di aggressori, dei mezzi utilizzati, del carattere continuo degli atti di violenza, delle lesioni dei carabinieri presenti nella jeep e della difficoltà per il veicolo di allontanarsi dal posto perché il motore aveva appoggiato. Questa risposta era stata adeguata, visto il grado di violenza.
101. Così M.P. non aveva estratto la sua arma e tirate due volte, l’aggressione non avrebbe cessato, e se l’estintore-che M.P. aveva respinto già una volta con la sua gamba-aveva potuto penetrare nella jeep, avrebbe causato dell’incidi lesioni ai suoi occupanti, addirittura più peggiore. In materia di proporzionalità tra aggressioni e rispondi, la Corte di cassazione aveva precisato che bisognava mettere in relazione i beni minacciati ed i mezzi alla disposizione dell’imputato, e che poteva avere legittima difesa anche se il danno inflitto all’aggressore era leggermente superiore a quello che l’imputato rischiava di subire, vedere sentenza della prima sezione della Corte di cassazione no 08204 del 13 aprile 1987, Catania). Di più, la risposta doveva essere quella che, nelle circostanze dello specifico, era l’unica possibile, altri risposte meno pregiudizievoli per l’aggressore che è impropri ad allontanare il pericolo, vedere sentenza della prima sezione della Corte di cassazione no 02554 del 1 dicembre 1995, P.M. e V.. Quando l’aggredito disponeva di un’arma da fuoco come solo mezzo di difesa, doveva limitarsi a mostrarsi pronto ad utilizzarla o sparare verso il suolo o in aria, o ancora verso l’aggressore ma provando tuttavia a colpirlo nelle zone non vitali per ferirlo e non ucciderlo (vedere sentenza della Corte di cassazione del 20 settembre 1982) T.).
102. Nello specifico, M.P. disponeva di un solo mezzo per bloccare l’aggressione: la sua arma da fuoco. Ne aveva fatto un uso proporzionato, dal momento che prima di derivare aveva urlato ai manifestanti di andare ne si affinché questi cambiano comportamento; aveva derivato poi verso l’alto e la pallottola aveva raggiunto la vittima con una tragica fatalità, per una t

Testo Tradotto

Conclusion Non-violation de l’art. 2 (volet matériel) ; Non-violation de l’art. 2 (volet matériel) ; Non-violation de l’art. 2 (volet matériel) ; Non-violation de l’art. 2 (volet procédural) ; Non-violation de l’art.13 ; Non-violation de l’art. 38
GRANDE CHAMBRE
AFFAIRE GIULIANI ET GAGGIO c. ITALIE
(Requête no 23458/02)
ARRÊT
STRASBOURG
24 mars 2011
Cet arrêt est définitif. Il peut subir des retouches de forme.

En l’affaire Giuliani et Gaggio c. Italie,
La Cour européenne des droits de l’homme, siégeant en une Grande Chambre composée de :
Jean-Paul Costa, président,
Christos Rozakis,
Françoise Tulkens,
Ireneu Cabral Barreto,
Boštjan M. Zupančič,
Nina Vajić,
Elisabeth Steiner,
Alvina Gyulumyan,
Renate Jaeger,
David Thór Björgvinsson,
Ineta Ziemele,
Isabelle Berro-Lefèvre,
Ledi Bianku,
Nona Tsotsoria,
Zdravka Kalaydjieva,
Işıl Karakaş,
Guido Raimondi, juges,
et de Vincent Berger, jurisconsulte,
Après en avoir délibéré en chambre du conseil le 29 septembre 2010 et le 16 février 2011,
Rend l’arrêt que voici, adopté à cette dernière date :
PROCÉDURE
1. A l’origine de l’affaire se trouve une requête (no 23458/02) dirigée contre la République italienne et dont trois ressortissants de cet Etat, OMISSIS (épouse G.) et OMISSIS (« les requérants »), ont saisi la Cour le 18 juin 2002 en vertu de l’article 34 de la Convention de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentales (« la Convention »).
2. Les requérants ont été représentés par Mes N. P. et G. Pisapia, avocats à Rome. Le gouvernement italien (« le Gouvernement ») a été représenté par son agente, Mme E. Spatafora, et par son coagent, M. N. Lettieri.
3. Les requérants se plaignaient du décès de leur fils et frère, C. G., qu’ils estimaient être dû à un recours excessif à la force. Ils alléguaient en outre que l’Etat défendeur n’avait pas pris les dispositions législatives, administratives et réglementaires nécessaires pour réduire autant que possible les conséquences néfastes de l’usage de la force, que l’organisation et la planification des opérations de police n’avaient pas été conformes à l’obligation de protéger la vie et que l’enquête sur les circonstances du décès de leur proche n’avait pas été efficace.
4. La requête a été attribuée à la quatrième section de la Cour (article 52 § 1 du règlement). Le 6 février 2007, après une audience ayant porté à la fois sur les questions de recevabilité et sur celles de fond (article 54 § 3 du règlement), elle a été déclarée recevable par une chambre de ladite section, composée des juges dont le nom suit : Sir Nicolas Bratza, Josep Casadevall, Giovanni Bonello, Kristaq Traja, Vladimiro Zagrebelsky, Stanislav Pavlovschi, Lech Garlicki, ainsi que de Lawrence Early, greffier de section.
5. Le 25 août 2009, une chambre de la quatrième section, composée de Sir Nicolas Bratza, Josep Casadevall, Lech Garlicki, Giovanni Bonello, Vladimiro Zagrebelsky, Ljiljana Mijović, Ján Šikuta, juges, et de Lawrence Early, greffier de section, a rendu un arrêt dans lequel elle a conclu : à l’unanimité, qu’il n’y avait pas eu violation de l’article 2 de la Convention en son volet matériel pour ce qui était de l’usage excessif de la force ; par cinq voix contre deux, qu’il n’y avait pas eu violation de l’article 2 de la Convention en son volet matériel pour ce qui était des obligations positives de protéger la vie ; par quatre voix contre trois, qu’il y avait eu violation de l’article 2 de la Convention en son volet procédural ; à l’unanimité, qu’il n’y avait pas lieu d’examiner l’affaire sous l’angle des articles 3, 6 et 13 de la Convention ; à l’unanimité, qu’il n’y avait pas eu violation de l’article 38 de la Convention. Elle a également octroyé, pour dommage moral, 15 000 euros (EUR) pour chacun aux requérants OMISSIS, et 10 000 EUR à la requérante OMISSIS.
6. Le 24 novembre 2009, le Gouvernement et les requérants ont demandé le renvoi de l’affaire devant la Grande Chambre en vertu des articles 43 de la Convention et 73 du règlement. Le 1er mars 2010, un collège de la Grande Chambre a fait droit à ces demandes.
7. La composition de la Grande Chambre a été arrêtée conformément aux articles 26 §§ 4 et 5 de la Convention et 24 du règlement.
8. Tant les requérants que le Gouvernement ont déposé des observations écrites complémentaires (article 59 § 1 du règlement).
9. Le 27 septembre 2010, les juges (titulaires et suppléants) désignés pour siéger dans la présente affaire ont visionné les CD-Rom soumis par les parties le 28 juin et le 9 juillet 2010 (paragraphe 139 ci-dessous).
10. Une audience s’est déroulée en public au Palais des droits de l’homme, à Strasbourg, le 29 septembre 2010 (article 59 § 3 du règlement).
Ont comparu :
OMISSIS
La Cour les a entendus en leurs déclarations.
EN FAIT
I. LES CIRCONSTANCES DE L’ESPÈCE
11. Les requérants sont nés respectivement en 1938, en 1944 et en 1972 ; ils résident à Gênes et à Milan. Ils sont respectivement le père, la mère et la sœur de C. G., qui fut mortellement blessé par balle lors des manifestations en marge du « G8 » ayant eu lieu à Gênes en juillet 2001.
A. Le contexte dans lequel s’est tenu le G8 à Gênes et les faits ayant précédé le décès de C. G.
12. Les 19, 20 et 21 juillet 2001 se déroula à Gênes le sommet dit du « G8 ». De nombreuses manifestations « antimondialistes » furent organisées dans la ville et un important dispositif de sécurité fut mis en place par les autorités italiennes. En vertu de l’article 4 § 1 de la loi no 149 du 8 juin 2000, le préfet de Gênes était autorisé à recourir au personnel militaire des forces armées pour les exigences de sûreté publique liées au déroulement du sommet. En outre, une « zone rouge » avait été délimitée à l’aide d’un filet métallique dans la partie de la ville (le centre historique) concernée par les réunions du G8. De la sorte, seuls les riverains et les personnes qui devaient y travailler pouvaient y accéder. L’accès au port avait été interdit et l’aéroport fermé au trafic. La zone rouge était enclavée dans une zone jaune qui, à son tour, était entourée d’une zone blanche (zone normale).
13. L’ordre de service du 19 juillet 2001 fut émis par le commandant des forces de l’ordre la veille du décès de C. G.. Il résume ainsi les priorités des forces de l’ordre : mettre en place à l’intérieur de la zone rouge une ligne de défense permettant de repousser rapidement toute tentative d’intrusion ; mettre en place dans la zone jaune une ligne de défense pour pouvoir faire face à toute action, compte tenu de la position des manifestants en différents endroits ainsi que des actions provenant d’éléments plus extrémistes ; prendre des mesures d’ordre public sur les axes touchés par les manifestations, eu égard au danger d’agressions favorisé par les effets de masse.
14. Les parties s’accordent sur le fait que l’ordre de service du 19 juillet 2001 a modifié les plans établis jusque-là quant à la manière de déployer les ressources et les moyens disponibles, afin de permettre aux forces de l’ordre de contrer efficacement toute tentative d’intrusion dans la zone rouge de personnes participant à la manifestation dite des « Tute Bianche » (les combinaisons blanches), annoncée et autorisée pour le lendemain.
15. Les requérants soutiennent que l’ordre de service du 19 juillet a attribué à un peloton de carabiniers impliqué dans le décès de C. G. une fonction dynamique alors qu’auparavant il était censé être statique. Le Gouvernement a indiqué que les instructions contenues dans les ordres de service ont été transmises oralement aux officiers présents sur le terrain.
16. Un système de communication radio avait été mis en place, avec une centrale opérationnelle située auprès de la questura (bureaux de la police) de Gênes, qui était en contact avec les forces présentes sur le terrain. Les carabiniers et les policiers ne pouvaient pas communiquer directement entre eux par radio ; ils ne pouvaient joindre que la centrale opérationnelle.
17. Le matin du 20 juillet, des groupes de manifestants particulièrement agressifs, cagoulés et masqués (les « Black Bloc ») provoquèrent de nombreux incidents et accrochages avec les forces de l’ordre. Le cortège des Tute Bianche devait partir du stade Carlini. Il s’agissait d’une manifestation regroupant plusieurs organisations : des représentants du mouvement « no global », des centres sociaux, des jeunes communistes du Parti « Rifondazione comunista ». Ils croyaient en la contestation non violente (désobéissance civile) mais avaient annoncé un objectif politique : tenter de franchir la limite de la zone rouge. Le 19 juillet 2001, le chef du bureau de la police (questore) de Gênes avait interdit au cortège des Tute Bianche de pénétrer dans cette zone ou dans celle adjacente et avait déployé les forces de l’ordre de manière à arrêter le cortège au niveau de la place Verdi. Le cortège pouvait donc défiler entre le stade Carlini et toute la longueur de la rue Tolemaide, jusqu’à la place Verdi, soit bien au-delà du croisement entre cette rue et le boulevard Torino, où – comme il sera indiqué ensuite – des affrontements eurent lieu.
18. Vers 13 h 30, le cortège se mit en route et avança lentement vers l’ouest. Dans le secteur de la rue Tolemaide, il y avait des traces de désordres survenus précédemment. Un groupe de contact composé de politiciens et un groupe de journalistes munis de caméras ou d’appareils photo marchaient en tête du cortège. Ce dernier ralentit et marqua plusieurs arrêts. Dans la zone de la rue Tolemaide, des incidents opposèrent des personnes masquées et cagoulées aux forces de l’ordre. Le cortège atteignit le tunnel de la voie ferrée, au croisement du boulevard Torino. Soudain, des engins lacrymogènes furent lancés sur le cortège par des carabiniers placés sous les ordres de M. M.. Les carabiniers avancèrent en faisant usage de leurs matraques. Le cortège fut repoussé vers l’est jusqu’au croisement avec la rue d’Invrea.
19. Les manifestants se divisèrent : certains se dirigèrent vers la mer, d’autres se réfugièrent d’abord rue d’Invrea puis dans le secteur de la place Alimonda. Certains des manifestants réagirent à l’assaut en lançant vers les forces de l’ordre des objets contondants, tels que des bouteilles en verre ou des conteneurs à déchets. Des blindés de carabiniers parcoururent à vive allure la rue Casaregis et la rue d’Invrea, défonçant les barricades placées par les manifestants et provoquant l’éloignement des manifestants présents sur les lieux. A 15 h 22, la centrale opérationnelle ordonna à M. M. de se déplacer et de laisser passer le cortège.
20. Certains manifestants organisèrent une riposte violente. Des accrochages avec les forces de l’ordre eurent lieu. Vers 15 h 40, un groupe de manifestants attaqua un fourgon blindé des carabiniers et l’incendia.
B. Le décès de C. G.
21. Vers 17 heures, la présence d’un groupe de manifestants semblant très agressifs fut remarquée par le bataillon Sicilia, composé d’une cinquantaine de carabiniers postés près de la place Alimonda. Deux jeeps Defender stationnaient près d’eux. Le fonctionnaire de police L. ordonna de charger les manifestants. A pied et suivis par les jeeps, les carabiniers exécutèrent cet ordre. Les manifestants parvinrent à repousser la charge, et les carabiniers furent contraints de se replier de manière désordonnée à proximité de la place Alimonda. Les images prises par hélicoptère à 17 h 23 montrent les manifestants qui avancent le long de la rue Caffa en courant après les forces de l’ordre.
22. Compte tenu du retrait des carabiniers, les jeeps essayèrent de quitter les lieux en marche arrière. L’une d’elles parvint à s’éloigner, alors que l’autre resta bloquée par un conteneur à déchets renversé. Soudain, plusieurs manifestants armés de pierres, de bâtons et de barres de fer l’entourèrent. Les vitres latérales arrière et la lunette arrière de la jeep furent brisées. Les manifestants insultèrent et menacèrent les occupants de la jeep et lancèrent des pierres et un extincteur vers le véhicule.
23. A bord de la jeep se trouvaient trois carabiniers : OMISSIS (« F.C. »), le chauffeur, OMISSIS (« M.P. ») et OMISSIS (« D.R. »). M.P., intoxiqué par les grenades lacrymogènes qu’il avait lancées durant la journée, avait été autorisé par le capitaine C., commandant d’une compagnie de carabiniers, à monter dans la jeep pour s’éloigner du lieu des affrontements. Accroupi à l’arrière de la jeep, blessé, paniqué, il se protégeait (selon les déclarations du manifestant P.) d’un côté avec un bouclier. Tout en hurlant aux manifestants de s’en aller « sinon il les tuerait », M.P. dégaina son pistolet Beretta 9 mm, le pointa en direction de la lunette arrière brisée du véhicule et, après quelques dizaines de secondes, tira deux coups de feu.
24. L’un de ces coups de feu atteignit C. G., un manifestant cagoulé, au visage, sous l’œil gauche. Il était proche de l’arrière de la jeep et venait de ramasser et de soulever un extincteur vide. Il s’effondra à proximité de la roue arrière gauche du véhicule.
25. Peu après, F.C. réussit à redémarrer la jeep et, dans le but de se dégager, fit marche arrière, roulant ainsi sur le corps de C. G.. Il passa ensuite la première vitesse et roula une deuxième fois sur le corps en quittant les lieux. La jeep se dirigea alors vers la place Tommaseo.
26. Après « quelques mètres », le maréchal des carabiniers A. monta à bord de la jeep et se mit au volant, « le chauffeur étant en état de choc ». Le carabinier R. monta également dans le véhicule.
27. Des forces de police qui stationnaient de l’autre côté de la place Alimonda intervinrent et dispersèrent les manifestants. Elles furent rejointes par des carabiniers. A 17 h 27, un policier présent sur les lieux appela la centrale opérationnelle pour demander une ambulance. Par la suite, un médecin arrivé sur place constata le décès de C. G..
28. Le ministère de l’Intérieur (ministero dell’Interno) a affirmé qu’il était impossible d’indiquer le nombre précis de carabiniers et de policiers présents sur les lieux au moment du décès de C. G. ; il y avait approximativement cinquante carabiniers, à une distance de 150 mètres de la jeep. En outre, à 200 mètres, à hauteur de la place Tommaseo, il y avait un groupe de policiers.
29. S’appuyant, entre autres, sur les témoignages livrés par des membres des forces de l’ordre au cours d’un procès parallèle (le « procès des 25 », voir les paragraphes 121-138 ci-dessous), les requérants indiquent notamment qu’à la place Alimonda les carabiniers avaient pu enlever leurs masques à gaz, manger et se reposer. Dans ce « contexte calme », le capitaine C. avait ordonné à M.P. et à D.R. de monter à bord de l’une des deux jeeps. Il estimait que ces deux carabiniers étaient psychologiquement « à plat » (« a terra ») et ne remplissaient plus les conditions physiques pour être en service. Considérant en outre que M.P. devait cesser de lancer des engins lacrymogènes, il lui avait enlevé son lance-lacrymogènes ainsi que la besace contenant les engins.
30. Se référant aux photographies prises peu avant le tir mortel, les requérants soulignent que l’arme était tenue horizontalement et vers le bas. Ils renvoient en outre aux déclarations du lieutenant-colonel T. (paragraphe 43 ci-dessous), qui a affirmé s’être trouvé à une dizaine de mètres de la place Alimonda et à trente-quarante mètres de la jeep. A quelques dizaines de mètres de la jeep se trouvaient les carabiniers (une centaine). Les policiers étaient au bout de la rue Caffa, vers la place Tommaseo. Les requérants rappellent que les photographies versées au dossier de l’enquête montrent clairement la présence de carabiniers non loin de la jeep.
C. L’enquête menée par les autorités nationales
1. Les premiers actes d’enquête
31. Une douille fut découverte à quelques mètres du corps de C. G.. Aucune balle ne fut trouvée. A côté du corps furent récupérés, entre autres, un extincteur et une pierre souillée de sang. Ces objets furent saisis par la police. Il ressort du dossier que le parquet confia à la police trente-six actes d’enquête. La jeep ayant abrité M.P., l’arme et l’équipement de ce dernier restèrent entre les mains des carabiniers ; ils firent par la suite l’objet d’une saisie judiciaire. Une douille fut retrouvée à l’intérieur de la jeep.
32. Le soir du 20 juillet 2001, la brigade mobile de la police de Gênes entendit deux policiers, MM. Martino et Fiorillo. Le 21 juillet 2001, le capitaine C., responsable de la compagnie ECHO, relata les événements de la veille et indiqua les noms des carabiniers qui s’étaient trouvés à bord de la jeep. Il déclara ne pas avoir entendu de coups de feu, probablement à cause de l’oreillette de la radio, du casque et du masque à gaz, qui limitaient son audition.
2. La mise en examen de M.P. et de F.C.
33. Dans la nuit du 20 au 21 juillet 2001, M.P. et F.C. furent identifiés et entendus par le parquet de Gênes en tant que personnes soupçonnées d’homicide volontaire. Ces interrogatoires eurent lieu dans les locaux du commandement des carabiniers à Gênes.
a) Les premières déclarations de M.P.
34. M.P. était un carabinier auxiliaire, affecté au bataillon no 12 « Sicilia » et intégré à la compagnie ECHO, constituée pour les besoins du G8. Avec quatre autres compagnies venues d’autres régions d’Italie, la compagnie ECHO faisait partie du CCIR, placé sous les ordres du lieutenant-colonel T.. La compagnie ECHO était sous les ordres du capitaine C. et de ses adjoints M. et Z., et sous la direction et la coordination de M. L., un fonctionnaire de la police (vice questore) de Rome. Chacune des cinq compagnies était divisée en quatre pelotons de cinquante hommes chacun. Le commandant de toutes les compagnies était le colonel L..
35. Né le 13 août 1980 et entré en service le 16 septembre 2000, M.P. était âgé, à l’époque des faits, de vingt ans et onze mois. Il était grenadier et avait été affecté au lancer d’engins lacrymogènes. Il déclara que pendant les opérations de maintien et de rétablissement de l’ordre public, il était censé se déplacer à pied avec son peloton. Après avoir lancé plusieurs engins lacrymogènes, il avait eu les yeux et le visage brûlés et avait demandé au capitaine C. l’autorisation de monter à bord d’une jeep. Peu après, un autre carabinier (D.R.), blessé, l’avait rejoint.
36. M.P. affirma avoir eu très peur, à cause de tout ce qu’il avait vu lancer pendant la journée, et avoir craint notamment que les manifestants ne lancent des cocktails Molotov. Il expliqua que sa peur avait été accrue lorsqu’il avait été blessé à la jambe par un objet métallique et à la tête par une pierre. Il avait perçu la présence d’agresseurs en raison des jets de pierres et avait pensé que « des centaines de manifestants encerclaient la jeep », même s’il ajouta qu’« au moment des tirs il n’y avait personne en vue ». Il précisa avoir été « en proie à la panique ». A un moment donné, il avait réalisé que sa main avait empoigné son pistolet ; il avait sorti sa main, armée, par la lunette arrière de la jeep et après environ une minute il avait tiré deux coups de feu. Il soutint ne pas s’être aperçu de la présence de C. G. derrière la jeep, ni avant ni après avoir tiré.
b) Les déclarations de F.C.
37. F.C., le chauffeur de la jeep, né le 3 septembre 1977, était en service depuis vingt-deux mois. A l’époque des faits, il était âgé de vingt-trois ans et dix mois. Il déclara qu’il s’était trouvé dans une ruelle à proximité de la place Alimonda et qu’il avait cherché à revenir vers la place en marche arrière parce que le peloton reculait sous la poussée des manifestants. Sa route avait toutefois été bloquée par un conteneur à déchets, et le moteur avait calé. Il avait concentré ses efforts sur la manière de dégager la jeep, tandis que ses compagnons à bord du véhicule hurlaient. De ce fait, il n’avait pas entendu les détonations. Enfin, il déclara : « Je n’ai pas remarqué de personne à terre parce que je portais un masque, qui ne me laissait qu’un champ de vision partiel (…), et aussi parce que la vision latérale, dans la voiture, n’est pas optimale. J’ai fait marche arrière et je n’ai perçu aucune résistance ; en fait, j’ai perçu un soubresaut de la roue sur la gauche, et j’ai pensé à un tas de détritus parce que le conteneur à déchets avait été renversé. Je n’avais qu’une idée en tête, celle de m’éloigner de ce désastre ».
c) Les déclarations de D.R.
38. D.R., né le 25 janvier 1982, effectuait son service militaire depuis le 16 mars 2001. A l’époque des faits, il était âgé de dix-neuf ans et six mois. Il déclara qu’il avait été touché au visage et au dos par des pierres lancées par des manifestants et qu’il avait commencé à saigner. Il avait essayé de se protéger en se couvrant le visage, et M.P. avait tenté à son tour de l’abriter en faisant rempart de son corps. A ce moment-là, il n’avait plus rien vu, mais il avait entendu les hurlements et le bruit des coups et des objets qui entraient dans l’habitacle de la jeep. Il avait entendu M.P. hurler aux agresseurs d’arrêter et de s’en aller, puis deux détonations.
d) Les deuxièmes déclarations de M.P.
39. Le 11 septembre 2001, M.P., interrogé par le parquet, confirma ses déclarations du 20 juillet 2001 et ajouta avoir hurlé aux manifestants « allez vous-en ou je vous tue ! ».
3. Les autres déclarations recueillies pendant l’enquête
a) Les déclarations faites par d’autres carabiniers
40. Le maréchal A. , qui se trouvait dans l’autre jeep présente place Alimonda, déclara avoir vu que la jeep à bord de laquelle se trouvait M.P. était immobilisée par un conteneur à déchets et qu’elle était entourée par de nombreux manifestants, « certainement plus de vingt ». Ces derniers lançaient des projectiles sur la jeep. Il avait notamment vu un manifestant lancer un extincteur contre la lunette arrière. Il avait entendu les détonations et vu C. G. s’effondrer. La jeep était ensuite passée deux fois sur le corps de C. G.. Une fois que la jeep avait réussi à quitter la place Alimonda, il s’était approché de celle-ci et avait vu que le chauffeur était descendu de la voiture et demandait de l’aide, visiblement agité. Il avait alors pris la place du chauffeur et avait remarqué que M.P. avait un pistolet en main ; il lui avait ordonné de remettre le cran de sûreté. Il avait immédiatement pensé qu’il s’agissait de l’arme qui venait de tirer, mais il n’en avait pas discuté avec M.P., qui était blessé et saignait de la tête. Le chauffeur lui dit qu’il avait entendu les détonations pendant qu’il manœuvrait la jeep. Il ne recueillit aucune explication quant aux circonstances ayant entouré la décision de tirer et ne posa aucune question à ce sujet.
41. Le carabinier R. avait rejoint la jeep à pied. Il déclara avoir vu l’arme sortie de sa gaine et avoir demandé à M.P. s’il avait tiré. Celui-ci avait répondu par l’affirmative, sans préciser s’il avait tiré en l’air ou en direction d’un manifestant donné. M.P. répétait sans cesse « ils voulaient me tuer, je ne veux pas mourir ».
42. Le 11 septembre 2001, le parquet entendit le capitaine C., commandant de la compagnie ECHO (paragraphe 34 ci-dessus). Celui-ci déclara qu’il avait autorisé M.P. à monter dans la jeep et qu’il avait récupéré le lance-lacrymogènes de ce dernier car il était en difficulté. Il précisa ultérieurement (au « procès des 25 », audience du 20 septembre 2005) que M.P. était physiquement inapte à poursuivre son service en raison de problèmes psychologiques et de tension nerveuse. M. C. s’était ensuite dirigé avec ses hommes – une cinquantaine – vers l’angle de la place Alimonda et de la rue Caffa. Il avait été prié par le fonctionnaire de police L. de remonter la rue Caffa en direction de la rue Tolemaide pour aider les forces occupées là-bas à repousser les manifestants. Il avait été perplexe face à cette demande, vu le nombre d’hommes à sa disposition et leur état de fatigue, mais les avait néanmoins postés rue Caffa. Sous la poussée des manifestants venant de la rue Tolemaide, les carabiniers avaient été contraints de reculer ; ils s’étaient repliés d’abord dans l’ordre puis de manière désordonnée. M. C. n’avait pas réalisé que lors du retrait les deux jeeps suivaient les carabiniers, la présence de ces véhicules n’ayant aucune « justification fonctionnelle ». Les manifestants n’avaient été dispersés que grâce à l’intervention de brigades mobiles de la police, présentes de l’autre côté de la place Alimonda. C’était seulement après cette dispersion qu’il avait constaté qu’un homme cagoulé gisait à terre, apparemment grièvement blessé. Certains de ses hommes portaient un casque équipé de caméras vidéo, ce qui devait permettre d’éclaircir le déroulement des faits ; les enregistrements vidéo réalisés avaient été remis au colonel Leso.
43. Le lieutenant-colonel T., supérieur hiérarchique du capitaine C., déclara s’être arrêté à une dizaine de mètres de la place Alimonda et à trente-quarante mètres de la jeep, et avoir remarqué que celle-ci passait sur un corps étendu à terre.
b) Les déclarations du fonctionnaire de police L.
44. Le 21 décembre 2001, M. L. fut entendu par le parquet. Il déclara qu’il avait appris la modification des ordres de service le 20 juillet 2001 au matin. Lors de l’audience tenue le 26 avril 2005 dans le cadre du « procès des 25 », M. L. affirma que le 19 juillet 2001 il avait été informé qu’aucun cortège n’avait été autorisé pour le lendemain. Le 20 juillet, il ignorait toujours qu’un cortège autorisé devait défiler. Au cours de la journée, il s’était rendu place Tommaseo, où avaient lieu des accrochages avec les manifestants. A 15 h 30, à un moment calme, le lieutenant-colonel T. et les deux jeeps avaient rejoint le contingent. Entre 16 heures et 16 h 45, le contingent avait été impliqué dans des accrochages boulevard Torino. Puis il était arrivé dans le secteur des places Tommaseo et Alimonda. Le lieutenant-colonel T. et les deux jeeps étaient revenus et le contingent avait été réorganisé. M. L. avait remarqué, au bout de la rue Caffa, un groupe de manifestants qui avaient formé une barrière avec des conteneurs sur roulettes et qui avançaient vers les forces de l’ordre. Il avait demandé à M. C. si ses hommes étaient en mesure de faire face à la situation et avait obtenu une réponse affirmative. M. L. et le contingent s’étaient alors placés près de la rue Caffa. Il avait entendu un ordre de repli et avait assisté à la retraite désordonnée du contingent.
c) Les autres déclarations faites au parquet
45. Des manifestants présents au moment des faits furent également entendus par le parquet. Certains d’entre eux déclarèrent avoir été très près de la jeep, avoir eux-mêmes lancé des pierres et avoir donné sur la jeep des coups à l’aide de bâtons ou d’autres objets. Selon l’un des manifestants, M.P. avait hurlé « bâtards, je vais tous vous tuer ! ». Un autre s’était aperçu que le carabinier à bord de la jeep avait sorti son pistolet ; il avait alors hurlé à ses camarades de faire attention et s’était éloigné. Un autre déclara que M.P. s’était protégé d’un côté avec un bouclier.
46. Des personnes ayant assisté aux faits depuis les fenêtres de leurs logements déclarèrent avoir vu un manifestant ramasser un extincteur et le soulever. Ils avaient entendu deux détonations et avaient vu le manifestant s’effondrer.
4. Le matériel audiovisuel
47. Le parquet ordonna aux forces de l’ordre de lui remettre le matériel audiovisuel pouvant contribuer à la reconstitution des faits survenus place Alimonda. En effet, des photographies et des enregistrements vidéo avaient été réalisés par des équipes de tournage, des caméras montées sur des hélicoptères et des mini-caméras placées sur les casques de quelques agents. Des images d’origine privée étaient également disponibles.
5. Les expertises
a) L’autopsie
48. Dans les vingt-quatre heures, le parquet ordonna une autopsie afin d’établir la cause du décès de C. G.. Le 21 juillet 2001, à 12 h 10, un avis d’autopsie – précisant que la partie lésée pouvait nommer un expert et un défenseur – fut notifié au premier requérant, père de la victime. A 15 h 15, MM. C. et S., experts du parquet, furent formellement investis du mandat, et les opérations d’autopsie commencèrent. Les requérants n’envoyèrent ni représentant ni expert choisi par eux.
49. Les experts demandèrent au parquet un délai de soixante jours pour déposer leur rapport d’autopsie. Le parquet fit droit à cette demande. Le 23 juillet 2001, le parquet autorisa l’incinération du corps de C. G., souhaitée par la famille.
50. Le rapport d’expertise fut déposé le 6 novembre 2001. Il indiquait que C. G. avait été atteint sous l’œil gauche par un projectile et que celui-ci avait traversé le crâne et était ressorti par la paroi postérieure gauche. La trajectoire du projectile avait été la suivante : il avait été tiré à plus de cinquante centimètres de distance, de l’avant vers l’arrière, de la droite vers la gauche, du haut vers le bas. C. G. mesurait 1,65 mètre. Le tireur se trouvait face à la victime, légèrement décalé vers la droite. Selon les experts, le coup de feu à la tête avait entraîné la mort en quelques minutes ; le passage de la jeep sur le corps n’avait causé que des lésions mineures et non évaluables aux organes thoraciques et abdominaux.
b) Les expertises médicolégales pratiquées sur M.P. et sur D.R.
51. Après avoir quitté la place Alimonda, les trois carabiniers qui se trouvaient à bord de la jeep s’étaient rendus aux urgences de l’hôpital de Gênes. M.P. avait signalé des contusions diffuses à la jambe droite et un traumatisme crânien avec plaies ouvertes ; en dépit de l’avis des médecins, qui voulaient l’hospitaliser, M.P. avait signé une décharge et, vers 21 h 30, avait quitté l’hôpital. Il souffrait d’un traumatisme crânien, provoqué selon lui par un coup à la tête qui lui avait été porté avec un objet contondant lorsqu’il était à bord de la jeep.
52. D.R. présentait des contusions et des écorchures sur le nez et la pommette droite, des contusions à l’épaule gauche et au pied gauche. F.C. souffrait d’un syndrome psychologique post-traumatique guérissable en quinze jours.
53. Des expertises médicolégales furent accomplies afin d’établir la nature de ces lésions et leur lien avec l’agression subie par les occupants de la jeep. Ces expertises conclurent que les blessures infligées à M.P. et à D.R. n’avaient pas mis leurs jours en danger. Les blessures de M.P. à la tête avaient pu être causées par un jet de pierre, mais on ne pouvait pas déterminer l’origine des autres blessures. La lésion de D.R. au visage avait pu être provoquée par un jet de pierre, et celle à l’épaule par un coup porté à l’aide d’une planche.
c) Les expertises balistiques ordonnées par le parquet
i. La première expertise
54. Le 4 septembre 2001, le parquet chargea M. C. d’établir si les deux douilles retrouvées sur les lieux (l’une dans la jeep, l’autre à quelques mètres du corps de C. G. – paragraphe 31 ci-dessus) provenaient de la même arme, et en particulier de celle de M.P. Dans son rapport du 5 décembre 2001, l’expert estima qu’il y avait 90 % de chances que la douille découverte dans la jeep provînt du pistolet de M.P., alors qu’il n’y avait que 10 % de chances que celle retrouvée à proximité du corps de C. G. fût issue de cette même arme. En application de l’article 392 du code de procédure pénale (CPP), cette expertise fut effectuée unilatéralement, c’est-à-dire sans possibilité pour la partie lésée d’y participer.
ii. La deuxième expertise
55. Le parquet nomma un deuxième expert, l’inspecteur de police M.. Dans un rapport présenté le 15 janvier 2002, celui-ci indiqua qu’il y avait 60 % de chances que la douille retrouvée près du corps de la victime provînt de l’arme de M.P. Il conclut que les deux douilles provenaient de ce pistolet et estima en outre que la distance entre M.P. et C. G. au moment de l’impact se situait entre 110 et 140 centimètres. Cette expertise fut effectuée unilatéralement.
iii. La troisième expertise
56. Le 12 février 2002, le parquet chargea un collège d’experts (composé de MM. B., B., R. et T.) de « reconstituer, même sous forme virtuelle, la conduite de M.P. et de C. G. dans les moments ayant immédiatement précédé et suivi l’instant où la balle a atteint le corps ». Les experts devaient en particulier « déterminer la distance ayant séparé M.P. et C. G., les angles de vue respectifs et le champ de vision de M.P. à l’intérieur de la jeep au moment des tirs ». Il ressort du dossier que M. R. était l’auteur d’un article, publié en septembre 2001 dans une revue spécialisée (TAC Armi), dans lequel il avait affirmé, entre autres, que la conduite de M.P. s’analysait en une « évidente réaction de défense, pleinement justifiée ».
57. Les représentants et les experts des requérants participèrent aux actes de l’expertise collégiale. Me Vinci, avocat des requérants, déclara ne pas vouloir formuler de demande d’incident probatoire (incidente probatorio). L’article 392 § 1 f) et 2 du CPP permet notamment au parquet et au prévenu de prier le juge des investigations préliminaires (giudice per le indagini preliminari – le « GIP ») d’ordonner une expertise si celle-ci concerne une personne, une chose ou un lieu dont l’état est susceptible de se modifier de manière inévitable ou lorsque, si elle était ordonnée au cours des débats, cette expertise pourrait entraîner la suspension de ceux-ci pendant une période supérieure à soixante jours. Aux termes de l’article 394 du CPP, la partie lésée peut demander au parquet de solliciter un incident probatoire. S’il décide de ne pas accepter cette demande, le parquet doit émettre une ordonnance motivée et la notifier à la partie lésée.
58. Une descente sur les lieux fut effectuée le 20 avril 2002. A cette occasion, un impact provoqué par un coup de feu fut découvert sur le mur d’un bâtiment de la place Alimonda, à environ cinq mètres de hauteur.
59. Le 10 juin 2002, les experts déposèrent leur rapport. Ce document indiquait d’emblée que l’indisponibilité du cadavre de C. G. (en raison de son incinération) avait constitué un important obstacle qui avait rendu le travail des experts non exhaustif ; en effet, ceux-ci n’avaient pu ni réexaminer certaines parties du corps ni rechercher des microtraces. Sur la base du « peu de matériel à disposition », les experts tentaient d’abord de répondre à la question de savoir quel avait été l’impact de la balle sur C. G., en exposant les considérations suivantes.
60. Les blessures au crâne étaient très graves et avaient entraîné la mort « après peu de temps ». La balle n’était pas sortie entière de la tête de C. G. ; en effet, il ressortait du compte rendu (referto radiologico) du scanner « total body » du cadavre effectué avant l’autopsie qu’au-dessus des os de la partie occipitale se trouvait un « fragment sous-cutané probablement de nature métallique ». De par son aspect, ce morceau de métal opaque semblait être un fragment de blindage. L’orifice d’entrée sur le visage avait un aspect qui ne se prêtait pas à une interprétation univoque, sa forme irrégulière s’expliquant en premier lieu par la typologie des tissus de la zone du corps atteinte par la balle. Une explication pouvait toutefois être avancée, selon laquelle la balle n’avait peut-être pas frappé directement C. G. mais avait rencontré un objet intermédiaire, capable de la déformer et de la ralentir, avant d’atteindre le corps de la victime. Cette hypothèse aurait expliqué les dimensions réduites de l’orifice de sortie et le fait que la balle s’était fragmentée à l’intérieur de la tête de C. G..
61. Les experts avaient retrouvé un petit fragment métallique de plomb, provenant vraisemblablement de la balle, qui s’était détaché de la cagoule de C. G. lors de la manipulation de celle-ci ; il était impossible de savoir si ce fragment provenait de la partie antérieure, latérale ou postérieure de la cagoule. Il portait des traces d’une matière n’appartenant pas au projectile en tant que tel mais provenant d’un matériau utilisé dans la construction. En outre, des micro-fragments de plomb avaient été trouvés à l’avant et à l’arrière de la cagoule, ce qui semblait confirmer l’hypothèse selon laquelle la balle avait en partie perdu son blindage lors de l’impact. Il n’était pas possible d’établir la nature de l’« objet intermédiaire » qui aurait été touché par la balle, mais l’on pouvait exclure qu’il s’agisse de l’extincteur que C. G. avait tenu à bout de bras. La distance de tir avait été supérieure à 50-100 centimètres.
62. Pour reconstituer les faits dans le cadre de la « théorie de l’objet intermédiaire », les experts avaient ensuite procédé à des essais de tir et à des simulations vidéo et à l’aide d’un logiciel. Ils concluaient qu’il n’était pas possible d’établir la trajectoire de la balle parce que celle-ci avait certainement été modifiée par la collision. Se fondant sur une séquence vidéo des faits montrant une pierre se désintégrant en l’air et sur la détonation perçue dans la bande son, les experts estimaient que la pierre avait explosé immédiatement après le coup de feu. Une simulation par ordinateur montrait la balle tirée vers le haut qui frappait C. G. après avoir percuté cette pierre, lancée par un autre manifestant contre la jeep. Les experts estimaient que la distance entre C. G. et la jeep avait été d’environ 1,75 mètre et qu’au moment du coup de feu M.P. avait pu voir C. G..
6. Les investigations menées par les requérants
63. Les requérants déposèrent une déclaration faite le 19 février 2002 devant leur avocat par J.M., un manifestant. Ce dernier avait notamment déclaré que C. G. était encore vivant après le passage de la jeep sur son corps. Les requérants produisirent également la déclaration d’un carabinier (V.M.) faisant état d’une pratique selon lui répandue au sein des forces de l’ordre, consistant à modifier les projectiles du type de celui utilisé par M.P. afin d’en accroître la capacité d’expansion et donc de fragmentation.
64. Les requérants soumirent enfin deux rapports rédigés par des experts qu’ils avaient eux-mêmes choisis. Selon l’un d’eux, M. G., la balle était déjà fragmentée au moment où elle avait atteint la victime. La fragmentation de la balle pouvait s’expliquer par un défaut de fabrication ou par une manipulation du projectile visant à accroître sa capacité de fragmentation. De l’avis de l’expert, ces deux hypothèses se vérifiaient toutefois rarement et, dès lors, étaient moins probables que celle émise par les experts du parquet (à savoir que la balle avait heurté un objet intermédiaire).
65. Les autres experts chargés par les requérants de reconstituer le déroulement des faits estimaient que la pierre s’était fragmentée en percutant non pas la balle tirée par M.P., mais la jeep. Pour pouvoir reconstituer les faits à partir du matériel audiovisuel, et en particulier à partir des photographies, il fallait forcément établir la position précise du photographe, notamment son angle de vision, en tenant compte également du type de matériel utilisé. En outre, il fallait mettre en rapport, d’une part, les images et le temps, et, d’autre part, les images et le son. Les experts des requérants critiquaient la méthode des experts du parquet, qui s’étaient basés sur une « simulation vidéo et logicielle » et n’avaient pas analysé les images disponibles avec rigueur et précision. Des critiques étaient formulées également à l’égard de la méthode suivie lors des essais de tir.
66. Les experts des requérants concluaient qu’au moment du coup de feu C. G. se trouvait à environ trois mètres de la jeep. On ne pouvait pas nier que la balle était fragmentée lorsqu’elle avait atteint la victime ; il n’en demeurait pas moins qu’on devait exclure un impact avec la pierre qui apparaissait sur la vidéo. En effet, une pierre aurait déformé la balle de manière différente et aurait laissé un autre type de trace sur le corps de C. G.. De plus, M.P. n’avait pas tiré vers le haut.
D. La demande de classement et l’opposition des requérants
1. La demande de classement sans suite
67. A l’issue de l’enquête interne, le parquet de Gênes décida de demander le classement sans suite des accusations portées contre M.P. et F.C. A titre préliminaire, il observait que l’organisation des opérations de maintien et de rétablissement de l’ordre public avait été profondément modifiée dans la nuit du 19 au 20 juillet 2001, et considérait que cela expliquait une partie des dysfonctionnements survenus le 20 juillet. Il n’énumérait toutefois pas les modifications et les dysfonctionnements qui en avaient découlé.
68. Le parquet notait ensuite que les versions des faits de MM. L. et C. divergeaient sur un point précis : le premier affirmait que la décision de poster les forces de l’ordre dans la rue Caffa pour bloquer les manifestants avait été prise d’un commun accord, alors que le deuxième soutenait qu’il s’agissait d’une décision unilatérale de M. L., prise en dépit des risques liés au nombre réduit des effectifs et à leur état de fatigue.
69. Par ailleurs, les experts s’accordaient sur les faits suivants : le pistolet de M.P. avait tiré deux balles, dont la première avait mortellement atteint C. G. ; la balle en cause ne s’était pas fragmentée uniquement parce qu’elle avait atteint la victime ; la photographie montrant C. G. portant l’extincteur avait été prise alors qu’il se trouvait à environ trois mètres de la jeep.
70. En revanche, les experts avaient des opinions divergentes sur les points suivants :
a) au moment où il avait été atteint, C. G. était à 1,75 mètre de la jeep selon les experts du parquet, mais à environ 3 mètres pour les experts de la famille G. ;
b) pour les experts de la famille G., le tir était parti avant qu’on puisse voir la pierre sur la vidéo, alors que les experts du parquet pensaient le contraire.
71. Les parties s’accordant à dire que la balle était déjà fragmentée lorsqu’elle avait atteint la victime, le parquet en déduisait qu’elles étaient également d’accord sur les causes de cette fragmentation et que les requérants adhéraient à la « théorie de l’objet intermédiaire ». Les autres hypothèses susceptibles d’expliquer la fragmentation de la balle avancées par les requérants – telles qu’une manipulation ou un défaut de fabrication du projectile – étaient considérées par les requérants eux-mêmes comme étant beaucoup plus improbables. Dès lors, ces hypothèses ne pouvaient selon le parquet fournir une explication valable.
72. L’enquête avait été longue, notamment en raison des retards accusés par certains experts, de la « superficialité » du rapport d’autopsie et des erreurs commises par M. C., l’un des experts. En même temps, elle avait permis d’aborder et d’approfondir toute question pertinente et de conclure que l’hypothèse de la balle tirée vers le haut et déviée par une pierre était « la plus convaincante ». En revanche, les éléments du dossier ne permettaient pas d’établir si M.P. avait tiré dans la seule intention de disperser les manifestants ou en prenant le risque d’en blesser ou d’en tuer un ou plusieurs. Trois hypothèses, auxquelles « il n’y aura[it] jamais de réponse certaine », pouvaient être formulées comme suit :
– il s’agissait de tirs d’intimidation et donc d’un homicide involontaire ;
– M.P. avait tiré pour arrêter l’agression et avait pris le risque de tuer, hypothèse dans laquelle il y avait eu homicide volontaire ;
– M.P. avait visé C. G. et il s’agissait d’un homicide volontaire.
Selon le parquet, les éléments du dossier permettaient d’exclure la troisième hypothèse.
73. Le parquet considérait ensuite que la collision entre la pierre et la balle n’était pas de nature à rompre le lien de causalité entre le comportement de M.P. et le décès de C. G.. Etant donné que ce lien de causalité subsistait, la question était de savoir si M.P. avait agi en état de légitime défense.
74. Il était avéré que l’intégrité physique des occupants de la jeep avait été menacée et que M.P. avait « riposté » alors qu’il était en danger. Il fallait évaluer cette riposte, tant du point de vue de la nécessité que de la proportionnalité, « ce dernier aspect étant le plus délicat ».
75. De l’avis du parquet, M.P. n’avait pas eu d’autre option et l’on ne pouvait pas s’attendre à ce qu’il se conduisît autrement, car « la jeep était encerclée par les manifestants [et] l’agression physique contre les occupants était évidente et virulente ». C’était à juste titre que M.P. avait eu le sentiment d’être en danger de mort. Le pistolet était un instrument capable de faire cesser l’agression, et l’on ne pouvait critiquer M.P. pour l’équipement qui lui avait été fourni. L’on ne pouvait exiger de M.P. qu’il s’abstînt d’utiliser son arme et subît une agression susceptible de menacer son intégrité physique. Ces considérations justifiaient le classement sans suite de l’affaire.
2. L’opposition des requérants
76. Le 10 décembre 2002, les requérants firent opposition à la demande de classement du parquet. Ils alléguaient que puisque le parquet lui-même avait reconnu que l’enquête avait été caractérisée par des erreurs et par des questions n’ayant pas trouvé de réponse certaine, des débats contradictoires étaient indispensables à la recherche de la vérité. Ils estimaient que l’on ne pouvait affirmer à la fois que M.P. avait tiré en l’air et qu’il avait agi en état de légitime défense, d’autant que l’intéressé avait déclaré ne pas avoir vu C. G. au moment de tirer.
77. Les requérants faisaient ensuite remarquer que la thèse de l’objet intermédiaire, qu’ils contestaient, avait été émise un an après les faits et se fondait sur une simple hypothèse non corroborée par des éléments objectifs. D’autres explications pouvaient être avancées.
78. Les requérants faisaient également observer qu’il ressortait du dossier que C. G. était encore vivant après le passage de la jeep sur son corps. Ils soulignaient que l’autopsie ayant conclu à l’absence de lésions appréciables provoquées par les passages de la jeep avait été qualifiée de superficielle par le parquet, et critiquaient le choix de confier aux carabiniers plusieurs actes d’enquête.
79. Il s’ensuivait que M.P. et F.C. auraient dû être renvoyés en jugement. A titre subsidiaire, les requérants demandaient l’accomplissement d’autres actes d’enquête, et notamment :
a) une expertise visant à établir les causes et le moment du décès de C. G., en particulier pour savoir si celui-ci était encore vivant pendant et après le passage de la jeep ;
b) une audition du chef de la police, M. De G., et du carabinier Z., pour savoir quelles directives avaient été données quant au port de l’arme sur la cuisse ;
c) la recherche et l’identification de la personne ayant lancé la pierre qui aurait dévié la balle ;
d) une deuxième audition des manifestants qui s’étaient présentés spontanément ;
e) l’audition du carabinier V.M., qui avait fait état de la pratique consistant à entailler la pointe des projectiles (paragraphe 63 ci-dessus) ;
f) une expertise sur les douilles retrouvées et sur les armes de tous les agents présents place Alimonda au moment des faits.
3. L’audience devant la GIP
80. L’audience devant la GIP eut lieu le 17 avril 2003. Les requérants maintinrent leur thèse selon laquelle la balle mortelle n’avait pas été déviée et avait directement atteint la victime. Ils concédaient cependant qu’il n’y avait pas de preuves que M.P. eût modifié le projectile pour le rendre plus performant ; il s’agissait là d’une simple hypothèse.
81. Le représentant du parquet déclara avoir l’impression que « certaines questions, dont [il avait] cru qu’elles étaient l’objet d’une convergence, ne l’étaient pas et [qu]’il y [avait] au contraire des divergences ». Il rappela que l’expert des requérants, M. Gentile, était d’accord sur le fait que le projectile avait été endommagé avant d’atteindre C. G.. De plus, il avait reconnu que, parmi les causes possibles du dommage, il y avait une collision avec un objet ou un défaut intrinsèque du projectile, et que la deuxième cause était moins probable que la première.
E. La décision de la GIP
82. Par une ordonnance déposée au greffe le 5 mai 2003, la GIP de Gênes accueillit la demande de classement du parquet1.
1. L’établissement des faits
83. La GIP se référa à un résumé des faits établi par un anonyme français et mis sur le net par un site anarchiste (www.anarchy99.net), résumé qu’elle estimait crédible compte tenu de sa concordance avec le matériel audiovisuel et les déclarations des témoins. Le récit en question décrivait la situation ayant régné place Alimonda et relatait une charge des manifestants contre les carabiniers avec, en première ligne, ceux qui lançaient tout ce qu’ils trouvaient et, en deuxième ligne, ceux qui transportaient des conteneurs et poubelles pouvant servir de barricades mobiles. L’atmosphère sur la place était décrite comme « furieuse », avec les forces de l’ordre attaquées par une foule qui avançait, lançait des projectiles et en récupérait tout de suite d’autres. Les carabiniers, à leur tour, lançaient des lacrymogènes, mais un contingent fut finalement contraint de reculer vers la place Alimonda, où l’une des deux jeeps qui les accompagnaient se trouva bloquée et encerclée par les manifestants. Armés de barres de fer et d’autres objets, ces derniers commencèrent à taper contre la carrosserie de la jeep, dont la vitre arrière fut vite brisée. L’auteur du récit entendit deux détonations et put voir la main de l’un des deux carabiniers à l’intérieur de la jeep tenant une arme. Lorsque la jeep s’éloigna et que le bruit s’atténua, il aperçut le corps d’un jeune homme grièvement blessé à la tête et gisant à terre. L’auteur du récit a également décrit la colère de certains manifestants face à la nouvelle de la mort de l’un d’entre eux.
84. La GIP observa que le récit du manifestant anonyme concordait avec les conclusions de l’enquête selon lesquelles, vers 17 heures, un groupe de manifestants s’était rassemblé rue Caffa, au croisement avec la rue Tolemaide, érigeant des barricades avec des poubelles, des chariots de supermarché et d’autres objets. A partir de cette barricade, le groupe avait commencé à lancer de multiples pierres et objets contondants sur un contingent de carabiniers qui, au départ positionné place Alimonda, à l’angle avec la rue Caffa, avait commencé à avancer dans le but d’arrêter les manifestants, dont le nombre avait entre-temps augmenté. Deux jeeps, dont l’une conduite par F.C. et abritant M.P. et D.R., avaient rejoint le contingent des carabiniers ; cependant, les manifestants avaient violemment chargé, obligeant le contingent à se retirer. Les jeeps avaient fait marche arrière vers la place Alimonda, où l’une d’elles avait heurté un conteneur à déchets. En quelques instants, les manifestants avaient encerclé le véhicule, le frappant avec tous les moyens disponibles et lançant des pierres. Comme le montrait le matériel audiovisuel versé au dossier, les vitres de la jeep avaient été brisées par des pierres, des barres de fer et des bâtons. L’acharnement des manifestants contre la jeep avait été « impressionnant » ; certaines pierres avaient atteint les carabiniers au visage et à la tête, et l’un des manifestants, M. M., avait introduit une longue poutre en bois par l’une des fenêtres, causant ainsi à D.R. des contusions avec écorchures à l’épaule droite.
85. L’une des photographies montrait M.P. en train de repousser un extincteur avec son pied ; il s’agissait très probablement de l’objet métallique qui lui avait valu une importante contusion à la jambe. Sur les photographies successives apparaissait une main tenant une arme au-dessus de la roue de secours de la jeep, alors qu’un jeune homme (C. G.) se penchait vers le sol et soulevait un extincteur, selon toute vraisemblance dans le but de le lancer vers la vitre arrière de la jeep. C’était à ce moment-là que deux coups de feu avaient été tirés depuis l’intérieur de la jeep et que le jeune homme était tombé à terre. La jeep avait roulé à deux reprises sur son corps avant de pouvoir quitter les lieux.
86. Tous les éléments disponibles, y compris les déclarations de M.P. du 20 juillet 2001 (paragraphes 34-36 ci-dessus), amenaient à penser que le décès de C. G. avait été provoqué par l’un des coups de feu tirés par M.P. La GIP citait presque intégralement les déclarations en question, où M.P. faisait état de sa panique, des blessures qui lui avaient été infligées, ainsi qu’à D.R., et du fait qu’au moment où il avait pointé son pistolet il n’avait vu personne mais avait perçu la présence d’agresseurs à cause du lancement ininterrompu de pierres. Cette version concordait avec les déclarations d’D.R. et de F.C., ainsi qu’avec celles d’autres militaires et des témoins. De plus, il ressortait du dossier que M.P. avait des contusions et des blessures à la jambe droite, au bras et au sommet du crâne ; D.R. souffrait d’excoriations au visage et de contusions à l’épaule et au pied ; F.C. avait un syndrome post-traumatique guérissable en quinze jours (paragraphes 51-53 ci-dessus).
2. La théorie de l’« objet intermédiaire »
87. La GIP prit acte de ce que les éléments du dossier montraient que la première balle tirée par M.P. avait mortellement touché C. G.. En sortant par l’os occipital du crâne, cette balle avait perdu un fragment de son revêtement, comme cela ressortait des radiographies faites avant l’autopsie. Cette circonstance, ainsi que les caractéristiques des blessures d’entrée et de sortie, avaient amené les experts du parquet à formuler la thèse selon laquelle le projectile avait percuté un objet avant d’atteindre C. G.. En effet, la blessure d’entrée était très irrégulière et la blessure de sortie avait des dimensions réduites, comme cela se produisait en cas de déperdition d’énergie et/ou de fragmentation du projectile.
88. En l’occurrence, il s’agissait d’un projectile blindé de calibre 9 mm parabellum, donc de grande puissance. Cette puissance et la faible résistance des tissus traversés par la balle confirmaient la thèse des experts du parquet. De plus, dans la cagoule de la victime on avait trouvé un « minuscule fragment de plomb », compatible avec les projectiles dont M.P. disposait, et sur lequel étaient figés des particules d’os, ce qui donnait à penser que la balle avait perdu une partie de son blindage avant d’atteindre l’os.
89. Selon les simulations de tir, l’objet intermédiaire ayant fragmenté la balle ne pouvait être ni l’extincteur porté par la victime ni l’un des os qu’elle avait traversé ; il pouvait s’agir, par contre, de l’une des nombreuses pierres lancées par les manifestants en direction de la jeep. Cela semblait confirmé par la séquence vidéo montrant une pierre qui se désintégrait en l’air, au moment même où l’on entendait une détonation. La simultanéité du son et de la désintégration de l’objet conduisait à juger moins convaincante la thèse des experts des requérants selon laquelle la pierre en question s’était écrasée contre le toit de la jeep. De plus, le fragment de plomb présent dans la cagoule de la victime portait des traces de matériaux de construction. Enfin, les essais de tir montraient que lorsqu’ils étaient percutés par un projectile, les objets composés de matériaux de construction « explosaient » de manière similaire à celle visible sur la séquence vidéo et endommageaient le blindage des cartouches. Les tests accomplis montraient que la désintégration avait des caractéristiques différentes (la production de poussière, moins abondante, était consécutive et non concomitante à la fragmentation) lorsque de tels objets étaient lancés contre un véhicule.
90. Le deuxième coup de feu tiré par M.P. avait laissé une trace (à 5,30 mètres de haut) sur le mur de l’église de la place Alimonda. Le premier avait atteint C. G.. La trajectoire initiale de ce tir n’avait pas pu être établie par l’expertise balistique. Les experts du parquet avaient cependant pris en compte le fait que la jeep avait une hauteur de 1,96 mètre et que la pierre visible dans le film se trouvait à une hauteur d’environ 1,90 mètre lorsque la caméra avait fixé l’image. Dès lors, ils avaient effectué des essais de tir en positionnant l’arme à environ 1,30 mètre d’une pierre suspendue à 1,90 mètre du sol : il en était résulté que le projectile avait été dévié vers le bas et avait atteint un « bac de récupération » (situé à 1,75 mètre de l’arme), à des hauteurs allant de 1,10 à 1,80 mètre. Ces données concordaient avec les dépositions de certains manifestants, témoins oculaires des faits, selon lesquelles C. G. se trouvait à environ 2 mètres de la jeep lorsqu’il avait été mortellement atteint par la balle. Les experts du parquet ne disposaient pas de ces dépositions au moment où ils avaient accompli leur mandat.
91. A la lumière des éléments précédents, il y avait lieu de penser que, conformément aux conclusions des experts du parquet, le coup de feu avait été tiré vers le haut, au-dessus de C. G., qui mesurait 1,65 mètre. En effet, la pierre s’était désintégrée à 1,90 mètre du sol.
3. L’angle visuel de M.P.
92. Il était probable que l’angle visuel de M.P. avait été limité par la roue de secours de la jeep. Il était cependant difficile d’avoir des certitudes sur ce point, car le visage de M.P. n’apparaissait sur aucune des photographies versées au dossier, alors que ces dernières montraient clairement sa main tenant l’arme. Les images donnaient toutefois à penser qu’il était à moitié allongé (in posizione semidistesa) ou accroupi sur le plancher, comme le confirmaient les propres déclarations de M.P. ainsi que celles de D.R. et du manifestant Predonzani. Cela permettait de conclure que M.P. n’avait pas pu voir les personnes qui se trouvaient à proximité de la porte arrière de la jeep au-dessous de la roue de secours, et qu’il avait tiré dans le but d’intimider les manifestants.
4. La qualification juridique de la conduite de M.P.
93. Ayant ainsi reconstitué les faits, la GIP se pencha sur la qualification juridique de la conduite de M.P. A cet égard, le parquet avait formulé deux hypothèses (paragraphe 72 ci-dessus) : a) que M.P. avait tiré le plus haut possible dans la seule intention d’intimider les agresseurs, auquel cas il devait répondre d’un homicide involontaire (omicidio colposo) ; b) que M.P. avait tiré sans viser quoi ou qui que ce fût, dans l’intention de faire cesser l’agression, auquel cas il devait répondre d’un homicide volontaire en raison d’un « dol éventuel » parce qu’il avait accepté le risque de toucher des manifestants.
94. La GIP estima que la première des hypothèses du parquet n’était pas correcte. En effet, si M.P. avait tiré le plus haut possible, sa conduite aurait été non punissable aux termes de l’article 53 du code pénal (CP) et, en tout état de cause, le lien de causalité aurait été interrompu par un facteur imprévisible et incontrôlable, à savoir la collision du projectile avec un objet intermédiaire.
95. Si par contre l’on suivait la deuxième hypothèse du parquet, il s’imposait d’établir si une cause de justification (à savoir l’usage légitime des armes et/ou la légitime défense – articles 53 et 52 du CP, voir les paragraphes 142-144 ci-dessous) neutralisait la responsabilité pénale et rendait la conduite de M.P. non punissable.
5. La question de savoir si M.P. avait fait un usage légitime des armes (article 53 du CP)
96. La GIP se pencha d’abord sur la question de savoir si le recours à une arme avait été nécessaire. L’article 53 du CP (paragraphe 143 ci-dessous) conférait aux officiers publics un pouvoir plus ample que celui dont disposait toute personne dans le cadre de la légitime défense ; en effet, cette cause de justification n’était pas subordonnée à la condition de la proportionnalité entre menace et réaction, mais à celle de la « nécessité ». Même pour les officiers publics, l’usage d’une arme était un remède extrême (extrema ratio) ; cependant, la réalisation d’un événement plus grave que celui prévu par l’officier public ne pouvait pas être mise à la charge de ce dernier, car cela relevait du risque inhérent à l’utilisation des armes à feu. En général, l’article 53 du CP justifiait le recours à la force lorsqu’il était nécessaire pour contrer une violence ou une résistance à l’autorité.
97. M.P. s’était trouvé dans une situation d’extrême violence tendant à déstabiliser l’ordre public et visant les carabiniers, dont l’intégrité physique était directement menacée. La GIP cita à cet égard des extraits des témoignages de deux agresseurs de la jeep (MM. P. et M.) faisant état, encore une fois, de la violence avec laquelle l’attaque avait été menée, et se référa aux photographies versées au dossier. La conduite de la victime ne s’analysait pas en un acte d’agression isolé, mais en l’une des phases d’une violente attaque que plusieurs personnes avaient portée contre la jeep, en la faisant basculer et en essayant, probablement, d’en ouvrir la porte arrière.
98. Les éléments du dossier amenaient à exclure que M.P. eût délibérément visé C. G. ; cependant, à supposer même que tel eût été le cas, dans les circonstances particulières de l’espèce sa conduite aurait été justifiée par l’article 53 du CP, car il était légitime de tirer vers les agresseurs pour les obliger à cesser leur attaque, en essayant en même temps de limiter les dégâts, par exemple en évitant de toucher des organes vitaux. En conclusion, l’usage de l’arme à feu était justifié et susceptible de ne pas être gravement préjudiciable, dès lors que M.P. avait « certainement tiré vers le haut » et que la balle avait atteint C. G. uniquement parce que sa trajectoire avait été déviée de manière imprévisible.
6. La question de savoir si M.P. avait agi en ?

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