A.N.P.T.ES. Associazione Nazionale per la Tutela degli Espropriati. Oltre 5.000 espropri trattati in 15 anni di attività.
Qui trovi tutto cio che ti serve in tema di espropriazione per pubblica utilità.

Se desideri chiarimenti in tema di espropriazione compila il modulo cliccando qui e poi chiamaci ai seguenti numeri: 06.91.65.04.018 - 340.95.85.515

Testo originale e tradotto della sentenza selezionata

AFFAIRE CUSAN ET FAZZO c. ITALIE

Tipologia: Sentenza
Importanza: 2
Articoli: 14, 46, 08
Numero: 77/07/2014
Stato: Italia
Data: 2014-01-07 00:00:00
Organo: Sezione Seconda
Testo Originale

Conclusioni: Violazione dell’articolo 14+8 – Interdizione della discriminazione, Articolo 14 – Discriminazione, (Articolo 8 – Diritto al rispetto della vita privato e familiare Articolo 8-1 – Rispetto della vita privata,
Stato convenuto tenuto a prendere delle misure generali, Articolo 46-2 – Misure generali,

SECONDA SEZIONE

CAUSA CUSAN E FAZZO C. ITALIA

( Richiesta no 77/07)

SENTENZA

STRASBURGO

7 gennaio 2014

Questa sentenza diventerà definitiva nelle condizioni definite all’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire dei ritocchi di forma.

Nella causa Cusan e Fazzo c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, riunendosi in una camera composta di:
Işıl Karakaş, presidentessa,
Guido Raimondi,
Peer Lorenzen,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Paulo Pinto di Albuquerque,
Helen Keller, juges,et
di Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Dopo avere deliberato in camera del consiglio il 26 novembre 2013,
Rende la sentenza che ha adottata in questa dat,:
PROCEDIMENTO
1. All’origine della causa si trova una richiesta (no 77/07) diretta contro la Repubblica italiana e di cui due cittadini di questo Stato, OMISSIS (“i richiedenti”), hanno investito la Corte il 13 dicembre 2006 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2. Il governo italiano (“il Governo”) è stato rappresentato dal suo agente, la Sig.ra E. Spatafora.
3. I richiedenti si lamentano del rifiuto delle autorità italiane di fare diritto alla loro domanda che tende affinché la loro figlia si veda assegnare il cognome di sua madre.
4. Il 7 febbraio 2013, la richiesta è stata comunicata al Governo. Siccome lo permette l’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato deciso inoltre che la camera si sarebbe pronunciata sull’ammissibilità e sul merito allo stesso tempo.
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DELLO SPECIFICO
5. I richiedenti sono nati rispettivamente nel 1964 e nel 1958 e risiedono a Milano.
6. I richiedenti sono una coppia sposata. Il 26 aprile 1999 nacque il loro primo bambino, una ragazza, Maddalena.
7. Il richiedente presentò all’ufficiale di stato civile una domanda tesa affinché sua figlia fosse iscritta nei registri di stato civile con come cognome quello di sua madre (Cusan). Questa domanda fu respinta e Maddalena fu iscritta col nome di suo padre (Fazzo).
8. Nel giugno 2000, i richiedenti introdussero dinnanzi al tribunale di Milano un ricorso contro questa decisione. Facevano valere che si accordavano a volere iscrivere Maddalena col nome di sua madre e che nessuna disposizione del diritto italiano si opponeva non ci.
9. Con un giudizio del 6 giugno 2001 di cui il testo fu depositato alla cancelleria il 8 giugno 2001, il tribunale di Milano respinse il ricorso dei richiedenti.
10. Nei suoi motivi, il tribunale osservò che anche se nessuna disposizione legale imponeva di iscrivere un bambino nato di una coppia sposata col nome di suo padre, questa regola corrispondeva ad un principio buono radicato nella coscienza sociale e nella storia italiana. Il tribunale stimò peraltro superfluo la questione dell’esistenza o no di una disposizione legale esplicita. Rilevò difatti che secondo il vecchio articolo 144 del codice civile (“il CC”), ogni moglie sposata adottava il nome del marito, e stimò che i bambini potevano essere iscritti solamente con questo nome; questo nome era comune agli sposi difatti, anche se, in seguito, l’articolo 143 bis del CC avevano contemplato che il nome del marito possa essere aggiunto solamente in seguito a quello di sua moglie.
11. I richiedenti interposero appello.
12. Con una sentenza del 24 maggio 2002 di cui il testo fu depositato alla cancelleria il 4 giugno 2002, la corte di appello di Milano confermò il giudizio di prima istanza.
13. Nei suoi motivi, la corte di appello osservò che la Corte costituzionale aveva affermato a più riprese, ordinanze nostri 176 del 28 gennaio 1988 e 586 del 11 maggio 1988, che la no-previsione della possibilità, per la madre, di trasmettere il suo cognome ai “bambini legittimi” non violava né l’articolo 29, fondazione del matrimonio sull’uguaglianza giuridica e giuridico degli sposi, né l’articolo 3, uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge, della Costituzione. Notò che la Corte costituzionale aveva indicato che apparteneva al legislatore di decidere dell’opportunità di introdurre un sistema differente di attribuzione del cognome, e che ai meno sei progetti o proposte di legge erano pendenti dinnanzi al Parlamento. Ciò dimostrava ai suoi occhi che la regola non scritta di attribuzione del nome era ancora in vigore; la giurisprudenza ne non aveva messo peraltro in dubbio l’esistenza.
14. Per la corte di appello, il mancata applicazione di questa regola avrebbe provocato delle conseguenze per i bambini ai quali sarebbero assegnati il nome della madre, in ciò che sarebbero potuti essere preso per i “bambini non legittimi.”
15. I richiedenti si ricorsero in cassazione.
16. Con un’ordinanza del 26 febbraio 2004 di cui il testo fu depositato alla cancelleria il 17 luglio 2004, la Corte di cassazione stimò che la questione incidentale della costituzionalità della regola che assegna ai “bambini legittimi” il nome del padre era pertinente e non era manifestamente infondata; perciò, sospese il procedimento ed ordinò la trasmissione della pratica alla Corte costituzionale.
Nei motivi dell’ordinanza, la Corte di cassazione precisò che la regola in causa non era una regola di diritto consuetudinario, ma si liberava dell’interpretazione di certi articoli del CC.
17. Con una sentenza (no 6) del 16 febbraio 2006, la Corte costituzionale dichiarò questa questione di costituzionalità inammissibile.
Nei suoi motivi, la Corte costituzionale considerò che il sistema risultava in vigore da una concezione patriarcale della famiglia e dei poteri del marito che aveva le sue radici nel diritto romano e non era più compatibile col principio costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e mogli. Rilevò di più dell’articolo 16 § 1 g, della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione verso la moglie, ratificata dalla legge no 132 del 14 marzo 1985, impegnava gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure necessarie per eliminare la discriminazione verso le mogli a proposito di ogni questione relativa al matrimonio o ai rapporti familiari e, in particolare, a garantire gli stessi diritti al marito ed alla moglie, ivi compreso nella scelta del nome.
18. La Corte costituzionale si riferì anche alle raccomandazioni nostri 1271 di 1995 e 1362 del 1998 del Consiglio dell’Europa, così come alla giurisprudenza della Corte, nell’occorrenza Burghartz c. Svizzera, 22 febbraio 1994, serie Ha no 280-B; Stjerna c. Finlandia, 25 novembre 1994, serie Ha no 299-B; e Ünal Tekeli c. Turchia, no 29865/96, CEDH 2004-X.
19. Però, la Corte costituzionale non si stimò competente per procedere all’intervento desiderato dalla Corte di cassazione.
Rilevò difatti che tutta una serie di opzioni restava aperta, e cioè: 1o, se bisognava fare dipendere esclusivamente la scelta dal nome della volontà degli sposi; 2o, se bisognava permettere agli sposi di derogare alla regola; 3o, se la scelta degli sposi doveva avere luogo una sola volta e doveva valere per tutti i loro bambini, o se una scelta individuale dovesse essere espressa per ogni bambino. Osservò che i progetti di legge, nostri 1739-S, 1454-S e 3133-S, presentati durante la XIVe legislatura, testimoniavano della diversità delle soluzioni che possono essere previste, e stimò che la scelta tra queste soluzioni non poteva essere fatta che col legislatore. Considerò anche che una dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni interne pertinenti avrebbe creato un vuoto giuridico.
20. Con una sentenza del 29 maggio 2006 di cui il testo fu depositato alla cancelleria il 16 luglio 2006, la Corte di cassazione prese atto della decisione della Corte costituzionale e respinse i richiedenti del loro ricorso.
Nei suoi motivi, sottolineò che la regola denunciata dai richiedenti era sintomatica di una concezione patriarcale della famiglia e si conciliava difficilmente coi testi internazionali pertinenti, ma stimò che la cura di mettere in materia in posto un regime giuridico compatibile con la Costituzione doveva spettare al legislatore.
21. Il 31 marzo 2011, i richiedenti chiesero al ministro degli Interni di essere autorizzati a fare completare il nome dei loro “bambini legittimi” con l’aggiunta del nome “Cusan.” Spiegavano desiderare permetterloro con questo verso di identificarsi al patrimonio giuridico di loro nonno materno-deceduto in 2011, e che era stato un filantropo secondo i loro argomenti-; il fratello del richiedente non avendo avuto discendenti, il nome “Cusan” non poteva perpetuarsi, precisavano che passando ai bambini della Sig.ra Alessandra Cusan.
22. Con un decreto del 14 dicembre 2012, il prefetto di Milano autorizzò i richiedenti a cambiare il nome i loro bambini in “Fazzo Cusan.”
23. I richiedenti precisano che in dispetto di questa autorizzazione, desiderano mantenere la loro richiesta dinnanzi alla Corte. A questo riguardo, fanno osservare che il decreto del Prefetto è stato emesso alla conclusione di un procedimento amministrativo, e non giudiziale, e che non sono stati autorizzati a dare unicamente al loro bambino il cognome di loro madre, siccome l’avevano chiesto al tribunale di Milano.
II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE
24. L’articolo 29 della Costituzione si legge come segue:
“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è fondato (ordinato) sull’uguaglianza giuridica e giuridico degli sposi, nei limiti stabiliti dalla legge per la protezione dell’unità familiare. “
25. Gli articoli 153 a 164 del decreto reale no 1238 del 9 luglio 1939, come in vigore all’epoca della nascita di Maddalena, contemplavano che ogni domanda di cambiamento di nome doveva essere indirizzata al presidente della Repubblica, esporre le ragioni che la giustificano ed essere pubblicata alla gazzetta ufficiale. In materia, il presidente della Repubblica esercitava un potere discrezionale.
26. Dopo la nascita di Maddalena è entrata in vigore presidenziale no 396 il decreto del 3 novembre 2000. Il suo articolo 84, intitolato “cambiamento del cognome”, si legge come segue:
“Chiunque desideri cambiare il cognome o aggiungere al suo un altro cognome deve fare la domanda al ministero dell’interno esponendo le ragioni che la giustificano. “
IN DIRITTO
I. SULLA VIOLAZIONE PRESUNTA DELL’ARTICOLO 8 DELLA CONVENZIONE, SOLO O LETTO IN CONGIUNZIONE CON L’ARTICOLO 14
27. I richiedenti si lamentano del rifiuto delle autorità italiane di fare diritto alla loro domanda che tende a ciò che sia assegnato alla loro ragazza il cognome di sua madre e per il fatto che la legislazione italiana, come interpretata all’epoca dei fatti, imponeva l’attribuzione automatica e senza eccezione del nome del padre ai “bambini legittimi.” Considerano che la legge avrebbe dovuto permettere ai genitori di scegliere il cognome dei loro bambini ed invocano l’articolo 8 della Convenzione, solo o letto in congiunzione con l’articolo 14.
Queste disposizioni sono formulate così:
Articolo 8
“1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.
2. Non può esserci ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di questo diritto se non per quanto questa ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, sia necessaria alla sicurezza nazionale, alla sicurezza pubblica, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine ed alla prevenzione delle violazioni penali, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e libertà altrui. “
Articolo 14
“Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione deve essere garantito, senza distinzione nessuna, fondata in particolare sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche od ogni altra opinione, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, la fortuna, la nascita od ogni altra situazione. “
28. Il Governo combatte questa tesi.
A. Sull’ammissibilità
1. L’eccezione del Governo derivato della perdita della qualità di “vittime” dei richiedenti
29. Il Governo afferma innanzitutto che la richiesta è “oggi inammissibile e male fondato”, facendo valere che i richiedenti sono stati autorizzati dal prefetto di Milano ad aggiungere, per tutti i loro bambini minorenne, il cognome della madre, Cusan, al cognome del padre, Fazzo-paragrafo 22 sopra.
30. I richiedenti non stimano avere perso il loro requisito di vittime. Secondo essi, l’autorizzazione di aggiungere il nome della madre al nome del padre non era una misura sufficiente, perché non c’è stata riconoscenza, anche implicito, di una violazione della Convenzione e lei non ha permesso di assegnare a Maddalena il nome “Cusan” fin dalla sua nascita. Di più, precisano, nessuno indennizzo è stato accordato loro per il periodo anteriore alla decisione del prefetto.
31. La Corte ricorda che una decisione o una misura favorevole al richiedente non basta in principio a togliere egli la qualità di “vittima” che se le autorità nazionali hanno riconosciuto, esplicitamente o in sostanza, riparato la violazione della Convenzione poi (vedere, per esempio, Eckle c. Germania, 15 luglio 1982, § 69, serie Ha no 51; Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 36, Raccolta delle sentenze e decisioni 1996-III; Dalban c. Romania [GC], no 28114/95, § 44, CEDH 1999-VI; Jensen c. Danimarca, déc.), no 48470/99, CEDH 2001-X; e Torreggiani ed altri c. Italia, nostri 57875/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10, § 38, 8 gennaio 2013,.
32. Nello specifico, i richiedenti si lamentano di non avere potuto fare assegnare alla loro ragazza, fin dalla sua nascita, il cognome di sua madre. Le autorità italiane non hanno accettato di iscrivere Maddalena nei registri di stato civile col cognome del richiedente, e si sono limitate ad autorizzare, circa tredici anni più tardi, un cambiamento di nome basandosi sull’articolo 84 del decreto presidenziale no 396 del 2000, paragrafi 22 e 26 sopra. Questo cambiamento non è consistito nell’attribuzione del solo cognome della madre, come i richiedenti lo desideravano, paragrafo 23 sopra, ma in una semplice aggiunta del nome della madre a quello del padre.
33. In queste circostanze, l’eccezione del Governo derivato della perdita coi richiedenti del loro requisito di vittime non può essere considerata.
2. L’eccezione del Governo derivato dalla mancanza di danno importante
34. Il Governo afferma anche, nell’ultimo paragrafo delle sue osservazioni, che “i richiedenti non hanno subito nessuno danno importante al senso dell’articolo 35 § 3 b,” della Convenzione.
35. I richiedenti stimano che questa eccezione non è supportata. Ad ogni modo, anche se non hanno subito nessuna perdita finanziaria, stimano avere subito un attentato ad uno dei loro diritti fondamentali, a sapere il diritto al nome che rileva della nozione di “vita privata” al senso dell’articolo 8 della Convenzione, ed una discriminazione basata sul sesso. Di più, secondo essi, la richiesta solleva delle questioni di carattere generale non ancora risolute con la Corte e suscettibili di interessare ogni persona che si trova in una situazione comparabile alla loro.
36. La Corte ricorda che, secondo la sua giurisprudenza, il principale elemento del criterio di ammissibilità contemplata 35 § all’articolo 2 b, della Convenzione è la questione di sapere se il richiedente non ha subito nessuno “danno importante”, Adrian Mihai Ionescu c. Romania, déc.), no 36659/04, § 32, 1 giugno 2010. La nozione di “danno importante”, conclusione del principio di minimis no pulisse praetor, rinvia all’idea che la violazione di un diritto deve raggiungere una soglia minima di gravità per giustificare un esame con una giurisdizione internazionale. La valutazione di questa soglia è, con natura, relativa e dipende delle circostanze dello specifico, Korolev c. Russia, déc.), no 25551/05, CEDH 2010. Questa valutazione deve tenere conto tanto la percezione soggettiva del richiedente che la posta obiettiva della controversia. Rinvia così ai criteri come l’impatto monetario della questione controversa o la posta della causa per il richiedente, Adrian Mihai Ionescu, decisione precitata, § 34.
37. La Corte osserva che la causa non sembra comprendere di posta finanziaria. Tuttavia, l’importanza soggettiva della questione sembra evidente per i richiedenti (vedere, ha contrario, Shefer c. Russia, déc.), no 45175/04, 13 marzo 2012. Questi ultimi hanno introdotto un ricorso contro la decisione che nega di assegnare a Maddalena il cognome di sua madre difatti e hanno inseguito fino alla fine il procedimento (vedere, mutatis mutandis, Eone c. Francia, no 26118/10, § 34, 14 marzo 2013.
38. Tenuto conto di ciò che precede, la Corte stima che la prima condizione dell’articolo 35 § 3 b, della Convenzione, a sapere la mancanza di danno importante per i richiedenti, non è assolta. Pertanto, c’è luogo di respingere l’eccezione del Governo.
39. La Corte tiene al surplus a precisare che il perseguimento dell’esame della causa si imporsi anche al nome del rispetto dei diritti dell’uomo (vedere, mutatis mutandis, Nicoleta Gheorghe c. Romania, no 23470/05, § 24, 3 aprile 2012, ed Eone, precitata, § 35. A questo riguardo, rileva che la richiesta portata dinnanzi alla Corte coi richiedenti solleva in particolare la questione dell’impossibilità, per una coppia sposata, di assegnare ai suoi bambini, alla loro nascita, il cognome della madre. Si tratta della prima causa di questo tipo che la Corte è chiamata ad esaminare in ciò che riguarda l’Italia ed una decisione della Corte su questa questione di principio guiderebbe le giurisdizioni nazionali. La questione è stata peraltro oggetto dei diversi progetti di legge, paragrafi 13 e 19 sopra, e, come sottolineato dal Governo sé, paragrafo 50 qui di seguito, la Corte costituzionale ha concluso che un intervento del legislatore era necessario.
3. Altri motivi di inammissibilità
40. La Corte constata che il presente motivo di appello non è manifestamente male fondato al senso dell’articolo 35 § 3 ha, della Convenzione. Rileva peraltro che non cozza contro nessuno altro motivo di inammissibilità. Conviene dichiararlo ammissibile dunque.
B. Sul merito
1. Argomenti delle parti
a) I richiedenti
41. I richiedenti stimano che nelle società moderne, l’unità della famiglia non saprebbe dipendere dalla trasmissione del nome del padre, e che la protezione degli interessi del bambino non saprebbe giustificare di più la discriminazione in causa. Sottolineano che c’è stato un trattamento differenziato di persone collocate nelle situazioni comparabili, a sapere il marito e la moglie, perché il nome del padre era imposto ai “bambini legittimi.” Questa discriminazione era ai loro occhi chiaramente fondati sul sesso.
42. I richiedenti non contestano che, in linea di massima, le disposizioni in materia di determinazione del nome rilevano dell’interesse pubblico, in particolare in ciò che riguarda la protezione dell’unità della famiglia e la possibilità di identificare le persone rispetto alle loro origini. Però, considerano che l’attribuzione automatica ed obbligatoria del nome del padre non inseguiva queste fini nello specifico.
43. Per ciò che riguarda l’unità della famiglia, l’attribuzione del nome della madre avrebbe secondo essi avuto lo stesso effetto che l’attribuzione del nome del padre, perché Maddalena sarebbe stata identificata solamente col nome di uno dei suoi genitori. Di più, il richiedente ha utilizzato costantemente il suo nome da ragazza. Maddalena era peraltro la primogenita della famiglia ed i richiedenti hanno chiesto anche l’attribuzione del nome “Cusan” per i loro due altri bambini, nato in 2001 e 2003. Alla luce di ciò che precede, i richiedenti stimano che il solo scopo della misura contestata era quello di proteggere una tradizione, secondo una concezione della famiglia nella quale il padre gode di una posizione preferenziale, come la Corte di cassazione l’avrebbe riconosciuto.
44. Ad ogni modo, anche se un scopo legittimo era perseguito, ci sarebbe sproporzione tra questo scopo ed i mezzi impiegati, dato che l’unità della famiglia poteva essere garantita dalle misure meno costrittive, come il semplice obbligo di assegnare lo stesso nome a tutti i bambini di una coppia sposata.
45. In quanto all’argomento del Governo, paragrafo 51 qui di seguito secondo che l’attribuzione del nome della madre avrebbe portato danno a Maddalena, i richiedenti non vedono perché questa circostanza avrebbe dovuto privare il richiedente dei suoi diritti parentali. A supporre anche che tale fosse potuto essere il caso, uguale conseguenza avrebbe secondo essi estate manifestamente contraria alla Convenzione.
46. I richiedenti sottolineano anche che se la Corte dovesse concludere alla violazione dell’articolo 14 della Convenzione, sarebbe opportuno esaminare anche isolatamente la richiesta sotto l’angolo dell’articolo 8 preso, poiché ai termini di questo ogni ingerenza nella tenuta del diritto al rispetto della vita privata e familiare deve “essere prevista dalla legge.” Ora, le giurisdizioni interne hanno secondo essi riconosciuto che l’attribuzione del nome del padre non si basava su nessuna norma scritta. Secondo la corte di appello, si trattava di un costume. La Corte di cassazione ha, lei, respinta questa opinione, e stimato che la regola si liberava di una considerazione globale di parecchie disposizioni del sistema giuridico italiano. I richiedenti non dividono questo ultimo parere e considerano che nella mancanza di una regola scritta preciso, si trattava bene di una regola di natura abituale, che i giudici interni avrebbero dovuto negare di applicare dal momento che era contraria ai principi costituzionali dell’uguaglianza dei sessi e degli sposi. Di più, anche se ha aderito implicitamente al refondation operato dalla Corte di cassazione ed anche se non ha proceduto formalmente al suo annullamento, la Corte costituzionale ha detto chiaramente che la regola in questione era contraria alla Costituzione, ciò che renderebbe secondo essi dubbia la sua validità come base legale che giustifica un’ingerenza nei diritti fondamentali dell’individuo.
47. I richiedenti ne deducono che l’ingerenza denunciata non “era prevista dalla legge” al senso dell’articolo 8 della Convenzione, perché mancava una disposizione scritta chiara e prevedibile, siccome dimostralo la varietà degli approcci seguiti dalle giurisdizioni interne.
48. Inoltre, e per le ragioni esposte l’ingerenza non inseguirebbe ad ogni modo, sopra, un scopo legittimo e non sarebbe necessario in una società democratica.
b) Il Governo,
49. Il Governo espone che la domanda dei richiedenti che mirano a ciò che sia assegnato esclusivamente alla loro ragazza minorenne il nome di sua madre non è stata respinta che perché le autorità civili che sono intervenute non avevano cognizione del decreto presidenziale no 396 del 3 novembre 2000-che contempla nel suo articolo 84 che ogni persona ha la possibilità di ottenere un cambiamento di nome o di cognome per i motivi giustificati, paragrafo 26 sopra. I richiedenti avrebbero peraltro secondo lui potuto indirizzare direttamente una tale domanda al prefetto, al posto di investire le giurisdizioni civili.
50. Il Governo stima che la Corte di cassazione e la Corte costituzionale hanno esaminato attentamente le affermazioni dei richiedenti, ed osserva che la Corte costituzionale ha concluso che un intervento del legislatore era necessario. Del resto, fa valere che la possibilità di sostituire o di completare il nome era stato introdotto già dal decreto presidenziale no 396 del 2000. Questa modifica legislativa era, spiega, intervenuta in ragione di decisioni giudiziali interni che poggiano si riferite ai principi fondamentali dell’ordine comunitario nel caso di persone che hanno una doppia nazionalità; il Consiglio di stato aveva autorizzato anche la sostituzione del nome del padre con quello della madre per le ragioni di riconoscenza verso il nonno materno. Ciò che fa, l’Italia ha secondo lui tenuto conto dell’evoluzione della società reale e della protezione dei diritti dell’uomo in questa tenuta così delicata che è quello della famiglia. Il Governo ne deduce che non c’è stata ingerenza nella vita privata e familiare dei richiedenti che avevano a loro disposizione un ricorso effettivo dinnanzi al prefetto.
51. Ad ogni modo, il procedimento di cambiamento di nome deve secondo la Governo casalinga un giusto equilibro tra, da una parte, l’interesse pubblico della determinazione dello stato civile degli individui e, altro parte, il diritto all’identità personale, in quanto diritto fondamentale protetto col CC. Questo equilibrio sarebbe garantito ai suoi occhi con le disposizioni del decreto presidenziale no 396 del 2000. Se il cognome del padre era stato sostituito da quello della madre, precisa il Governo, ci sarebbero stati tra i richiedenti una discriminazione contraria all’articolo 14 della Convenzione. Una conseguenza ne sarebbe stato il mancato riconoscimento di Maddalena con suo padre, e la responsabilità lei concernente avrebbe pesato allora unicamente sul richiedente. Il Governo insiste a questo riguardo sulla necessità per i bambini di avere un’identità personale ed una situazione giuridica sicura e verificabile.
52. Secondo il Governo, il principio di non discriminazione deve essere applicato anche bene orizzontalmente che verticalmente, cioè tra gli sposi ed al riguardo dei bambini per garantire il godimento dei diritti e libertà a tutte le persone riguardate: mancanza per i richiedenti di avere potuto dare delle giustificazioni obiettive e ragionevoli alla loro domanda di sostituzione di nome, ci fare diritto avrebbe provocato una discriminazione fondata sul sesso tra gli sposi, così che l’articolo 14 sarebbe stato violato allora.
2. Valutazione della Corte
53. La Corte stima che il motivo di appello dei richiedenti si presta ad essere esaminato innanzitutto sotto l’angolo dell’articolo 14 della Convenzione, composto con l’articolo 8.
a) Sull’applicabilità dell’articolo 14 della Convenzione combinata con l’articolo 8
54. Come la Corte l’ha dichiarato costantemente, l’articolo 14 della Convenzione completa le altre clausole normative della Convenzione e dei suoi Protocolli. Non ha esistenza indipendente, poiché vale unicamente per “il godimento dei diritti e libertà” che garantiscono. Certo, pụ entrare in gioco stesso senza una trasgressione ha le ̀loro esigenze e, in questa misura, possiede una portata autonoma, ma non saprebbe trovare ha applicarsi se i fatti della controversia non cadono almeno sotto l’impero di una di suddette clausole (vedere, tra molto altri, Van Raalte c. Paesi Bassi, 21 febbraio 1997, § 33, Raccolta 1997-I; Petrovic c. Austria, 27 marzo 1998, § 22, Raccolta 1998-II; e Zarb Adami c. Malta, no 17209/02, § 42, CEDH 2006-VIII.
55. La Corte ricorda che l’articolo 8 della Convenzione non contiene di disposizione esplicita in materia di nome, ma che in quanto mezzo determinante di identificazione personale, Johansson c. Finlandia, no 10163/02, § 37, 6 settembre 2007, e Daróczy c. Ungheria, no 44378/05, § 26, 1 luglio 2008, e di ricongiungimento ad una famiglia, il nome di una persona non ne riguarda meno la vita privata e familiare di questa. Che lo stato e la società abbiano interesse a regolamentare ne l’uso non basta per escludere la questione del nome delle persone della tenuta della vita privata e familiare, concepita come inglobando, in una certa misura, il diritto per l’individuo di annodare delle relazioni coi suoi simili (Burghartz, precitata, § 24; Stjerna, precitata, § 37; Ünal Tekeli, precitata, § 42, CEDH 2004-X; Losonci Rose e Rosa c. Svizzera, no 664/06, § 26, 9 novembre 2010; Garnaga c. Ucraina, no 20390/07, § 36, 16 maggio 2013.
56. Nello specifico, i richiedenti, in quanto genitori di Maddalena, erano titolari di un interesse chiaro e ricollegandosi ad un diritto rigorosamente personale ad intervenire nel processo di determinazione del cognome del loro neonato. Le giurisdizioni interni hanno riconosciuto loro peraltro costantemente locus standi nel procedimento relativo alla contestazione del rifiuto di assegnare a Maddalena il nome di sua madre. Conviene anche ricordare che la Corte ha affermato che la scelta del nome del bambino coi suoi genitori entra nella sfera privata di questi ultimi (vedere, in particolare, Guillot c. Francia, 24 ottobre 1996, § 22, Raccolta 1996-V, e Johansson, precitata, § 28. Ne va parimenti in ciò che riguarda il cognome.
57. L’oggetto della richiesta tra dunque nel campo di applicazione dell’articolo 8 della Convenzione. L’articolo 14 trova quindi ad applicarsi.
b) Sull’osservazione dell’articolo 14 della Convenzione combinata con l’articolo 8
i. Principi generali
58. Nella sua giurisprudenza, la Corte ha stabilito che la discriminazione si intende a causa di trattare in modo differente, senza giustificazione obiettiva e ragionevole, delle persone che si trovano in materia nelle situazioni comparabili, Willis c. Regno Unito, no 36042/97, § 48, CEDH 2002-IV. Ogni differenza di trattamento non porta tuttavia automaticamente violazione di questo articolo. Bisogna stabilire che le persone poste in materia nelle situazioni analoghe o comparabili godano di un trattamento preferenziale, e che questa differenza è discriminatoria, Ünal Tekeli, precitata, § 49, e Losonci Rose e Rosa, precitata, § 71.
59. Una distinzione è discriminatoria al senso dell’articolo 14 se manca di giustificazione obiettiva e ragionevole. L’esistenza di simile giustificazione si rivaluta alla luce dei principi che prevalgono di solito nelle società democratiche. Una differenza di trattamento nell’esercizio di un diritto enunciato dalla Convenzione non deve inseguire solamente un scopo legittimo: l’articolo 14 è violato anche se non c’è “rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo previsto” (vedere, per esempio, Petrovic, precitata, § 30, e Lithgow ed altri c. Regno Unito, 8 luglio 1986, § 177, serie Ha no 102.
60. La nozione di discriminazione ingloba in altri termini, di solito i casi in che un individuo o un gruppo si vedono, senza giustificazione adeguata, meno bene trattato che un altro, anche se la Convenzione non richiede il trattamento più favorevole (Abdulaziz, Cabale e Balkandali c. Regno Unito, 28 maggio 1985, § 82, serie Ha no 94. Difatti, l’articolo 14 non impedisce una differenza di trattamento se si fonda su una valutazione obiettiva di circostanze di fatto essenzialmente differente e se, ispirandosi all’interesse pubblico, predispone un giusto equilibro tra le salvaguardie degli interessi della comunità ed il rispetto dei diritti e libertà garantite dalla Convenzione (vedere, tra altri, G.M.B. e K.M. c. Svizzera, déc.), no 36797/97, 27 settembre 2001, e Zarb Adami, precitata, § 73.
61. Gli Stati contraenti godono di un certo margine di valutazione per determinare se e delle differenze giustificano in quale misura delle differenze tra le situazioni ad altri riguardi analoghi di trattamento giuridico, Gaygusuz c. Austria, 16 settembre 1996, § 42, Raccolta 1996-IV. La sua superficie varia secondo le circostanze, le tenute ed il contesto, Rasmussen c. Danimarca, 28 novembre 1984, § 40, serie Ha no 87, ed Inze c. Austria, 28 ottobre 1987, § 41, serie Ha no 126, ma la decisione finale in quanto all’osservazione delle esigenze poste dalla Convenzione appartiene alla Corte. La Convenzione che è innanzitutto un meccanismo di protezione dei diritti dell’uomo, la Corte deve tenere conto dell’evoluzione della situazione nello stato convenuto e negli Stati contraenti in generale e reagire, per esempio, al consenso suscettibile di apparire in quanto alle norme a raggiungere, Ünal Tekeli, precitata, § 54; Zarb Adami, precitata, § 74; e Losonci Rose e Rosa, precitata, § 74.
ii. Sul punto di sapere se c’è stata differenza di trattamento tra le persone che si trovano in situazioni simili
62. Secondo la lettura del diritto interno operato dalla Corte di cassazione, paragrafo 16 sopra, la regola secondo la quale i “bambini legittimi” si vedono assegnare alla nascita il nome del padre si libera, con un’interpretazione adeguata, della combinazione di un certo numero di articoli del codice civile. La legislazione interna non contempla nessuna eccezione a questa regola. È vero, come sottoline il Governo, paragrafi 49-51 sopra, che l’articolo 84 del decreto presidenziale no 396 del 2000 contempla la possibilità di un cambiamento di nome, e che nello specifico il prefetto di Milano ha autorizzato i richiedenti a completare il nome di Maddalena con l’aggiunta di un altro nome, quello di sua madre-paragrafo 22 sopra. Però, bisogna distinguere la determinazione del nome alla nascita della possibilità di cambiare nome durante la vita. A questo riguardo, la Corte rinvia alle considerazioni che ha esposto nella cornice dell’eccezione del Governo derivato della perdita coi richiedenti della qualità di vittime, paragrafo 32 sopra.
63. Alla luce di ciò che precede, la Corte è di parere che nella cornice della determinazione del cognome ad assegnare al loro “bambino legittimo”, delle persone che si trovano rispettivamente nelle situazioni simili, a sapere uno e l’altro dei richiedenti, padre e madre del bambino, è stata trattata in modo differente. Difatti, alla differenza del padre, la madre non ha potuto ottenere l’attribuzione del suo cognome al neonato, e questo in dispetto dell’accordo di suo sposo.
iii. Sul punto di sapere se esistesse una giustificazione obiettiva e ragionevole
64. La Corte ricorda che se una politica o una misura generale hanno degli effetti pregiudizievoli sproporzionati su un gruppo di persone, la possibilità che sia considerata come discriminatoria non può essere esclusa anche se non prevede specificamente questo gruppo, McShane c. Regno Unito, no 43290/98, § 135, 28 maggio 2002. Di più, uniche delle considerazioni molto forti possono portare la Corte a stimare esclusivamente compatibile con la Convenzione una differenza di trattamento fondato sul sesso (Willis, precitata, § 39; Schuler-Zgraggen c. Svizzera, 24 giugno 1993, § 67, serie Ha no 263; e Losonci Rose e Rosa, precitata, § 80.
65. La Corte ricorda che ha avuto l’occasione di trattare delle questioni partite simili nei cause Burghartz, Ünal Tekeli e Losonci Rose e Rosa, precitate. La prima riguardava il rifiuto opposto ad una domanda del marito che desiderava fare precedere il cognome, nell’occorrenza quello di sua sposa, del suo proprio. La seconda aveva per oggetto la regolo di dritto turco secondo la quale la moglie sposata non può portare esclusivamente il suo nome da ragazza dopo il matrimonio, mentre l’uomo sposato tiene il suo cognome come era prima del matrimonio. Il causa Losonci Rose e Rosa cadevano sulla necessità, in diritto svizzero, di sottoporre una domanda comune alle autorità per gli sposi che desiderano prendere tutti due il nome della moglie, il nome del marito essendo assegnatoloro diversamente con difetto come nuovo cognome dopo il matrimonio.
66. In tutte queste cause, la Corte ha concluso alla violazione dell’articolo 14 della Convenzione, composto con l’articolo 8. Ha ricordato in particolare l’importanza di un’espansione verso l’uguaglianza dei sessi e dell’eliminazione di ogni discriminazione fondata sul sesso nella scelta del cognome. Ha stimato inoltre che la tradizione di esprimere l’unità della famiglia attraverso l’attribuzione a tutti i suoi membri del nome dello sposo non poteva giustificare una discriminazione verso le mogli (vedere, in particolare, Ünal Tekeli, precitata, §§ 64-65.
67. La Corte può giungere solamente ai conclusioni analoghi nella presente causa, dove la determinazione del cognome dei “bambini legittimi” si è fatta unicamente sulla base di una discriminazione fondata sul sesso dei genitori. La regola in causa vuole difatti che il nome assegnato sia, senza eccezione, quello del padre, nonostante ogni volontà differente comune agli sposi. Peraltro, la Corte costituzionale italiana lei stessa ha riconosciuto che il sistema procede in vigore di una concezione patriarcale della famiglia e dei poteri del marito che non è più compatibile col principio costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e mogli, paragrafo 17 sopra. La Corte di cassazione l’ha confermato, paragrafo 20 sopra. Se la regola che vuole che il nome del marito sia assegnato ai “bambini legittimi” può rivelarsi necessario in pratica e non può essere necessariamente in contraddizione con la Convenzione (vedere, mutatis mutandis, Losonci Rose e Rosa, precitata, § 49, l’impossibilità di derogare all’epoca dell’iscrizione dei neonati nei registri di stato civile è eccessivamente rigida e discriminatorio verso le mogli.
iv. Conclusione
68. Tenuto conto di ciò che precede, la giustificazione avanzata dal Governo non sembra ragionevole e la differenza di trattamento constatato si rivela così discriminatoria al senso dell’articolo 14 della Convenzione. C’è stata dunque violazione dell’articolo 14 composto con l’articolo 8 della Convenzione.
69. Avuto riguardo a questa conclusione, la Corte non giudica necessaria di ricercare se c’è stata anche isolatamente violazione dell’articolo 8 preso (Burghartz, precitata, § 30, e Ünal Tekeli, precitata, § 69.
II. SULLA VIOLAZIONE ADDOTTA DELL’ARTICOLO 5 DEL PROTOCOLLO NO 7, SOLO O LETTO IN CONGIUNZIONE CON L’ARTICOLO 14 DELLA CONVENZIONE
70. I richiedenti considerano che le disposizioni legali in vigore in materia di determinazione del nome dei “bambini legittimi” non garantiscono l’uguaglianza tra gli sposi, e che l’Italia avrebbe dovuto contemplare la possibilità di assegnare il nome della madre in caso di consenso dei genitori su questo punto.
Invocano l’articolo 5 del Protocollo no 7, solo o letto in congiunzione con l’articolo 14 della Convenzione.
L’articolo 5 precitata si legge così:
“Gli sposi godono dell’uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra loro e nelle loro relazioni coi loro bambini allo sguardo del matrimonio, durante il matrimonio ed all’epoca del suo scioglimento. Il presente articolo non impedisce gli Stati di prendere le misure necessarie nell’interesse dei bambini. “
71. Il Governo combatte questa tesi.
72. La Corte rileva che questo motivo di appello è legato a quell’esaminato sopra e deve essere dichiarato dunque anche ammissibile.
73. Avuto riguardo alla conclusione alla quale è giunta sotto l’angolo dell’articolo 14 composto con l’articolo 8 della Convenzione, la Corte non giudica necessaria di ricercare se c’è stata anche violazione dell’articolo 14 composto con l’articolo 5 del Protocollo no 7, o di questa ultima disposizione preso isolatamente.
III. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
74. Ai termini dell’articolo 41 della Convenzione,
“Se la Corte dichiara che c’è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente permette di cancellare solo imperfettamente le conseguenze di questa violazione, la Corte accorda alla parte lesa, se c’è luogo, una soddisfazione equa. “
75. I richiedenti precisano che non chiedono nessuna somma a titolo del danno che avrebbero subito o per gli oneri e spese impegnate dinnanzi alle giurisdizioni interne e la Corte, la semplice constatazione di una violazione che costituisce ai loro occhi, nelle circostanze particolari dello specifico, una soddisfazione equa sufficiente. Pertanto, la Corte stima che non c’è luogo di pronunciarsi sull’applicazione dell’articolo 41 della Convenzione.
IV. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 46 DELLA CONVENZIONE
76. Ai termini dell’articolo 46 della Convenzione,
“1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie ai quali sono partite.
2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione.
(…). “
77. I richiedenti fanno osservare che le violazioni che hanno denunciato risultano da una lacuna nel diritto interno. Malgrado i cambiamenti introdotti nel 2000, questo ultimo impone sempre di assegnare ai “bambini legittimi” il nome del padre. La sostituzione di questo nome non può avere luogo che per le ragioni imperiose e rileva del potere discrezionale del prefetto. I richiedenti chiedono quindi alla Corte di invitare il Governo ad introdurre, in materia, le riforme legislative necessarie per garantire l’uguaglianza tra i sessi e tra gli sposi.
78. Il Governo si mostra oppositore. Fa valere che la legislazione è in vigore lo strumento giuridico che ha permesso loro di fare aggiungere per i loro bambini il cognome della madre al cognome del padre, e dunque secondo lui di ottenere soddisfazione al livello interno. Pertanto, i richiedenti non potrebbero secondo chiedere egli alla Corte di costringere lo stato convenuto a modificarla.
79. La Corte ricorda che, ai termini dell’articolo 46, le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive rese dalla Corte nelle controversie ai quali sono partite, il Comitato dei Ministri essendo incaricato di sorvegliare l’esecuzione di queste sentenze. Ne deriva in particolare che, quando la Corte conclude all’esistenza di una violazione, lo stato convenuto ha l’obbligo giuridico di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali et/ou, all’occorrenza, individuali ad integrare nel suo ordine giuridico interna per mettere un termine alla violazione constatata e di cancellare ne per quanto possibile le conseguenze (vedere, entra altri, Xenides-Arestis c. Turchia, no 46347/99, §§ 39-40, 22 dicembre 2005; Scordino c. Italia (no 1) [GC], no 36813/97, § 233, CEDH 2006-V; Broniowski c. Polonia [GC], no 31443/96, § 192, CEDH 2004-V; Bottazzi c. Italia [GC], no 34884/97, § 22, CEDH 1999-V; e Di Mauro c. Italia [GC], no 34256/96, § 23, CEDH 1999-V. Lo stato deve prendere anche queste misure nei confronti le altre persone che si trovano nella stessa situazione che l’o i richiedenti, il suo obiettivo dinnanzi ad essere in particolare di decidere i problemi che hanno condotto la Corte alla sua constatazione di violazione, Scozzari e Giunta c. Italia [GC], i nostri 39221/98 e 41963/98, § 249, CEDH 2000-VIII; Christine Goodwin c. Regno Unito [GC], no 28957/95, § 120, CEDH 2002-VI; Lukenda c. Slovenia, no 23032/02, § 94, CEDH 2005-X; e S. e Marper c. Regno Unito [GC], i nostri 30562/04 e 30566/04, § 134, CEDH 2008. Nella cornice dell’esecuzione delle sentenze della Corte, il Comitato dei Ministri sottolinea senza tregua questo obbligo, Bourdov c. Russia (no 2), no 33509/04, § 125, CEDH 2009; vedere, in particolare ed entri altri, i risoluzioni ResDH(97)336, IntResDH(99)434, IntResDH(2001)65 e ResDH(2006)1.
80. In principio, non appartiene alla Corte di definire quale possono essere le misure di correzione adeguate da parte dello stato convenuto per liberarsi dai suoi obblighi allo sguardo dell’articolo 46 della Convenzione. Però, quando una disfunzione è stata scoperta nel sistema nazionale di protezione dei diritti dell’uomo, la Corte ha la preoccupazione di facilitare ne la soppressione veloce ed effettiva, Driza c. Albania, no 33771/02, § 125, CEDH 2007-XII, e Vyerentsov c. Ucraina, no 20372/11, § 94, 11 aprile 2013.
81. Nella presente causa, la Corte ha concluso alla violazione dell’articolo 14 della Convenzione, composto con l’articolo 8, in ragione dell’impossibilità per i richiedenti, all’epoca della nascita della loro ragazza, di fare iscrivere questa nei registri di stato civile con come cognome quello di sua madre. Questa impossibilità derivava di un mancamento del sistema giuridico italiano secondo che tutto “bambino legittimo” è iscritto nei registri di stato civile con come cognome quello del padre, senza possibilità di derogazione stessa in caso di consenso tra gli sposi in favore del nome della madre. Quando ha constatato l’esistenza di un mancamento nella legislazione interna, la Corte ha avuto per abitudine di identificare ne la sorgente per aiutare lo stato contraente a trovare la soluzione appropriata ed il Comitato dei Ministri a sorvegliare l’esecuzione del giudizio (vedere, per esempio, Maria Violeta Lăzărescu c. Romania, no 10636/06, § 27, 23 febbraio 2010; Driza, precitata, §§ 122-126; e Ürper ed altri c. Turchia, nostri 14526/07 ed altri, §§ 51 e 52, 20 ottobre 2009. Tenuto conto della situazione constatata sopra, la Corte stima che le riforme nel legislazione et/ou lei pratico italiane dovrebbero essere adottate per rendere questa legislazione e questa pratica compatibile coi conclusioni alle quali è giunta nella presente sentenza, e di garantire il rispetto delle esigenze degli articoli 8 e 14 della Convenzione (vedere, mutatis mutandis, Vyerentsov, precitata, § 95.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE,
1. Dichiara, alla maggioranza, la richiesta ammissibile,;

2. Stabilisce, per 6 voci contro 1, che c’è stata violazione dell’articolo 14 composto con l’articolo 8 della Convenzione;

3. Stabilisce, all’unanimità, che non c’è luogo di esaminare il motivo di appello tratto dall’articolo 8 preso isolamento ed il motivo di appello derivato dell’articolo 5 del Protocollo no 7, solo o combinato con l’articolo 14 della Convenzione.
Fatto in francese, poi comunicato per iscritto il 7 gennaio 2014, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 dell’ordinamento.
Stanley Naismith Işıl Karakaş
Cancelliere Presidentessa
Alla presente sentenza si trova unito, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 dell’ordinamento, l’esposizione dell’opinione si separata dal giudice Popović.
A.I.K.
S.H.N.

OPINIONE DISSIDENTE DEL GIUDICE POPOVIÆ
Mi dispiace di non potere radunarmi alla maggioranza in questa causa. Difatti, l’eccezione del governo convenuto alla quale la sentenza fatta riferimento al paragrafo 34 è giustificata a mio avviso. Il governo italiano ha affermato che i richiedenti non avevano subito nessuno danno importante al senso dell’articolo 35 § 3 b, della Convenzione. Ora i richiedenti loro stessi non hanno preteso avere subito un danno pecuniario. Si lamentavano di non potere assegnare alla loro ragazza il cognome della madre. Tuttavia, risulta della lettura del paragrafo 22 della sentenza che il prefetto di Milano aveva autorizzato i richiedenti a cambiare il nome i loro bambini secondo i loro desideri.
I fatti la causa, che ho appena riassunto, mi portano a concludere: 1, che i richiedenti non hanno subito nessuno danno importante e 2 che anche se ne avevano subito uno, avrebbero perso la qualità di vittima. Questa ultima constatazione conduce inevitabilmente all’ammissibilità della prima eccezione sollevata dal governo convenuto al paragrafo 29 della sentenza.
Il nocciolo della causa, come è presentata dinnanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, rivelati astratto dunque e da’ l’impressione che la richiesta rappresenta solamente un tipo di actio popularis di cui i richiedenti non possono investire la nostra Corte.
Tengo a sottolineare che il problema in questa causa tocca essenzialmente al margine di valutazione degli Stati membri della Convenzione. Cade sulla tradizione di ogni paese e la pratica messa in causa non dovrebbe essere sottoposta ad armonizzazione al livello europeo. Per citare solamente un solo esempio, del resto bene conosciuto, in Spagna, le persone dei due sessi portano parecchi nomi che provengono dei due lati della famiglia. Bisognerebbe dire allo stato spagnolo di cambiare la pratica? E per quale ragione? La maggioranza in questa causa sembra trasformare la percezione chiara di un fenomeno sociale, ciò che è estero alla protezione dei diritti dell’uomo.
Per tutte queste ragioni, stimo che la richiesta sarebbe dovuta essere dichiarata inammissibile in applicazione dell’articolo 35 della Convenzione.

Testo Tradotto

Conclusions: Violation de l’article 14+8 – Interdiction de la discrimination (Article 14 – Discrimination) (Article 8 – Droit au respect de la vie privée et familiale Article 8-1 – Respect de la vie privée)
Etat défendeur tenu de prendre des mesures générales (Article 46-2 -Mesures générales)

DEUXIÈME SECTION

AFFAIRE CUSAN ET FAZZO c. ITALIE

(Requête no 77/07)

ARRÊT

STRASBOURG

7 janvier 2014

Cet arrêt deviendra définitif dans les conditions définies à l’article 44 § 2 de la Convention. Il peut subir des retouches de forme.

En l’affaire Cusan et Fazzo c. Italie,
La Cour européenne des droits de l’homme (deuxième section), siégeant en une chambre composée de :
Işıl Karakaş, présidente,
Guido Raimondi,
Peer Lorenzen,
Dragoljub Popović,
András Sajó,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller, juges,
et de Stanley Naismith, greffier de section,
Après en avoir délibéré en chambre du conseil le 26 novembre 2013,
Rend l’arrêt que voici, adopté à cette date :
PROCÉDURE
1. A l’origine de l’affaire se trouve une requête (no 77/07) dirigée contre la République italienne et dont deux ressortissants de cet État, OMISSIS (« les requérants »), ont saisi la Cour le 13 décembre 2006 en vertu de l’article 34 de la Convention de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentales (« la Convention »).
2. Le gouvernement italien (« le Gouvernement ») a été représenté par son agente, Mme E. Spatafora.
3. Les requérants se plaignent du refus des autorités italiennes de faire droit à leur demande tendant à ce que leur fille se voie attribuer le nom de famille de sa mère.
4. Le 7 février 2013, la requête a été communiquée au Gouvernement. Comme le permet l’article 29 § 1 de la Convention, il a en outre été décidé que la chambre se prononcerait en même temps sur la recevabilité et sur le fond.
EN FAIT
I. LES CIRCONSTANCES DE L’ESPÈCE
5. Les requérants sont nés respectivement en 1964 et en 1958 et résident à Milan.
6. Les requérants sont un couple marié. Le 26 avril 1999 naquit leur premier enfant, une fille, Maddalena.
7. Le requérant présenta à l’officier d’état civil une demande tendant à ce que sa fille soit inscrite dans les registres d’état civil avec comme nom de famille celui de sa mère (Cusan). Cette demande fut rejetée et Maddalena fut inscrite avec le nom de son père (Fazzo).
8. En juin 2000, les requérants introduisirent devant le tribunal de Milan un recours contre cette décision. Ils faisaient valoir qu’ils s’accordaient à vouloir inscrire Maddalena avec le nom de sa mère et qu’aucune disposition du droit italien ne s’y opposait.
9. Par un jugement du 6 juin 2001, dont le texte fut déposé au greffe le 8 juin 2001, le tribunal de Milan rejeta le recours des requérants.
10. Dans ses motifs, le tribunal observa que même si aucune disposition légale n’imposait d’inscrire un enfant né d’un couple marié avec le nom de son père, cette règle correspondait à un principe bien enraciné dans la conscience sociale et dans l’histoire italienne. Le tribunal estima par ailleurs superflue la question de l’existence ou non d’une disposition légale explicite. Il releva en effet que selon l’ancien article 144 du code civil (« le CC »), toute femme mariée adoptait le nom du mari, et estima que les enfants ne pouvaient être inscrits qu’avec ce nom ; ce nom était en effet commun aux époux, même si, par la suite, l’article 143 bis du CC avait prévu que le nom du mari puisse être seulement ajouté à la suite de celui de sa femme.
11. Les requérants interjetèrent appel.
12. Par un arrêt du 24 mai 2002, dont le texte fut déposé au greffe le 4 juin 2002, la cour d’appel de Milan confirma le jugement de première instance.
13. Dans ses motifs, la cour d’appel observa que la Cour constitutionnelle avait affirmé à plusieurs reprises (ordonnances nos 176 du 28 janvier 1988 et 586 du 11 mai 1988) que la non-prévision de la possibilité, pour la mère, de transmettre son nom de famille aux « enfants légitimes » ne violait ni l’article 29 (fondation du mariage sur l’égalité morale et juridique des époux) ni l’article 3 (égalité des citoyens devant la loi) de la Constitution. Elle nota que la Cour constitutionnelle avait indiqué qu’il appartenait au législateur de décider de l’opportunité d’introduire un système différent d’attribution du nom de famille, et qu’au moins six projets ou propositions de loi étaient pendants devant le Parlement. Cela démontrait à ses yeux que la règle non écrite d’attribution du nom était encore en vigueur ; la jurisprudence n’en avait par ailleurs pas mis en doute l’existence.
14. Pour la cour d’appel, la non-application de cette règle aurait entraîné des conséquences pour les enfants auxquels serait attribué le nom de la mère, en ce qu’ils auraient pu être pris pour des « enfants non légitimes ».
15. Les requérants se pourvurent en cassation.
16. Par une ordonnance du 26 février 2004, dont le texte fut déposé au greffe le 17 juillet 2004, la Cour de cassation estima que la question incidente de la constitutionnalité de la règle attribuant aux « enfants légitimes » le nom du père était pertinente et n’était pas manifestement infondée ; en conséquence, elle suspendit la procédure et ordonna la transmission du dossier à la Cour constitutionnelle.
Dans les motifs de l’ordonnance, la Cour de cassation précisa que la règle en cause n’était pas une règle de droit coutumier, mais se dégageait de l’interprétation de certains articles du CC.
17. Par un arrêt (no 6) du 16 février 2006, la Cour constitutionnelle déclara cette question de constitutionnalité irrecevable.
Dans ses motifs, la Cour constitutionnelle considéra que le système en vigueur résultait d’une conception patriarcale de la famille et des pouvoirs du mari, qui avait ses racines dans le droit romain et n’était plus compatible avec le principe constitutionnel de l’égalité entre homme et femme. Elle releva de plus que l’article 16 § 1 g) de la Convention sur l’élimination de toute forme de discrimination envers la femme (ratifiée par la loi no 132 du 14 mars 1985) engageait les États contractants à adopter toutes les mesures nécessaires pour éliminer la discrimination envers les femmes à propos de toute question relative au mariage ou aux rapports familiaux et, en particulier, à assurer les mêmes droits au mari et à la femme, y compris dans le choix du nom.
18. La Cour constitutionnelle se référa également aux recommandations nos 1271 de 1995 et 1362 de 1998 du Conseil de l’Europe, ainsi qu’à la jurisprudence de la Cour (en l’occurrence Burghartz c. Suisse, 22 février 1994, série A no 280-B ; Stjerna c. Finlande, 25 novembre 1994, série A no 299-B ; et Ünal Tekeli c. Turquie, no 29865/96, CEDH 2004-X).
19. Cependant, la Cour constitutionnelle ne s’estima pas compétente pour procéder à l’intervention souhaitée par la Cour de cassation.
Elle releva en effet que toute une série d’options restaient ouvertes, à savoir : 1o) s’il fallait faire dépendre le choix du nom exclusivement de la volonté des époux ; 2o) s’il fallait permettre aux époux de déroger à la règle ; 3o) si le choix des époux devait avoir lieu une seule fois et valoir pour tous leurs enfants, ou bien si un choix individuel devait être exprimé pour chaque enfant. Elle observa que les projets de loi (nos 1739-S, 1454 S et 3133-S) présentés au cours de la XIVe législature témoignaient de la diversité des solutions pouvant être envisagées, et estima que le choix entre ces solutions ne pouvait être fait que par le législateur. Elle retint également qu’une déclaration d’inconstitutionnalité des dispositions internes pertinentes aurait créé un vide juridique.
20. Par un arrêt du 29 mai 2006, dont le texte fut déposé au greffe le 16 juillet 2006, la Cour de cassation prit acte de la décision de la Cour constitutionnelle et débouta les requérants de leur pourvoi.
Dans ses motifs, elle souligna que la règle dénoncée par les requérants était symptomatique d’une conception patriarcale de la famille et se conciliait difficilement avec les textes internationaux pertinents, mais estima que le soin de mettre en place en la matière un régime juridique compatible avec la Constitution devait revenir au législateur.
21. Le 31 mars 2011, les requérants demandèrent au ministre de l’Intérieur d’être autorisés à faire compléter le nom de leurs « enfants légitimes » par l’adjonction du nom « Cusan ». Ils expliquaient souhaiter leur permettre par ce biais de s’identifier au patrimoine moral de leur grand-père maternel – décédé en 2011, et qui selon leurs dires avait été un philanthrope – ; le frère de la requérante n’ayant pas eu de descendants, le nom « Cusan » ne pouvait se perpétuer, précisaient-ils, qu’en passant aux enfants de Mme Alessandra Cusan.
22. Par un décret du 14 décembre 2012, le préfet de Milan autorisa les requérants à changer le nom de leurs enfants en « Fazzo Cusan ».
23. Les requérants précisent qu’en dépit de cette autorisation, ils souhaitent maintenir leur requête devant la Cour. A cet égard, ils font observer que le décret du Préfet a été émis à l’issue d’une procédure administrative, et non judiciaire, et qu’ils n’ont pas été autorisés à donner à leur enfant uniquement le nom de famille de leur mère, comme ils l’avaient demandé au tribunal de Milan.
II. LE DROIT INTERNE PERTINENT
24. L’article 29 de la Constitution se lit comme suit :
« La République reconnaît les droits de la famille comme société naturelle fondée sur le mariage.
Le mariage est fondé (ordinato) sur l’égalité morale et juridique des époux, dans les limites établies par la loi pour la protection de l’unité familiale. »
25. Les articles 153 à 164 du décret royal no 1238 du 9 juillet 1939, tels qu’en vigueur à l’époque de la naissance de Maddalena, prévoyaient que toute demande de changement de nom devait être adressée au président de la République, exposer les raisons la justifiant et être publiée au journal officiel. En la matière, le président de la République exerçait un pouvoir discrétionnaire.
26. Postérieurement à la naissance de Maddalena est entré en vigueur le décret présidentiel no 396 du 3 novembre 2000. Son article 84, intitulé « changement du nom de famille », se lit comme suit :
« Quiconque souhaite changer le nom de famille ou ajouter au sien un autre nom de famille doit en faire la demande au ministère de l’Intérieur en exposant les raisons qui la justifient. »
EN DROIT
I. SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L’ARTICLE 8 DE LA CONVENTION, SEUL OU LU EN CONJONCTION AVEC L’ARTICLE 14
27. Les requérants se plaignent du refus des autorités italiennes de faire droit à leur demande tendant à ce que soit attribué à leur fille le nom de famille de sa mère et du fait que la législation italienne, telle qu’interprétée à l’époque des faits, imposait l’attribution automatique et sans exception du nom du père aux « enfants légitimes ». Ils considèrent que la loi aurait dû permettre aux parents de choisir le nom de famille de leurs enfants et invoquent l’article 8 de la Convention, seul ou lu en conjonction avec l’article 14.
Ces dispositions sont ainsi libellées :
Article 8
« 1. Toute personne a droit au respect de sa vie privée et familiale, de son domicile et de sa correspondance.
2. Il ne peut y avoir ingérence d’une autorité publique dans l’exercice de ce droit que pour autant que cette ingérence est prévue par la loi et qu’elle constitue une mesure qui, dans une société démocratique, est nécessaire à la sécurité nationale, à la sûreté publique, au bien être économique du pays, à la défense de l’ordre et à la prévention des infractions pénales, à la protection de la santé ou de la morale, ou à la protection des droits et libertés d’autrui. »
Article 14
« La jouissance des droits et libertés reconnus dans la (…) Convention doit être assurée, sans distinction aucune, fondée notamment sur le sexe, la race, la couleur, la langue, la religion, les opinions politiques ou toutes autres opinions, l’origine nationale ou sociale, l’appartenance à une minorité nationale, la fortune, la naissance ou toute autre situation. »
28. Le Gouvernement combat cette thèse.
A. Sur la recevabilité
1. L’exception du Gouvernement tirée de la perte de la qualité de « victimes » des requérants
29. Le Gouvernement affirme tout d’abord que la requête est « aujourd’hui irrecevable et (…) mal fondée », faisant valoir que les requérants ont été autorisés par le préfet de Milan à ajouter, pour tous leurs enfants mineurs, le nom de famille de la mère (Cusan) au nom de famille du père (Fazzo – paragraphe 22 ci-dessus).
30. Les requérants n’estiment pas avoir perdu leur qualité de victimes. Selon eux, l’autorisation d’ajouter le nom de la mère au nom du père n’était pas une mesure suffisante, car il n’y a pas eu reconnaissance, même implicite, d’une violation de la Convention et elle n’a pas permis d’attribuer à Maddalena le nom « Cusan » dès sa naissance. De plus, précisent-ils, aucune indemnisation ne leur a été accordée pour la période antérieure à la décision du préfet.
31. La Cour rappelle qu’une décision ou une mesure favorable au requérant ne suffit en principe à lui retirer la qualité de « victime » que si les autorités nationales ont reconnu, explicitement ou en substance, puis réparé la violation de la Convention (voir, par exemple, Eckle c. Allemagne, 15 juillet 1982, § 69, série A no 51 ; Amuur c. France, 25 juin 1996, § 36, Recueil des arrêts et décisions 1996-III ; Dalban c. Roumanie [GC], no 28114/95, § 44, CEDH 1999-VI ; Jensen c. Danemark (déc.), no 48470/99, CEDH 2001-X ; et Torreggiani et autres c. Italie, nos 57875/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 et 37818/10, § 38, 8 janvier 2013).
32. En l’espèce, les requérants se plaignent de ne pas avoir pu faire attribuer à leur fille, dès sa naissance, le nom de famille de sa mère. Les autorités italiennes n’ont pas accepté d’inscrire Maddalena dans les registres d’état civil avec le nom de famille de la requérante, et se sont bornées à autoriser, environ treize ans plus tard, un changement de nom en se fondant sur l’article 84 du décret présidentiel no 396 de 2000 (paragraphes 22 et 26 ci-dessus). Ce changement n’a pas consisté en l’attribution du seul nom de famille de la mère, comme les requérants le souhaitaient (paragraphe 23 ci dessus), mais en un simple ajout du nom de la mère à celui du père.
33. Dans ces circonstances, l’exception du Gouvernement tirée de la perte par les requérants de leur qualité de victimes ne peut être retenue.
2. L’exception du Gouvernement tirée de l’absence de préjudice important
34. Le Gouvernement affirme également, dans le dernier paragraphe de ses observations, que « les requérants n’ont subi aucun préjudice important au sens de l’article 35 § 3 b) » de la Convention.
35. Les requérants estiment que cette exception n’est pas étayée. En tout état de cause, même s’ils n’ont subi aucune perte financière, ils estiment avoir subi une atteinte à l’un de leurs droits fondamentaux, à savoir le droit au nom, qui relève de la notion de « vie privée » au sens de l’article 8 de la Convention, et une discrimination basée sur le sexe. De plus, selon eux, la requête soulève des questions de caractère général non encore résolues par la Cour et susceptibles d’intéresser toute personne se trouvant dans une situation comparable à la leur.
36. La Cour rappelle que, selon sa jurisprudence, le principal élément du critère de recevabilité prévu à l’article 35 § 2 b) de la Convention est la question de savoir si le requérant n’a subi aucun « préjudice important » (Adrian Mihai Ionescu c. Roumanie (déc.), no 36659/04, § 32, 1er juin 2010). La notion de « préjudice important », issue du principe de minimis non curat praetor, renvoie à l’idée que la violation d’un droit doit atteindre un seuil minimum de gravité pour justifier un examen par une juridiction internationale. L’appréciation de ce seuil est, par nature, relative et dépend des circonstances de l’espèce (Korolev c. Russie (déc.), no 25551/05, CEDH 2010). Cette appréciation doit tenir compte tant de la perception subjective du requérant que de l’enjeu objectif du litige. Elle renvoie ainsi à des critères tels que l’impact monétaire de la question litigieuse ou l’enjeu de l’affaire pour le requérant (Adrian Mihai Ionescu, décision précitée, § 34).
37. La Cour observe que l’affaire ne semble pas comporter d’enjeu financier. Toutefois, l’importance subjective de la question paraît évidente pour les requérants (voir, a contrario, Shefer c. Russie (déc.), no 45175/04, 13 mars 2012). Ces derniers ont en effet introduit un recours contre la décision refusant d’attribuer à Maddalena le nom de famille de sa mère et ont poursuivi la procédure jusqu’au bout (voir, mutatis mutandis, Eon c. France, no 26118/10, § 34, 14 mars 2013).
38. Compte tenu de ce qui précède, la Cour estime que la première condition de l’article 35 § 3 b) de la Convention, à savoir l’absence de préjudice important pour les requérants, n’est pas remplie. Partant, il y a lieu de rejeter l’exception du Gouvernement.
39. La Cour tient au surplus à préciser que la poursuite de l’examen de l’affaire s’impose également au nom du respect des droits de l’homme (voir, mutatis mutandis, Nicoleta Gheorghe c. Roumanie, no 23470/05, § 24, 3 avril 2012, et Eon, précité, § 35). A cet égard, elle relève que la requête portée devant la Cour par les requérants soulève notamment la question de l’impossibilité, pour un couple marié, d’attribuer à ses enfants, à leur naissance, le nom de famille de la mère. Il s’agit de la première affaire de ce type que la Cour est appelée à examiner en ce qui concerne l’Italie et une décision de la Cour sur cette question de principe guiderait les juridictions nationales. La question a par ailleurs fait l’objet de divers projets de loi (paragraphes 13 et 19 ci-dessus), et, comme souligné par le Gouvernement lui-même (paragraphe 50 ci-après), la Cour constitutionnelle a conclu qu’une intervention du législateur était nécessaire.
3. Autres motifs d’irrecevabilité
40. La Cour constate que le présent grief n’est pas manifestement mal fondé au sens de l’article 35 § 3 a) de la Convention. Elle relève par ailleurs qu’il ne se heurte à aucun autre motif d’irrecevabilité. Il convient donc de le déclarer recevable.
B. Sur le fond
1. Arguments des parties
a) Les requérants
41. Les requérants estiment que dans les sociétés modernes, l’unité de la famille ne saurait dépendre de la transmission du nom du père, et que la protection des intérêts de l’enfant ne saurait davantage justifier la discrimination en cause. Ils soulignent qu’il y a eu un traitement différencié de personnes placées dans des situations comparables, à savoir le mari et la femme, car le nom du père était imposé aux « enfants légitimes ». Cette discrimination était à leurs yeux clairement fondée sur le sexe.
42. Les requérants ne contestent pas que, en règle générale, les dispositions en matière de détermination du nom relèvent de l’intérêt public, en particulier en ce qui concerne la protection de l’unité de la famille et la possibilité d’identifier les personnes par rapport à leurs origines. Cependant, ils considèrent que l’attribution automatique et obligatoire du nom du père ne poursuivait pas ces fins en l’espèce.
43. Pour ce qui concerne l’unité de la famille, l’attribution du nom de la mère aurait selon eux eu le même effet que l’attribution du nom du père, car Maddalena aurait été identifiée avec le nom de l’un de ses parents seulement. De plus, la requérante a constamment utilisé son nom de jeune fille. Maddalena était par ailleurs l’aînée de la famille et les requérants ont également demandé l’attribution du nom « Cusan » pour leurs deux autres enfants, nés en 2001 et 2003. A la lumière de ce qui précède, les requérants estiment que le seul but de la mesure contestée était celui de protéger une tradition, selon une conception de la famille dans laquelle le père jouit d’une position préférentielle, comme la Cour de cassation l’aurait reconnu.
44. En tout état de cause, même si un but légitime était poursuivi, il y aurait disproportion entre ce but et les moyens employés, étant donné que l’unité de la famille pouvait être garantie par des mesures moins contraignantes, telle que la simple obligation d’attribuer le même nom à tous les enfants d’un couple marié.
45. Quant à l’argument du Gouvernement (paragraphe 51 ci-après) selon lequel l’attribution du nom de la mère aurait porté préjudice à Maddalena, les requérants ne voient pas pourquoi cette circonstance aurait dû priver le requérant de ses droits parentaux. À supposer même que tel eût pu être le cas, pareille conséquence aurait selon eux été manifestement contraire à la Convention.
46. Les requérants soulignent également que si la Cour devait conclure à la violation de l’article 14 de la Convention, il serait opportun d’examiner la requête aussi sous l’angle de l’article 8 pris isolément, puisqu’aux termes de celui-ci toute ingérence dans le domaine du droit au respect de la vie privée et familiale doit être « prévue par la loi ». Or, les juridictions internes ont selon eux reconnu que l’attribution du nom du père ne se fondait sur aucune norme écrite. Selon la cour d’appel, il s’agissait d’une coutume. La Cour de cassation a, elle, rejeté cette opinion, et estimé que la règle se dégageait d’une considération globale de plusieurs dispositions du système juridique italien. Les requérants ne partagent pas ce dernier avis et considèrent qu’en l’absence d’une règle écrite précise, il s’agissait bien d’une règle de nature coutumière, que les juges internes auraient dû refuser d’appliquer dès lors qu’elle était contraire aux principes constitutionnels de l’égalité des sexes et des époux. De plus, même si elle a implicitement adhéré à la refondation opérée par la Cour de cassation et même si elle n’a pas formellement procédé à son annulation, la Cour constitutionnelle a clairement dit que la règle en question était contraire à la Constitution, ce qui rendrait selon eux douteuse sa validité comme base légale justifiant une ingérence dans les droits fondamentaux de l’individu.
47. Les requérants en déduisent que l’ingérence dénoncée n’était pas « prévue par la loi » au sens de l’article 8 de la Convention, car il manquait une disposition écrite claire et prévisible, comme le démontre la variété des approches suivies par les juridictions internes.
48. En outre, et en tout état de cause, pour les raisons exposées ci dessus, l’ingérence ne poursuivrait pas un but légitime et ne serait pas nécessaire dans une société démocratique.
b) Le Gouvernement
49. Le Gouvernement expose que la demande des requérants visant à ce que soit attribué à leur fille mineure exclusivement le nom de sa mère n’a été rejetée que parce que les autorités civiles qui sont intervenues n’avaient pas connaissance du décret présidentiel no 396 du 3 novembre 2000 – lequel prévoit dans son article 84 que toute personne a la possibilité d’obtenir un changement de prénom ou de nom de famille pour des motifs justifiés (paragraphe 26 ci-dessus). Les requérants auraient par ailleurs selon lui pu adresser une telle demande directement au préfet, au lieu de saisir les juridictions civiles.
50. Le Gouvernement estime que la Cour de cassation et la Cour constitutionnelle ont examiné attentivement les allégations des requérants, et observe que la Cour constitutionnelle a conclu qu’une intervention du législateur était nécessaire. Au demeurant, il fait valoir que la possibilité de remplacer ou de compléter le nom avait déjà été introduite par le décret présidentiel no 396 de 2000. Cette modification législative était, explique t il, intervenue en raison de décisions judiciaires internes qui s’étaient référées aux principes fondamentaux de l’ordre communautaire dans le cas de personnes ayant une double nationalité ; le Conseil d’État avait également autorisé le remplacement du nom du père par celui de la mère pour des raisons de reconnaissance envers le grand-père maternel. Ce faisant, l’Italie a selon lui tenu compte de l’évolution de la société actuelle et de la protection des droits de l’homme dans ce domaine si délicat qu’est celui de la famille. Le Gouvernement en déduit qu’il n’y a pas eu d’ingérence dans la vie privée et familiale des requérants, qui avaient à leur disposition un recours effectif devant le préfet.
51. En tout état de cause, la procédure de changement de nom doit selon le Gouvernement ménager un juste équilibre entre, d’une part, l’intérêt public de la détermination de l’état civil des individus et, d’autre part, le droit à l’identité personnelle, en tant que droit fondamental protégé par le CC. Cet équilibre serait assuré à ses yeux par les dispositions du décret présidentiel no 396 de 2000. Si le nom de famille du père avait été remplacé par celui de la mère, précise le Gouvernement, il y aurait eu entre les requérants une discrimination contraire à l’article 14 de la Convention. Une conséquence en aurait été la non-reconnaissance de Maddalena par son père, et la responsabilité la concernant aurait alors pesé uniquement sur la requérante. Le Gouvernement insiste à cet égard sur la nécessité pour les enfants d’avoir une identité personnelle et une situation juridique sûres et vérifiables.
52. Selon le Gouvernement, le principe de non-discrimination doit être appliqué aussi bien horizontalement que verticalement, c’est-à-dire entre les époux et à l’égard des enfants afin de garantir la jouissance des droits et libertés à toutes les personnes concernées : faute pour les requérants d’avoir pu donner des justifications objectives et raisonnables à leur demande de substitution de nom, y faire droit aurait provoqué une discrimination fondée sur le sexe entre les époux, de sorte que l’article 14 aurait alors été violé.
2. Appréciation de la Cour
53. La Cour estime que le grief des requérants se prête à être examiné tout d’abord sous l’angle de l’article 14 de la Convention, combiné avec l’article 8.
a) Sur l’applicabilité de l’article 14 de la Convention combiné avec l’article 8
54. Comme la Cour l’a constamment déclaré, l’article 14 de la Convention complète les autres clauses normatives de la Convention et de ses Protocoles. Il n’a pas d’existence indépendante, puisqu’il vaut uniquement pour « la jouissance des droits et libertés » qu’elles garantissent. Certes, il peut entrer en jeu même sans un manquement à leurs exigences et, dans cette mesure, il possède une portée autonome, mais il ne saurait trouver à s’appliquer si les faits du litige ne tombent pas sous l’empire de l’une au moins desdites clauses (voir, parmi beaucoup d’autres, Van Raalte c. Pays-Bas, 21 février 1997, § 33, Recueil 1997-I ; Petrovic c. Autriche, 27 mars 1998, § 22, Recueil 1998-II ; et Zarb Adami c. Malte, no 17209/02, § 42, CEDH 2006-VIII).
55. La Cour rappelle que l’article 8 de la Convention ne contient pas de disposition explicite en matière de nom, mais qu’en tant que moyen déterminant d’identification personnelle (Johansson c. Finlande, no 10163/02, § 37, 6 septembre 2007, et Daróczy c. Hongrie, no 44378/05, § 26, 1er juillet 2008) et de rattachement à une famille, le nom d’une personne n’en concerne pas moins la vie privée et familiale de celle-ci. Que l’Etat et la société aient intérêt à en réglementer l’usage ne suffit pas pour exclure la question du nom des personnes du domaine de la vie privée et familiale, conçue comme englobant, dans une certaine mesure, le droit pour l’individu de nouer des relations avec ses semblables (Burghartz, précité, § 24 ; Stjerna, précité, § 37 ; Ünal Tekeli, précité, § 42, CEDH 2004 X ; Losonci Rose et Rose c. Suisse, no 664/06, § 26, 9 novembre 2010 ; Garnaga c. Ukraine, no 20390/07, § 36, 16 mai 2013).
56. En l’espèce, les requérants, en tant que parents de Maddalena, étaient titulaires d’un intérêt clair et se rattachant à un droit strictement personnel à intervenir dans le processus de détermination du nom de famille de leur nouveau-né. Les juridictions internes leur ont par ailleurs constamment reconnu locus standi dans la procédure relative à la contestation du refus d’attribuer à Maddalena le nom de sa mère. Il convient également de rappeler que la Cour a affirmé que le choix du prénom de l’enfant par ses parents entre dans la sphère privée de ces derniers (voir, notamment, Guillot c. France, 24 octobre 1996, § 22, Recueil 1996-V, et Johansson, précité, § 28). Il en va de même en ce qui concerne le nom de famille.
57. L’objet de la requête entre donc dans le champ d’application de l’article 8 de la Convention. L’article 14 trouve dès lors à s’appliquer.
b) Sur l’observation de l’article 14 de la Convention combiné avec l’article 8
i. Principes généraux
58. Dans sa jurisprudence, la Cour a établi que la discrimination s’entend du fait de traiter de manière différente, sans justification objective et raisonnable, des personnes se trouvant en la matière dans des situations comparables (Willis c. Royaume-Uni, no 36042/97, § 48, CEDH 2002-IV). Toute différence de traitement n’emporte toutefois pas automatiquement violation de cet article. Il faut établir que des personnes placées dans des situations analogues ou comparables en la matière jouissent d’un traitement préférentiel, et que cette différence est discriminatoire (Ünal Tekeli, précité, § 49, et Losonci Rose et Rose, précité, § 71).
59. Une distinction est discriminatoire au sens de l’article 14 si elle manque de justification objective et raisonnable. L’existence de pareille justification s’apprécie à la lumière des principes qui prévalent d’ordinaire dans les sociétés démocratiques. Une différence de traitement dans l’exercice d’un droit énoncé par la Convention ne doit pas seulement poursuivre un but légitime : l’article 14 est également violé s’il n’y a pas de « rapport raisonnable de proportionnalité entre les moyens employés et le but visé » (voir, par exemple, Petrovic, précité, § 30, et Lithgow et autres c. Royaume-Uni, 8 juillet 1986, § 177, série A no 102).
60. En d’autres termes, la notion de discrimination englobe d’ordinaire les cas dans lesquels un individu ou un groupe se voit, sans justification adéquate, moins bien traité qu’un autre, même si la Convention ne requiert pas le traitement plus favorable (Abdulaziz, Cabales et Balkandali c. Royaume-Uni, 28 mai 1985, § 82, série A no 94). En effet, l’article 14 n’empêche pas une différence de traitement si elle repose sur une appréciation objective de circonstances de fait essentiellement différentes et si, s’inspirant de l’intérêt public, elle ménage un juste équilibre entre la sauvegarde des intérêts de la communauté et le respect des droits et libertés garantis par la Convention (voir, parmi d’autres, G.M.B. et K.M. c. Suisse (déc.), no 36797/97, 27 septembre 2001, et Zarb Adami, précité, § 73).
61. Les Etats contractants jouissent d’une certaine marge d’appréciation pour déterminer si et dans quelle mesure des différences entre des situations à d’autres égards analogues justifient des différences de traitement juridique (Gaygusuz c. Autriche, 16 septembre 1996, § 42, Recueil 1996-IV). Son étendue varie selon les circonstances, les domaines et le contexte (Rasmussen c. Danemark, 28 novembre 1984, § 40, série A no 87, et Inze c. Autriche, 28 octobre 1987, § 41, série A no 126), mais la décision finale quant à l’observation des exigences posées par la Convention appartient à la Cour. La Convention étant avant tout un mécanisme de protection des droits de l’homme, la Cour doit tenir compte de l’évolution de la situation dans l’Etat défendeur et dans les Etats contractants en général et réagir, par exemple, au consensus susceptible d’apparaître quant aux normes à atteindre (Ünal Tekeli, précité, § 54 ; Zarb Adami, précité, § 74 ; et Losonci Rose et Rose, précité, § 74).
ii. Sur le point de savoir s’il y a eu différence de traitement entre des personnes se trouvant dans des situations similaires
62. Selon la lecture du droit interne opérée par la Cour de cassation (paragraphe 16 ci-dessus), la règle selon laquelle les « enfants légitimes » se voient attribuer à la naissance le nom du père se dégage, par une interprétation adéquate, de la combinaison d’un certain nombre d’articles du code civil. La législation interne ne prévoit aucune exception à cette règle. Il est vrai, comme le souligne le Gouvernement (paragraphes 49-51 ci-dessus), que l’article 84 du décret présidentiel no 396 de 2000 prévoit la possibilité d’un changement de nom, et qu’en l’espèce le préfet de Milan a autorisé les requérants à compléter le nom de Maddalena par l’ajout d’un autre nom (celui de sa mère – paragraphe 22 ci-dessus). Cependant, il faut distinguer la détermination du nom à la naissance de la possibilité de changer de nom au cours de la vie. A cet égard, la Cour renvoie aux considérations qu’elle a exposées dans le cadre de l’exception du Gouvernement tirée de la perte par les requérants de la qualité de victimes (paragraphe 32 ci-dessus).
63. A la lumière de ce qui précède, la Cour est d’avis que dans le cadre de la détermination du nom de famille à attribuer à leur « enfant légitime », des personnes se trouvant dans des situations similaires, à savoir l’un et l’autre des requérants, respectivement père et mère de l’enfant, ont été traitées de manière différente. En effet, à la différence du père, la mère n’a pas pu obtenir l’attribution de son nom de famille au nouveau-né, et ce en dépit de l’accord de son époux.
iii. Sur le point de savoir s’il existait une justification objective et raisonnable
64. La Cour rappelle que si une politique ou une mesure générale a des effets préjudiciables disproportionnés sur un groupe de personnes, la possibilité qu’elle soit considérée comme discriminatoire ne peut être exclue même si elle ne vise pas spécifiquement ce groupe (McShane c. Royaume-Uni, no 43290/98, § 135, 28 mai 2002). De plus, seules des considérations très fortes peuvent amener la Cour à estimer compatible avec la Convention une différence de traitement exclusivement fondée sur le sexe (Willis, précité, § 39 ; Schuler-Zgraggen c. Suisse, 24 juin 1993, § 67, série A no 263 ; et Losonci Rose et Rose, précité, § 80).
65. La Cour rappelle qu’elle a eu l’occasion de traiter des questions en partie similaires dans les affaires Burghartz, Ünal Tekeli et Losonci Rose et Rose, précitées. La première concernait le refus opposé à une demande du mari qui souhaitait faire précéder le nom de famille, en l’occurrence celui de son épouse, du sien propre. La deuxième avait pour objet la règle de droit turc selon laquelle la femme mariée ne peut porter exclusivement son nom de jeune fille après le mariage, alors que l’homme marié garde son nom de famille tel qu’il était avant le mariage. L’affaire Losonci Rose et Rose portait sur la nécessité, en droit suisse, de soumettre une demande commune aux autorités pour les époux souhaitant prendre tous deux le nom de la femme, le nom du mari leur étant autrement attribué par défaut comme nouveau nom de famille après le mariage.
66. Dans toutes ces affaires, la Cour a conclu à la violation de l’article 14 de la Convention, combiné avec l’article 8. Elle a notamment rappelé l’importance d’une progression vers l’égalité des sexes et de l’élimination de toute discrimination fondée sur le sexe dans le choix du nom de famille. Elle a en outre estimé que la tradition de manifester l’unité de la famille à travers l’attribution à tous ses membres du nom de l’époux ne pouvait justifier une discrimination envers les femmes (voir, notamment, Ünal Tekeli, précité, §§ 64-65).
67. La Cour ne peut que parvenir à des conclusions analogues dans la présente affaire, où la détermination du nom de famille des « enfants légitimes » s’est faite uniquement sur la base d’une discrimination fondée sur le sexe des parents. La règle en cause veut en effet que le nom attribué soit, sans exception, celui du père, nonobstant toute volonté différente commune aux époux. Par ailleurs, la Cour constitutionnelle italienne elle même a reconnu que le système en vigueur procède d’une conception patriarcale de la famille et des pouvoirs du mari, qui n’est plus compatible avec le principe constitutionnel de l’égalité entre homme et femme (paragraphe 17 ci-dessus). La Cour de cassation l’a confirmé (paragraphe 20 ci dessus). Si la règle voulant que le nom du mari soit attribué aux « enfants légitimes » peut s’avérer nécessaire en pratique et n’est pas forcément en contradiction avec la Convention (voir, mutatis mutandis, Losonci Rose et Rose, précité, § 49), l’impossibilité d’y déroger lors de l’inscription des nouveau-nés dans les registres d’état civil est excessivement rigide et discriminatoire envers les femmes.
iv. Conclusion
68. Compte tenu de ce qui précède, la justification avancée par le Gouvernement ne paraît pas raisonnable et la différence de traitement constatée s’avère ainsi discriminatoire au sens de l’article 14 de la Convention. Il y a donc eu violation de l’article 14 combiné avec l’article 8 de la Convention.
69. Eu égard à cette conclusion, la Cour ne juge pas nécessaire de rechercher s’il y a eu aussi violation de l’article 8 pris isolément (Burghartz, précité, § 30, et Ünal Tekeli, précité, § 69).
II. SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L’ARTICLE 5 DU PROTOCOLE No 7, SEUL OU LU EN CONJONCTION AVEC L’ARTICLE 14 DE LA CONVENTION
70. Les requérants considèrent que les dispositions légales en vigueur en matière de détermination du nom des « enfants légitimes » ne garantissent pas l’égalité entre les époux, et que l’Italie aurait dû prévoir la possibilité d’attribuer le nom de la mère en cas de consensus des parents sur ce point.
Ils invoquent l’article 5 du Protocole no 7, seul ou lu en conjonction avec l’article 14 de la Convention.
L’article 5 précité se lit ainsi :
« Les époux jouissent de l’égalité de droits et de responsabilités de caractère civil entre eux et dans leurs relations avec leurs enfants au regard du mariage, durant le mariage et lors de sa dissolution. Le présent article n’empêche pas les États de prendre les mesures nécessaires dans l’intérêt des enfants. »
71. Le Gouvernement combat cette thèse.
72. La Cour relève que ce grief est lié à celui examiné ci-dessus et doit donc aussi être déclaré recevable.
73. Eu égard à la conclusion à laquelle elle est parvenue sous l’angle de l’article 14 combiné avec l’article 8 de la Convention, la Cour ne juge pas nécessaire de rechercher s’il y a eu aussi violation de l’article 14 combiné avec l’article 5 du Protocole no 7, ou de cette dernière disposition prise isolément.
III. SUR L’APPLICATION DE L’ARTICLE 41 DE LA CONVENTION
74. Aux termes de l’article 41 de la Convention,
« Si la Cour déclare qu’il y a eu violation de la Convention ou de ses Protocoles, et si le droit interne de la Haute Partie contractante ne permet d’effacer qu’imparfaitement les conséquences de cette violation, la Cour accorde à la partie lésée, s’il y a lieu, une satisfaction équitable. »
75. Les requérants précisent qu’ils ne demandent aucune somme au titre du préjudice qu’ils auraient subi ou pour les frais et dépens engagés devant les juridictions internes et la Cour, le simple constat d’une violation constituant à leurs yeux, dans les circonstances particulières de l’espèce, une satisfaction équitable suffisante. Partant, la Cour estime qu’il n’y a pas lieu de se prononcer sur l’application de l’article 41 de la Convention.
IV. SUR L’APPLICATION DE L’ARTICLE 46 DE LA CONVENTION
76. Aux termes de l’article 46 de la Convention,
« 1. Les Hautes Parties contractantes s’engagent à se conformer aux arrêts définitifs de la Cour dans les litiges auxquels elles sont parties.
2. L’arrêt définitif de la Cour est transmis au Comité des Ministres qui en surveille l’exécution.
(…). »
77. Les requérants font observer que les violations qu’ils ont dénoncées résultent d’une lacune dans le droit interne. Malgré les changements introduits en 2000, ce dernier impose toujours d’attribuer aux « enfants légitimes » le nom du père. Le remplacement de ce nom ne peut avoir lieu que pour des raisons impérieuses et relève du pouvoir discrétionnaire du préfet. Les requérants demandent dès lors à la Cour d’inviter le Gouvernement à introduire, en la matière, les réformes législatives nécessaires pour garantir l’égalité entre les sexes et entre les époux.
78. Le Gouvernement s’y montre opposé. Il fait valoir que la législation en vigueur est l’instrument juridique qui leur a permis de faire ajouter pour leurs enfants le nom de famille de la mère au nom de famille du père, et donc selon lui d’obtenir satisfaction au niveau interne. Partant, les requérants ne pourraient selon lui demander à la Cour de contraindre l’État défendeur à la modifier.
79. La Cour rappelle que, aux termes de l’article 46, les Hautes Parties contractantes s’engagent à se conformer aux arrêts définitifs rendus par la Cour dans les litiges auxquels elles sont parties, le Comité des Ministres étant chargé de surveiller l’exécution de ces arrêts. Il en découle notamment que, lorsque la Cour conclut à l’existence d’une violation, l’État défendeur a l’obligation juridique de choisir, sous le contrôle du Comité des Ministres, les mesures générales et/ou, le cas échéant, individuelles à intégrer dans son ordre juridique interne afin de mettre un terme à la violation constatée et d’en effacer autant que possible les conséquences (voir, entre autres, Xenides-Arestis c. Turquie, no 46347/99, §§ 39-40, 22 décembre 2005 ; Scordino c. Italie (no 1) [GC], no 36813/97, § 233, CEDH 2006-V ; Broniowski c. Pologne [GC], no 31443/96, § 192, CEDH 2004-V ; Bottazzi c. Italie [GC], no 34884/97, § 22, CEDH 1999-V ; et Di Mauro c. Italie [GC], no 34256/96, § 23, CEDH 1999-V). L’Etat doit également prendre ces mesures vis-à-vis des autres personnes se trouvant dans la même situation que le ou les requérants, son objectif devant notamment être de résoudre les problèmes qui ont conduit la Cour à son constat de violation (Scozzari et Giunta c. Italie [GC], nos 39221/98 et 41963/98, § 249, CEDH 2000-VIII ; Christine Goodwin c. Royaume-Uni [GC], no 28957/95, § 120, CEDH 2002 VI ; Lukenda c. Slovénie, no 23032/02, § 94, CEDH 2005 X ; et S. et Marper c. Royaume-Uni [GC], nos 30562/04 et 30566/04, § 134, CEDH 2008). Dans le cadre de l’exécution des arrêts de la Cour, le Comité des Ministres souligne sans cesse cette obligation (Bourdov c. Russie (no 2), no 33509/04, § 125, CEDH 2009 ; voir, notamment et entres autres, les résolutions ResDH(97)336, IntResDH(99)434, IntResDH(2001)65 et ResDH(2006)1).
80. En principe, il n’appartient pas à la Cour de définir quelles peuvent être les mesures de redressement appropriées de la part de l’Etat défendeur pour s’acquitter de ses obligations au regard de l’article 46 de la Convention. Cependant, lorsqu’un dysfonctionnement a été décelé dans le système national de protection des droits de l’homme, la Cour a le souci d’en faciliter la suppression rapide et effective (Driza c. Albanie, no 33771/02, § 125, CEDH 2007 XII, et Vyerentsov c. Ukraine, no 20372/11, § 94, 11 avril 2013).
81. Dans la présente affaire, la Cour a conclu à la violation de l’article 14 de la Convention, combiné avec l’article 8, en raison de l’impossibilité pour les requérants, lors de la naissance de leur fille, de faire inscrire celle-ci dans les registres d’état civil avec comme nom de famille celui de sa mère. Cette impossibilité découlait d’une défaillance du système juridique italien, selon lequel tout « enfant légitime » est inscrit dans les registres d’état civil avec comme nom de famille celui du père, sans possibilité de dérogation même en cas de consensus entre les époux en faveur du nom de la mère. Lorsqu’elle a constaté l’existence d’une défaillance dans la législation interne, la Cour a eu pour habitude d’en identifier la source afin d’aider l’Etat contractant à trouver la solution appropriée et le Comité des Ministres à surveiller l’exécution du jugement (voir, par exemple, Maria Violeta Lăzărescu c. Roumanie, no 10636/06, § 27, 23 février 2010 ; Driza, précité, §§ 122-126 ; et Ürper et autres c. Turquie, nos 14526/07 et autres, §§ 51 et 52, 20 octobre 2009). Compte tenu de la situation constatée ci-dessus, la Cour estime que des réformes dans la législation et/ou la pratique italiennes devraient être adoptées afin de rendre cette législation et cette pratique compatibles avec les conclusions auxquelles elle est parvenue dans le présent arrêt, et d’assurer le respect des exigences des articles 8 et 14 de la Convention (voir, mutatis mutandis, Vyerentsov, précité, § 95).
PAR CES MOTIFS, LA COUR
1. Déclare, à la majorité, la requête recevable ;

2. Dit, par 6 voix contre 1, qu’il y a eu violation de l’article 14 combiné avec l’article 8 de la Convention ;

3. Dit, à l’unanimité, qu’il n’y a pas lieu d’examiner le grief tiré de l’article 8 pris isolement et le grief tiré de l’article 5 du Protocole no 7, seul ou combiné avec l’article 14 de la Convention.
Fait en français, puis communiqué par écrit le 7 janvier 2014, en application de l’article 77 §§ 2 et 3 du règlement.
Stanley Naismith Işıl Karakaş
Greffier Présidente
Au présent arrêt se trouve joint, conformément aux articles 45 § 2 de la Convention et 74 § 2 du règlement, l’exposé de l’opinion séparée du juge Popović.
A.I.K.
S.H.N.

OPINION DISSIDENTE DU JUGE POPOVIĆ
Je regrette de ne pouvoir me rallier à la majorité dans cette affaire. En effet, l’exception du gouvernement défendeur à laquelle l’arrêt fait référence au paragraphe 34 est à mon avis justifiée. Le gouvernement italien a affirmé que les requérants n’avaient subi aucun préjudice important au sens de l’article 35 § 3 b) de la Convention. Or les requérants eux-mêmes n’ont pas prétendu avoir subi un préjudice pécuniaire. Ils se plaignaient de ne pouvoir attribuer à leur fille le nom de famille de la mère. Pourtant, il ressort de la lecture du paragraphe 22 de l’arrêt que le préfet de Milan avait autorisé les requérants à changer le nom de leurs enfants selon leurs désirs.
Les faits la cause, que je viens de résumer, m’amènent à conclure: 1) que les requérants n’ont subi aucun préjudice important et 2) que même s’ils en avaient subi un, ils auraient perdu la qualité de victime. Cette dernière constatation conduit inévitablement à la recevabilité de la première exception soulevée par le gouvernement défendeur au paragraphe 29 de l’arrêt.
Le noyau de l’affaire, telle qu’elle est présentée devant la Cour européenne des droits de l’Homme, s’avère donc abstrait et donne l’impression que la requête ne représente qu’une sorte d’actio popularis, dont les requérants ne peuvent saisir notre Cour.
Je tiens à souligner que le problème dans cette affaire touche essentiellement à la marge d’appréciation des États membres de la Convention. Il porte sur la tradition de chaque pays et la pratique mise en cause ne devrait pas être soumise à harmonisation au niveau européen. Pour ne citer qu’un seul exemple, d’ailleurs bien connu, en Espagne, les personnes des deux sexes portent plusieurs noms émanant des deux côtés de la famille. Faudrait-il dire à l’État espagnol de changer la pratique ? Et pour quelle raison ? La majorité dans cette affaire semble transformer la perception claire d’un phénomène social, ce qui est étranger à la protection des droits de l’homme.
Pour toutes ces raisons, j’estime que la requête aurait dû être déclarée irrecevable en application de l’article 35 de la Convention.

A chi rivolgersi e i costi dell'assistenza

Il Diritto dell'Espropriazione è una materia molto complessa e poco conosciuta, che "ingloba" parti importanti di molteplici rami del diritto. Per tutelarsi è quindi essenziale farsi assistere da un Professionista (con il quale si consiglia di concordare in anticipo i costi da sostenere, come ormai consentito dalle leggi in vigore).

Se l'espropriato ha già un Professionista di sua fiducia, può comunicagli che sul nostro sito trova strumenti utili per il suo lavoro.
Per capire come funziona la procedura, quando intervenire e i costi da sostenere, si consiglia di consultare la Sezione B.6 - Come tutelarsi e i Costi da sostenere in TRE Passi.

  • La consulenza iniziale, con esame di atti e consigli, è sempre gratuita
    - Per richiederla cliccate qui: Colloquio telefonico gratuito
  • Un'eventuale successiva assistenza, se richiesta, è da concordare
    - Con accordo SCRITTO che garantisce l'espropriato
    - Con pagamento POSTICIPATO (si paga con i soldi che si ottengono dall'Amministrazione)
    - Col criterio: SE NON OTTIENI NON PAGHI

Se l'espropriato è assistito da un Professionista aderente all'Associazione pagherà solo a risultato raggiunto, "con i soldi" dell'Amministrazione. Non si deve pagare se non si ottiene il risultato stabilito. Tutto ciò viene pattuito, a garanzia dell'espropriato, con un contratto scritto. è ammesso solo un rimborso spese da concordare: ad. es. 1.000 euro per il DAP (tutelarsi e opporsi senza contenzioso) o 2.000 euro per il contenzioso. Per maggiori dettagli si veda la pagina 20 del nostro Vademecum gratuito.

La data dell'ultimo controllo di validità dei testi è la seguente: 19/09/2024