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Testo originale e tradotto della sentenza selezionata

AFFAIRE BELPIETRO c. ITALIE

Tipologia: Sentenza
Importanza: 2
Articoli: 41, 10
Numero: 43612/10/2013
Stato: Italia
Data: 2013-09-24 00:00:00
Organo: Sezione Seconda
Testo Originale

Conclusioni :violazione dell’articolo 10 – Libertà di espressione- generale, Articolo 10-1 – Libertà di espressione, Danno morale – risarcimento

SECONDA SEZIONE

CAUSA BELPIETRO C. ITALIA

( Richiesta no 43612/10)

SENTENZA

STRASBURGO

24 settembre 2013

Questa sentenza diventerà definitiva nelle condizioni definite all’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire dei ritocchi di forma.

Nella causa Belpietro c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, riunendosi in una camera composta da:
Danutė Jočienė, presidentessa,
Guido Raimondi,
Peer Lorenzen,
András Sajó,
Işıl Karakaş,
Nebojša Vučinić,
Helen Keller, giudici ,e
di Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Dopo avere deliberato in camera del consiglio il 3 settembre 2013,
Rende la sentenza che ha, adottata a questa data,:
PROCEDIMENTO
1. All’origine della causa si trova una richiesta (no 43612/10) diretta contro la Repubblica italiana e di cui un cittadino di questo Stato, il Sig. M B. (“il ricorrente”), ha investito la Corte il 27 luglio 2010 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2. Il ricorrente è stato rappresentato da Me V. L., avvocato a Milano. Il governo italiano (“il Governo”) è stato rappresentato dal suo agente, la Sig.ra E. Spatafora.
3. Il ricorrente adduce che la sua condanna per diffamazione ha violato il suo diritto alla libertà di espressione.
4. Il 26 ottobre 2012, la richiesta è stata comunicata al Governo. Siccome lo permette l’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato deciso inoltre che la camera si sarebbe pronunciata sull’ammissibilità ed il fondo allo stesso tempo.
IN FATTO
5. Il ricorrente è nato nel 1958 e ha risieduto a Milano.
I. L’ARTICOLO PUBBLICATO IN IL QUOTIDIANO EGLI GIORNALE
6. All’epoca dei fatti, il ricorrente era il direttore del quotidiano Egli Giornale. Il 7 novembre 2004, questo ultimo pubblicò un articolo, firmato dal senatore R.I, intitolato “Mafia, tredici anni di dispute tra la procura ed i carabinieri” (Mafia, tredici anni di scontri tra P.M. e carabinieri, e sottotitolato “Ciò che si nasconde dietro il processo fa al generale Mori ed al colonnello “Ultimo” per il nascondiglio di Riina.” Nelle sue parti pertinenti, questo articolo si leggeva come segue:
“La guerra dei magistrati di Palermo contro i carabinieri ha cominciato il 16 febbraio 1991, quando il capitano Giuseppe Di Donno comunicò al procuratore Giovanni Falcone i conclusioni della sua inchiesta sulla mafia e l’attribuzione dei lavori pubblici. Di Donno aveva fatto un molto buono lavoro. Ma Falcone stava partendo per Roma e la pratica di Donno restò tra le mani della procuratori Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, che si chiamava “i gémeaux” (…), e durante sei mesi nessuno seppe niente al suo riguardo. (…) nella pratica era indicata i nomi di 44 uomini di cause e politici di tutto li partii, ivi compreso dell’opposizione, ma nessuno di essi fu disturbato. Al contrario, siccome l’ha dichiarato [Sig.] Li Pera già il 22 febbraio gli interessati, politici, imprenditori e mafiosi, erano stati avvertiti e messi in guardia: “fa’ attenzione”, avevano detto a Li Pera sé i dirigenti della sua società, ed un certo Angelo Silino gli aveva dato l’elenco dei lavori pubblici e dei nomi citati nella pratica del capitano Di Donno. Chi aveva dato i nomi e le cifre a Silino?
Non si lo saprà mai. Ma nel frattempo la pratica di Donno è stata selezionata e è stata impoverita, gli imprenditori ed i politici sono usciti della scena, si è messo in fallimento i piccoli pesci e Li Pera e Silino sono stati arrestati. Li Pera conferma le sue accuse contro la procura di Palermo dinnanzi ai magistrati di Caltanissetta ed il capitano Di Donno comunicherà agli stessi magistrati le registrazioni delle sue conversazioni con Silino in che Silino sé parla del procuratore Lo Forte come se era il suo informatore. Ma Silino giustificati sostenendo che i carabinieri l’hanno spinto ad accusare Lo Forte. Lo Forte sporge querela per accuse calunniose contro Donno, e Giancarlo Caselli interrogo il colonnello Mario Mori, (…). Egli ne non sarà niente, Mori e Di Donno non sarà incriminato e parallelamente la procura di Caltanissetta archivierà senza seguito le registrazioni con le accuse di Silino. (…).
La seconda disputa ha luogo durante il processo contro Giulio Andreotti. I carabinieri, per verificare le accuse di Tommaso Buscetta, vanno ad interrogare il boss che è detenuto nelle prigioni americane. Si rende il maresciallo Antonino Lombardo, accompagnato dal capitano Mario Obinu, e convincono il boss che ha contraddetto fermamente Buscetta, di venire a manifestare al processo in Italia. Nel rapporto che registra alla stazione dei carabinieri, il capitano Obinu, scrive in lettere che il procuratore di Palermo che ha partecipato alla missione gli ha sconsigliato di insistere per convincere Badalamenti a venire a testimoniare in Italia perché ciò potrebbe indebolire la “tesi dell’accusa” contro Andreotti. I carabinieri insistono però ed il maresciallo Lombardo è incaricato di tornare negli Stati Uniti per cercare Badalamenti e portarlo al processo. Lombardo prepara le carte, preleva alla cassa il denaro per i biglietti di aereo e va’ alla casa per fare le sue valigie. La sera stessa, durante l’emissione teletrasmessa di Michele Santoro, il vecchio sindaco di Palermo Leoluca Orlando accusa il maresciallo Lombardo di connivenza con la mafia. Il comandante generale del carabinieri telefono in vano per intervenire durante l’emissione ed il comandante dei carabinieri di Palermo chieda in vano alla procura di difendere Lombardo. Il maresciallo che viene anche a temere di essere arrestato, mette fine ai suoi giorni nella corte della caserma in traendo si una palla con la sua arma da servizio: nella sua lettera di addio alla sua famiglia ha scritto che le sue noie hanno cominciato coi “viaggi americani” e che è stato vittima di un “clash di poteri.”
Il tenente dei carabinieri Carmelo Canale-cognato di Lombardo, e vecchio collaboratore principale di Paolo Borsellino-, testimoniando dinnanzi alla Commissione parlamentare per la lotta contro la mafia, sostiene che si è voluto impedire Lombardo di portare Badalamenti a testimoniare per smentire le accuse di Buscetta verso Andreotti, e che Leoluca Orlando è stato informato dalla procura della missione del maresciallo negli Stati Uniti. Canale sarà accusato da sette “pentiti” di essere stato al suo turno un collaboratore della mafia e di avere dato ai mafiosi, dei politici e degli imprenditori la pratica di Donno sulla mafia ed i lavori pubblici. Il suo processo è ancora in corso.
La terza disputa tra le procure di Palermo ed i carabinieri hanno luogo a casa Balduccio Di Maggio, il “pentito” che ha visto dei suoi propri occhi Andreotti e Totò Riina che si baciavano. Mentre tutti credono che Di Maggio vive protetto e vigilato in una località segreta del continente, si scopre grazie ad una serie di ascolti telefonici che il boss è ritornato in Sicilia per ricostituire il suo clan e pianifichi di assassinare i membri del clan avverso. Le trascrizioni degli ascolti, che i carabinieri affermano avere registrato regolarmente alla procura, giungono al Parlamento ed ai giornali, provocando degli scoppi. Ma il procuratore Caselli scritto al presidente della Commissione per la lotta contro la mafia che niente è vero che tutto è in regola e che si tratta solamente di “la gestione dinamica del pentita.” Ed al posto di arrestare Di Maggio, si inserisce nel registro degli imputati per [il reato di] connivenza personale il colonnello Carlo Giovanni Meli, responsabile degli ascolti ed anche consulente della Commissione per la lotta contro la mafia, ed incrimina, per calunnia contro Di Maggio, il “pentito” Giovanni Brusca che, avendo letto nei giornali gli ascolti dei carabinieri, racconta nel dettaglio ai magistrati ciò che Di Maggio sta facendo e preparati a fare. Questo è unicamente quando si trova i cadaveri delle persone assassinate da Di Maggio che si decide di catturarlo. E quando, [una volta questo] condotto all’udienza, gli avvocati di Andreotti gli chiedono perché si era permesso di fare ciò che aveva fatto, il “pentito” risponde che era sicuro dell’impunità, perché aveva i “cani incatenati”, ciò che notifica che i magistrati della procura di Palermo non avrebbero osato il tocco. E chi sarebbero, precisamente, secondo lui, questi “cani incatenati?” Questo è mentre Di Maggio, girandosi verso i tre procuratori dell’accusa al processo Andreotti e guardandoli bene in faccia, ne menziona i nomi: “Lo Forte, Scarpinato e Natoli… .”
In questo contesto, quello di una guerra ai carabinieri che non è finita mai, si trova la persecuzione del generale Mario Mori (….).
Tutto come per Donno, per Canale, per Lombardo, per Obinu, per Meli, l ‘ “reato” presunto di connivenza personale [commessa con] Di Caprio e Mori non esisto. La storia del “papello”, il pezzo di carta con le domande della mafia che sarebbe stata il protocollo del “negoziato” con lo stato, è per una grande parte inventata, e è del resto pubblica e senza importanza: i mafiosi proclamano ad ogni volta che compaiono nelle sale di udienza che rifiutano la tortura del regime penitenziario ad alta sicurezza dell’articolo 41bis e che ne chiedono l’abolizione. E comunque ciò non ha niente da vedere col tentativo di Mori di riuscire ad arrestare Riina col verso di Vito Ciancimino.
Per ciò che riguarda la storia del “nascondiglio” di Riina che non fu perquisito dopo il suo arresto subito, si tratta di una scelta strategica che mira a catturare gli altri perciò, ed egli fu deciso ed approvato con tutti i magistrati della procura, cominciando dal procuratore Caselli. E solo un matto può pensare che Mori e Di Caprio l’ha lasciato senza sorveglianza durante 19 giorni in seguito ad un “accordo” con la mafia: se si trattasse di permettere agli amici di Riina di prendere i “documenti” che erano nascosti perché essi dare 19 giorni, un tempo di una lunghezza singolare al punto di essere ne “esagerata?” 19 ore non sarebbero bastate ? E vi sapete ciò che risponde a questa semplice, elementare obiezione, questo giudice di Palermo che ha respinto la domanda di archiviazione della procura? Scrive questo: “Sembra superfluo di osservare che un accordo come lo si immagina, passi durante un periodo dove lo stato era prostrato, non avrebbe visto certo le “parti contraenti” in una situazione di uguaglianza, la parte delle istituzioni che non hanno un potere contrattuale di natura tale da permettergli di imporre delle condizioni di ogni tipo.” (…).
Le 93 pagine dell’ordinanza del giudice Vincenzina Massa sono piene di perle di questo tipo. Ma è forse erroneo di prendere ne si alla Sig.ra Ammassò che ha fatto qualche cosa di meritoria: col suo colpo di testa, imprevisto ed imprevedibile, ha fatto saltare il piccolo gioco che la procura di Palermo mette in scena da dieci anni: io, mi inserisco il tuo nome nel registro delle persone imputate ed indago su te durante due anni, lo permette tanto quanto la legge, poi non trovando di elementi sufficienti per chiedere il rinvio in giudizio, chiedo l’archiviazione, ma, chiedendolo, ti ricopro di ingiurie e di insulti (contumelie), in modo che “sia massacrato” in ogni caso, e poi riprendo e riapro l’inchiesta, e due anni più chiedo tardi, di nuovo l’archiviazione, ma sempre nel colorante di ingiurie e di insulti, e così via per l’eternità… Per l’eternità, ti tengo sui carboni ardenti e continui a denigrarti (sputtanarti)…
Questa volta, per la procura che chiedeva di nuovo l’archiviazione, le cose hanno girato male. E la Sig.ra Ammassò ha detto no: adesso questo ne è finito delle inchieste aperte e è richiuso all’infinito e delle vero-falso archiviazioni, [puramente] provvisori. L’ha forse fa apposta, per annullargli il suo giocattolo. Ed egli non è detto che tutto il male venga per nuocere. Adesso bisogna giudicarli sul serio, Mori e Di Caprio, e condannarli ed incarcerarli, e metterli nella stessa unità che Totò Riina, col capo della mafia ed i carabinieri che l’hanno arrestato. E forse il Paese che ha mostrato già che non ne può più, farà infine qualche cosa, obbligherà il suo ministro della Giustizia, il suo governo, il suo Parlamento, o anche il suo Consiglio superiore della magistratura ad intervenire per fare cessare questa vergogna, e per sbarazzarci per sempre di questi professionisti della lotta contro la mafia. E, comunque, per essi deve valere la secca e nobile dichiarazione contenendo la reazione del colonnello Sergio Di Caprio, il “ultimo capitano”,: “Mi sembra evidente che c’è una convergenza obiettiva tra questo approccio giudiziale ed i plausibili interessi di Salvatore Riina e della sua organizzazione. Voglio però indirizzarmi ai giovani, dicendo che alla raffinatezza dell’intrigo di Corleone, si deve continuare ad opporre la purezza, la semplicità e l’onestà, siccome me l’hanno insegnato i vecchi soldati dell’arma [dei carabinieri].”
II. IL PROCEDIMENTO PER DIFFAMAZIONE CONTRO IL RICORRENTE ED IL SIG. R.I.
7. Stimando che l’articolo in questione recava offesa al loro onore, i procuratori Lo Forte e Caselli sporsero querela per diffamazione verso il senatore R.I. ed il ricorrente. Questo ultimo era accusato sul fondamento dell’articolo 57 del codice penale (qui di seguito, il “CP”) che si legge così: “(…) il direttore o direttivo aggiunge responsabile che omette di esercitare sul contenuto del periodico che dirige il controllo necessario per impedire che dei reati non siano commessi dal verso della stampa è, in caso di commissione di una [tale] reato, punito a titolo della sua mancanza della pena stabilita per questa violazione, sminuito di non più di uno terzo.”
8. Il procedimento contro il senatore R.I. si è separata da quella contro il ricorrente. Con una deliberazione del 18 gennaio 2006, il Senato considerò che le affermazioni del Sig. R.I. erano coperte dall’articolo 68 § 1 della Costituzione, ai termini del quale “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni e voti espressi da essi nell’esercizio delle loro funzioni.” Il giudice delle investigazioni preliminari (qui di seguito, il “GIP”) di Milano attaccò questa deliberazione dinnanzi alla Corte costituzionale, nella cornice di un conflitto tra poteri dello stato. Però, con un’ordinanza no 253 del 20 giugno 2007, la Corte costituzionale dichiarò questo ricorso inammissibile per tardività.
9. Con un giudizio del 14 novembre 2007 di cui il testo fu depositato alla cancelleria il 21 novembre 2007, il GIP di Milano, avendo preso atto della deliberazione del Senato, pronunciò un non luogo a procedere al riguardo del Sig. R.I.
A. Il processo di prima istanza contro il ricorrente
10. Il 18 novembre 2005, il ricorrente fu rinviato in giudizio dinnanzi al tribunale di Milano. Questo ultimo intese Sigg. Lo Forte e Caselli che si erano costituiti parti civili, così come i testimoni a scarica invocata dalla difesa, Sigg. Fabio Lombardo, Carmelo Canale, Mario Mori e Giuseppe Di Donno.
11. Con un giudizio del 26 novembre 2007, il tribunale di Milano rilasciò il ricorrente.
12. Il tribunale osservò che il ricorrente era accusato di non avere esercitato il controllo necessario per evitare la commissione del reato di diffamazione col Sig. R.I. ; però, l’articolo scrive da questo ultimo non era costitutivo di una tale violazione perché si analizzava nell’esercizio del diritto di critica storica e giornalistica.
13. L’articolo incriminato conteneva un’esposizione di quattro avvenimento-chiavi della lotta contro la mafia, che l’autore dell’articolo vedeva come i sintomi di una “guerra” dei magistrati di Palermo contro i carabinieri. Questi avvenimenti erano stati caratterizzati dalla molteplicità dei procedimenti penali impegnati contro i carabinieri e dei magistrati, come il Sig. R.I. lo sottolineava. L’articolo non abbordava la questione di sapere se i magistrati miravano una scopo politica o un scopo altro che il loro dovere istituzionale di ricercare la verità. Allo visto del suo ruolo, un magistrato doveva aspettarsi di ciò che le sue attività siano osservate pubblicamente; allo stesso tempo, non era legittimo addurre, senza avere ne le prove che tale magistrato perseguiva degli strategie politici od organizzava dei complotti. Nello specifico, c’era un interesse pubblico a conoscere i fatti in questione, la loro esposizione era corretta nella forma, non si analizzava in un attacco gratuito contro la reputazione di altrui, e le informazione date erano obiettivamente vere.
14. Il tribunale di Milano esaminò a questo riguardo il contenuto di parecchi atti giudiziali o altri relativi alle persone citate nell’articolo che dimostrava che una certa diffidenza ed una mancanza di collaborazione erano esistite, nella cornice degli episodi riferiti nell’articolo, tra i carabinieri e le procure.
15. Certo, il Sig. R.I. aveva dato la sua interpretazione personale di questi episodi ed aveva, in modo passionale, preso partito per i carabinieri, che stimava, in sostanza, vittime di un accanimento della procura. C’era da parte sua un’evidente antipatia ed una mancanza di stima verso questo ultimo mentre una fiducia profonda ed una solidarietà sincera erano espresse in favore dei carabinieri. Se alcune inesattezze erano presenti nell’articolo, non costituivano però un’alterazione significativa dei fatti storici esposti, e le opinioni-discutibili e non divise dal tribunale di Milano-del Sig. R.I. erano una manifestazione della libertà di espressione di cui i cittadini in generale, ed i membri del Parlamento in particolare, godevano.
16. Era vero che il Sig. R.I. aveva utilizzato delle espressioni sgarbate, in particolare quando aveva menzionato il “piccolo gioco che la procura di Palermo mette in scena da dieci anni”; tuttavia, non aveva addotto l’esistenza di un complotto o di una strategia politica della procura contro i carabinieri.
B. Il procedimento di appello
17. La procura di Milano e le parti civili interposero appello contro questo giudizio.
18. Con una sentenza del 16 gennaio 2009 di cui il testo fu depositato alla cancelleria il 10 marzo 2009, la corte di appello di Milano condannò il ricorrente a quattro mesi di detenzione col beneficio della condizionale ed al pagamento degli oneri dei procedimenti di primo e seconda istanza. Condannò anche solidalmente il ricorrente e la società di edizione Società europea di edizioni S.p.a. a versare a ciascuna delle parti civili il seguente è: ha, 50 000 EUR a titolo di risarcimento del danno subito; b, 5 000 euros (EUR) a titolo del compenso pecuniario addizionale previsto dall’articolo 12 della legge no 47 di 1948; c, 18 000 EUR a titolo di onere di procedimento.
19. Stimò che il tribunale di Milano non aveva preso in considerazione il fatto che la responsabilità del direttore del giornale dipendeva da una carenza di controllo e che questo era responsabile della presentazione grafica di un articolo, dell’importanza e dello spazio assegnata a questo così come dei suoi titoli e sottotitoli. Di più, il tribunale aveva a torto “frazionato” l’articolo in quattro episodi (quelli riferito dal Sig. R.I). siccome essendo sintomatici di una guerra tra la procura ed i carabinieri, ed isolate certe frasi. Del parere della corte di appello, invece, l’articolo doveva leggere si nel suo insieme; una tale lettura mostrava chiaramente che l’autore era animato dall’intenzione di denigrare la procura di Palermo. Questo risultava del titolo, così come di certe affermazioni (per esempio, queste relative al fatto che la pratica Di Donno sarebbe restata al frigorifero durante sei mesi, alla “persecuzione” di cui il generale Mori sarebbe stato vittima, al “piccolo gioco” presumibilmente praticato dalla procura di aprire dei procedimenti penali destinati ad essere archiviate senza seguito. I magistrati della procura erano oggetto di accuse gravi, in particolare quella di avere utilizzato i loro poteri per le ragioni altri che il loro scopo istituzionale; così, avrebbero omesso di indagare su 44 politici ed imprenditori ed avrebbero permesso al pentito Di Maggio di commettere degli omicidi.
20. Peraltro, l’articolo era accompagnato da una fotografia che mostrava il generale Mori dinnanzi ad un edificio della polizia del fisco, accompagnata del seguente leggenda: “La persecuzione del generale. Gli attacchi verso Mario Mori si inseriscono nella cornice della guerra fatta ai carabinieri. Con lui fu implicato anche Giuseppe Di Donno, considerato come il collaboratore più affidabile di Giovanni Falcone.” Questo poteva avere solamente un valore suggestivo.
21. In quanto al tenore dell’articolo, superava una critica obiettiva ed aspra, e si analizzava in un’aggressione gratuita della sfera giuridica di altrui. In particolare, le espressioni utilizzate davano l’impressione che i magistrati della procura avevano condannato a morte il loro collega Paolo Borsellino, che avevano spinto al suicidio il maresciallo Lombardo, che erano dei “cani incatenati” del pentito Di Maggio.
22. Anche i membri del Parlamento non avevano il diritto di offendere e di ingiuriare; peraltro, prima di essere eletto senatore, il Sig. R.I. aveva scritto un libro intitolato “Il processo del secolo” in che riferiva degli episodi simili a quelli comparsa nell’articolo. Ora, questo libro era stato oggetto di numerosi procedimenti penali di cui certe si erano chiusi dalle condanne del Sig. R.I. chi aveva acquisito l’autorità della cosa giudicata.
23. IL SIG. R.I. non aveva menzionato la circostanza, risultando degli atti dei processi, che i carabinieri avevano omesso di mettere in opera un “dispositivo di osservazione” del “nascondiglio” del Sig. Riina, come la procura l’aveva chiesto, e che il generale Mori sé aveva dichiarato che c’era sempre stata collaborazione con la procura.
24. C’era probabilmente un interesse ad informare il pubblico in quanto ai possibili conflitti tra gli organi dello stato; però, nell’espressione delle sue opinioni su questi conflitti, il Sig. R.I. non aveva avuto la posizione di un “terzo osservatore dei fatti”, ma aveva accusato in modo puntuale Sigg. Caselli e Lo Forte di avere agito di malafede nell’esercizio delle loro funzioni. L’articolo conteneva delle insinuazioni gratuite che mirano a nuocere alla reputazione professionale dei magistrati in questione.
25. L’immunità di cui il Sig. R.I. beneficiava ai termini dell’articolo 68 § 1 della Costituzione non si dilungava al direttore del giornale che era tenuto di verificare il contenuto degli articoli che pubblicava anche quando questi erano stati scritti dai membri del Parlamento. Nello specifico, il ricorrente non aveva tenuto debitamente conto delle caratteristiche personali del Sig. R.I che da parecchi anni pubblicava degli scritti provocatori su questi stessi motivi e contro questi stessi magistrati, ciò che gli era valso delle condanne definitive per diffamazione.
26. Infine, la forza particolare del titolo, dei sottotitoli e delle leggende esigeva una più grande attenzione in quanto al controllo sulla veridicità di ciò che era affermato.
C. Il procedimento in cassazione
27. Il ricorrente si ricorse in cassazione.
28. Con una sentenza del 5 marzo 2010 di cui il testo fu depositato alla cancelleria il 8 aprile 2010, la Corte di cassazione, stimando che la corte di appello aveva motivato in modo corretta e logico tutti i punti controversi, respinse il ricorrente del suo ricorso. Lo condannò al rimborso degli oneri esposti in cassazione con le parti civili, o la somma totale di 3 000 EUR, ed al pagamento dei suoi oneri di procedimento.
29. La Corte di cassazione notò, in particolare, che la responsabilità penale del direttore del giornale era distinta di quella dell’autore dell’articolo e che l’immunità riconosciuta ad un membro del Parlamento non poteva essere estesa al direttore della pubblicazione.
IN DIRITTO
I. SULLA VIOLAZIONE ADDOTTA DELL’ARTICOLO 10 DELLA CONVENZIONE
30. Il ricorrente adduce che la sua condanna per diffamazione ha violato il suo diritto alla libertà di espressione, come previsto con l’articolo 10 della Convenzione, così formulata,:
“1. Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare delle informazione o delle idee senza che possa esserci ingerenza di autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo non impedisce gli Stati di sottoporre le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione ad un regime di autorizzazioni.
2. L’esercizio di queste libertà che comprendono dei doveri e delle responsabilità può essere sottomesso a certe formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge che costituiscono delle misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla sicurezza pubblica, alla difesa dell’ordine ed alla prevenzione del crimine, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazione confidenziali o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziale. “
31. Il Governo si oppone a questa tesi.
A. Sull’ammissibilità
32. La Corte constata che la richiesta non è manifestamente mal fondata al senso dell’articolo 35 § 3 ha, della Convenzione. La Corte rileva peraltro che non cozza contro nessuno altro motivo di inammissibilità. Conviene dichiararla ammissibile dunque.
B. Sul fondo
1. Argomenti delle parti
a) Il ricorrente
33. Se ammette che l’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione era prevista dalla legge e che inseguiva un scopo legittimo, il ricorrente contesta la sua necessità in una società democratica. Adduce che l’articolo incriminato aveva per scopo di informare la collettività in quanto alle opinioni del senatore R.I. in materia di giustizia e di lotta contro le organizzazioni criminali. In quanto direttore del quotidiano, non gli apparteneva di censurare le opinioni del senatore di cui la libertà di espressione era garantita dalla Costituzione lei stessa che contemplava un’immunità di principio dei parlamentare contro ogni responsabilità penale.
34. Il ricorrente sottolinea che il Senato ha riconosciuto bene a R.I. l’immunità contemplata 68 § 1 all’articolo della Costituzione e che ogni congettura in quanto alla decisione che la Corte costituzionale avrebbe potuto adottare a proposito di questa deliberazione rileva della pura speculazione. Peraltro, non apparterrebbe al Governo di giudicare della natura delle opinioni espresse da R.I. e le decisioni della Corte costituzionale citata col Governo, paragrafo 36 qui di seguito, non sarebbero pertinenti, perché relative ad altri articoli di stampa scritta con R.I.
35. Bisogna tenere conto per il fatto che l’autore dell’articolo faceva l’un politico che agisce nella cornice delle sue funzioni parlamentari, e che il ricorrente si è limitato a permettere che il quotidiano Egli Giornale pubblica le opinioni dell’interessato che riguardavano un motivo di interesse generale. Ogni intervento del ricorrente che mira a censurare l’articolo incriminato sarebbe stato visto come un tentativo di ridurre la libertà di espressione di un eletto del popolo. Lo scopo legittimo di proteggere la reputazione di due magistrati della procura non saprebbe, nello specifico, prevalere sul diritto del pubblico di essere informato. A questo riguardo, il ricorrente ricorda che l’articolo incriminato conteneva una critica della condotta di questi magistrati nella cornice di investigazioni concernente le organizzazioni criminali, e che avevano dato luogo ad una lite tra l’autorità giudiziale ed i carabinieri. Il senatore R.I. non si era concesso ad un attacco contro la magistratura nel suo insieme.
b) Il Governo
36. Il Governo nota a titolo preliminare che la deliberazione del Senato che riconosce l’immunità al senatore R.I. non è stata esaminata sul fondo con la Corte costituzionale, il conflitto tra poteri dello stato alzato dal GIP di Milano essendo stato dichiarato inammissibile per tardività, paragrafo 8 sopra. Si non può avere la certezza che il Senato non ha superato i suoi poteri dunque. A questo riguardo, il Governo ricorda che in un’altra causa che riguarda un articolo scrive dal Sig. R.I, diffamatorio contro un altro magistrato di Palermo, la Corte costituzionale, sentenza no 205 del 17 luglio 2012, ha stimato che le opinioni espresse dal senatore non erano legate all’esercizio delle sue funzioni parlamentari. È ragionevole pensare che la Corte costituzionale sarebbe giunta ai conclusioni simili nella presente causa, se il ricorso per conflitto tra poteri non fosse stato introdotto fuori termine.
37. La Corte lei stessa ha precisato peraltro che nella mancanza di un legame evidente tra i propositi incriminati ed un’attività parlamentare, l’immunità contemplata 68 § 1 all’articolo della Costituzione può violare il diritto di accesso ad un tribunale dello diffamato (vedere, in particolare, Cordova c. Italia, il nostro 1 e 2, i nostri 40877/98 e 45649/99, 30 gennaio 2003; Di Jorio c. Italia, no 73936/01, 3 giugno 2004; Ielo c. Italia, no 23053/02, 6 dicembre 2005; e CGIL e Cofferati c. Italia, no 46967/07, 24 febbraio 2009. Riconoscere la stessa immunità ad un motivo-il direttore del giornale-no membro del Parlamento priverebbe lo diffamato di ogni azione in giustizia, situazione che la Corte sarebbe portata immancabilmente a giudicare contrario all’articolo 6 della Convenzione.
38. Il Governo osserva per di più che il ricorrente adduce una violazione del suo diritto di informare il pubblico in quanto agli opinioni politici espressi da un senatore e che la sua responsabilità penale derivava dell’articolo 57 del CP, disposizione che punisce le negligenze nel controllo del contenuto di un giornale col suo direttore. L’immunità riconosciuta al Sig. R.I. non ledeva in niente l’esistenza del reato rimproverato al ricorrente. Peraltro, questa immunità non esclude la commissione di una diffamazione, ma implica semplicemente che l’autore di questa non può essere giudicato né punito.
39. L’ingerenza inseguiva due scopi legittimi: la protezione della reputazione o dei diritti di altrui e la garanzia dell’autorità e dell’imparzialità del potere giudiziale. I corsi di appello e di cassazione hanno considerato a buon diritto che l’articolo del senatore R.I. era offensivo e che si analizzava in un attacco gratuito ed ingiustificato contro il potere giudiziale e la reputazione personale e professionale di Sigg. Caselli e Lo Forte.
40. Per ciò che è della giustificazione e della necessità dell’ingerenza, il Governo nota che secondo la corte di appello, il Sig. R.I. aveva dato una visione deformata dei rapporti esistenti tra le procure di Palermo ed i carabinieri, menzionando una “guerra” tra queste due istituzioni ed un “persecuzioni” degli agenti che non si allineavano sui magistrati Caselli e Lo Forte. Di più, questi ultimi non avrebbero rispettato i loro doveri istituzionali. Il vocabolario utilizzato nell’articolo, le allusioni contenute e gli amalgami tra i differenti fatti riferiti che non corrispondevano fedelmente tutti alla realtà, sono stati presi anche in conto. Il tribunale di Milano aveva omesso di considerare che le opinioni espresse dovevano basarsi su dei fatti reali e probabili. La natura offensica dellìarticolo risulterebbe allo stesso modo dal titolo e dal sottotitolo dell’articolo (e dalla fotografia che l’accompagnava) , di cui il direttore del giornale avrebbe dovuto essre ritenuto responsabile. In più, il ricorrente non aveva tenuto sufficientemente conto della personalità del Sig. R.I. e dei suoi antecedenti.
41. L’obbligo di controllo che pesa sul direttore di un giornale non deve essere guardato come quella di esercitare una “censura” su un articolo scrive da un membro del Parlamento; si tratta semplicemente di evitare che i reati siano commessi dal verso della pubblicazione che dirige. La sola circostanza che un articolo è stato scritto da un senatore che beneficia dell’immunità contemplata 68 § 1 all’articolo della Costituzione non saprebbe esonerare il direttore del giornale del suo dovere di controllo.
42. Le giurisdizioni italiane hanno proceduto ad un esame dettagliato della causa, e hanno concluso a buon diritto che l’articolo incriminato offendeva gravemente la reputazione professionale di due magistrati di Palermo, presentata come inabile ad assolvere le loro funzioni e prestiti ad abusare di queste, e dell’autorità giudiziale considerata nel suo insieme, contribuendo con là a minare la fiducia del pubblico nell’amministrazione giudiziale. IL SIG. R.I. non aveva superato solamente i limiti della critica ammissibile in una società democratica, aveva assegnato anche ai magistrati in questione dei comportamenti specifici senza verificare i fatti e senza portare delle prove che corroborano le sue affermazioni. In quanto direttore del giornale, il ricorrente aveva il potere ed il dovere di evitare che la dibattito politica non degenera in insulti o attacchi personali.
2. Valutazione della Corte
ha, Sull’esistenza di un’ingerenza
43. Non suscita controversia tra le parti che la condanna del ricorrente ha costituito un’ingerenza nel diritto di questo ultimo alla libertà di espressione, come garantito con l’articolo 10 § 1 della Convenzione.
b, Sulla giustificazione dell’ingerenza,: la previsione con la legge ed il perseguimento di un scopo legittimo
44. Un’ingerenza è contraria alla Convenzione se non rispetta le esigenze contemplate al paragrafo 2 dell’articolo 10. C’è luogo dunque di determinare se era “prevista dalla legge”, se prevedeva uno o parecchi degli scopi legittimi enunciati in questo paragrafo e se fosse “necessaria in una società democratica” per raggiungere questo o questi scopi, Pedersen e Baadsgaard c. Danimarca, no 49017/99, § 67, CEDH 2004-XI.
45. Non è contestato che l’ingerenza era prevista sopra dalla legge, a sapere con l’articolo 57 del CP, paragrafo 7. La Corte non ha a ricercare se la condanna del ricorrente prevedeva lo scopo legittimo che costituisci la protezione del potere giudiziale perché ammette che ad ogni modo l’ingerenza poteva rivendicare si di un altro scopo legittimo, a sapere la protezione della reputazione o dei diritti di altrui, nell’occorrenza di Sigg. Caselli e Lo Forte (vedere, mutatis mutandis, Nikula c. Finlandia, no 31611/96, § 38, CEDH 2002-II; Perna c. Italia [GC], no 48898/99, § 42, CEDH 2003-V; ed Ormanni c. Italia, no 30278/04, § 57, 17 luglio 2007.
46. Resta a verificare se l’ingerenza era “necessaria in una società democratica.”
c) Sulla necessità dell’ingerenza in una società democratica
i. Principi generali
47. La stampa gioca un ruolo eminente in una società democratica: se non deve superare certi limiti, tenendo in particolare alla protezione della reputazione ed ai diritti di altrui, gli spetta tuttavia di comunicare, nel rispetto dei suoi doveri e delle sue responsabilità, delle informazione e delle idee su tutte le questioni di interesse generale, ivi compreso queste della giustizia, Di Haes e Gijsels c. Belgio, 24 febbraio 1997, § 37, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-I. Alla sua funzione che consiste in diffondere ne si aggiunge il diritto, per il pubblico, di ricevere ne. Se ne andasse diversamente, la stampa non potrebbe sostenere il suo ruolo indispensabile di “cane da guardia”, Thorgeir Thorgeirson c. Islanda, 25 giugno 1992, § 63, serie Ha no 239, e Bladet Tromsø e Stensaas c. Norvegia [GC], no 21980/93, § 62, CEDH 1999-III. Oltre la sostanza delle idee ed informazione espresse, l’articolo 10 protegge il loro modo di espressione, Oberschlick c. Austria (no1), 23 maggio 1991, § 57, serie Ha no 204. La libertà giornalistica comprende anche il ricorso possibile ad una certa dose di esagerazione, o addirittura di provocazione, Prager ed Oberschlick c. Austria, 26 aprile 1995, § 38, serie Ha no 313, e Thoma c. Lussemburgo, no 38432/97, §§ 45 e 46, CEDH 2001-III.
48. I limiti della critica ammissibile possono in certo caso essere più largo per i funzionari che agiscono nell’esercizio dei loro poteri che per i semplici particolari. Però, si saprebbe dire solamente i funzionari si esporsi volontariamente esattamente ad un controllo attento dei loro fatti e gesti come questo è il caso per i politici e dovrebbero essere trattati quindi su un piede di uguaglianza con questi ultimi quando sono in causa delle critiche del loro comportamento. I funzionari devono, per liberarsi dalle loro funzioni, beneficiare della fiducia del pubblico senza essere perturbati indebitamente ed egli può rivelarsi quindi necessario di proteggerli contro gli attacchi privi di fondamento serio, Janowski c. Polonia [GC], no 25716/94, § 33, CEDH 1999-I, e Nikula, precitata, § 48. A questo riguardo, conviene ricordare che l’azione dei tribunali che sono posteggiati della giustizia e di cui la missione è fondamentale in un Stato di diritto, ha bisogno della fiducia del pubblico per funzionare bene, Di Haes e Gijsels, precitata, § 37; Schöpfer c. Svizzera, 20 maggio 1998, § 29, Raccolta 1998-III; e Sgarbi c. Italia, déc.), no 37115/06, 21 ottobre 2008.
49. L’aggettivo “necessario”, al senso dell’articolo 10 § 2, implica l’esistenza di un “bisogno sociale imperioso.” Gli Stati contraenti godono di un certo margine di valutazione per giudicare dell’esistenza di un tale bisogno, ma questo margine va di pari in passo con un controllo europeo che cade al tempo stesso sulla legge e sulle decisioni che applicano questa, anche quando provengono di una giurisdizione indipendente. La Corte ha competenza per deliberare sul punto di sapere da ultimo dunque se una “restrizione” si concilia con la libertà di espressione protetta con l’articolo 10 (Janowski, precitata, § 30, ed Associazione Ekin c. Francia, no 39288/98, § 56, CEDH 2001-VIII.
50. In particolare, incombe sulla Corte di determinare se i motivi invocati dalle autorità nazionali per giustificare l’ingerenza appaiono “pertinenti e sufficienti” e se la misura incriminata era “proporzionata agli scopi legittimi perseguiti”, Chauvy ed altri c. Francia, no 64915/01, § 70, CEDH 2004-VI. Ciò che fa, la Corte deve convincersi che le autorità nazionali hanno, basandosi su una valutazione accettabile dei fatti pertinenti, applicato delle regole conformi ai principi consacrati dall’articolo 10 (vedere, tra molto altri, Zana c. Turchia, 25 novembre 1997, § 51, Raccolta 1997-VII; Di Diego Nafría c. Spagna, no 46833/99, § 34, 14 marzo 2002; Pedersen e Baadsgaard precitata, § 70.
51. Per valutare la giustificazione di una dichiarazione contestata, c’è luogo di distinguere tra dichiarazioni dei fatti e giudizi di valore. Se la fisicità dei fatti può dimostrarsi, i secondo non suscitano una dimostrazione della loro esattezza, Oberschlick c. Austria (no 2), 1 luglio 1997, § 33, Raccolta 1997-IV. L’attribuzione ad una dichiarazione della qualifica di fatto o di giudizio di valore rileva del margine di valutazione delle autorità nazionali in primo luogo, in particolare delle giurisdizioni interne, Prager ed Oberschlick, precitata, § 36. Tuttavia, anche quando una dichiarazione equivale ad un giudizio di valore, deve basarsi su una base factuelle sufficiente, mancanza di cui sarebbe eccessiva, Gerusalemme c. Austria, no 26958/95, § 43, CEDH 2001-II.
52. Il diritto dei giornalisti di comunicare delle informazione su delle questioni di interesse generale è protetto purché agiscono di buona fede, sulla base di fatti esatti, e forniscono delle informazione “affidabili e precise” nel rispetto dell’etica giornalistica (vedere, per esempio, le sentenze precitati Fressoz e Roire, § 54, Bladet Tromsø e Stensaas, § 58, e Prager ed Oberschlick, § 37. Il paragrafo 2 dell’articolo 10 della Convenzione sottolinea che l’esercizio della libertà di espressione comprende dei “doveri e responsabilità” che valgono anche anche per i media trattandosi di questioni di un grande interesse generale. Di più, questi doveri e responsabilità possono rivestire dell’importanza quando si rischia di recare per nome offesa alla reputazione di una persona citata e di nuocere ai “diritti di altrui.” Così, devono esistere dei motivi specifici per potere rilevare i media dell’obbligo che tocca loro in principio di verificare potenzialmente i dichiarazioni factuelles diffamatori contro individui. A questo riguardo, entrano specialmente in gioco la natura ed il grado della diffamazione in causa e la questione di sapere a che punto il media può considerare ragionevolmente le sue sorgenti come credibili per ciò che è delle affermazioni incriminate (vedere, entri altri, McVicar c. Regno Unito, no 46311/99, § 84, CEDH 2002-III, e Standard Verlagsgesellschaft MBH, (no 2, c,). Austria, no 37464/02, § 38, 22 febbraio 2007.
53. La natura e la pesantezza delle pene inflitte sono anche degli elementi a prendere in considerazione quando si tratta di misurare la proporzionalità dell’ingerenza (vedere, per esempio, Ceylon c. Turchia [GC], no 23556/94, § 37, CEDH 1999-IV, e Tammer c. Estonia, no 41205/98, § 69, CEDH 2001-I. In particolare, nel causa Cumpănă e Mazăre c. Romania ([GC], no 33348/96, §§ 113-115, CEDH 2004-XI, la Corte ha affermato i seguenti principi:
“113. Se gli Stati contraenti hanno la facoltà, addirittura il dovere, in virtù dei loro obblighi positivi a titolo dell’articolo 8 della Convenzione, di regolamentare l’esercizio della libertà di espressione in modo da garantire una protezione adeguata con la legge della reputazione degli individui, devono evitare ciò che fa di adottare delle misure proprie a dissuadere i media di assolvere il loro ruolo di allerta del pubblico in caso di abusi apparenti o supposti del potere pubblico. I giornalisti di investigazione rischiano di essere reticenti ad esprimersi su delle questioni che presentano un interesse generale se inseguono il pericolo di essere condannati, quando la legislazione contempla delle tali sanzioni per gli attacchi ingiustificati contro la reputazione di altrui, alle pene di prigione o di interdizione di esercizio della professione.
114. L’effetto dissuasivo che il timore delle uguali sanzioni porta per l’esercizio con questi giornalisti della loro libertà di espressione è manifesto. Nocivo per la società nel suo insieme, gli fa anche partire degli elementi a prendere in conto nella cornice della valutazione della proporzionalità-e dunque della giustificazione-delle sanzioni inflitte.
115. Se la determinazione delle pene è in principio l’appannaggio delle giurisdizioni nazionali, la Corte considera che una pena di prigione inflitta per una violazione commessa nella tenuta della stampa non è compatibile con la libertà di espressione giornalistica garantita dall’articolo 10 della Convenzione che nelle circostanze eccezionali, in particolare quando di altri diritti fondamentali sono stati raggiunti gravemente come nell’ipotesi, per esempio, della diffusione di un discorso di odio o di incitamento alla violenza. “
54. Conviene ricordare, infine che nelle cause siccome la presente che necessitano un collocamento in bilancia del diritto al rispetto della vita privata e del diritto alla libertà di espressione, la Corte considera che la conclusione della richiesta non saprebbe in principio variare a seconda che è stata portata dinnanzi a lei, sotto l’angolo dell’articolo 8 della Convenzione, con la persona che è oggetto del servizio o, sotto l’angolo dell’articolo 10, con l’editore che l’ha pubblicato. Difatti, i diritti rispettivamente garantiti con queste disposizioni meritano ha a priori un uguale rispetto. Quindi, il margine di valutazione dovrebbe in principio essere lo stesso nei due casi. Se il collocamento in bilancia con le autorità nazionali si è fatto nel rispetto dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, occorre delle ragioni serie affinché questa sostituisce il suo parere a quello delle giurisdizioni interne, MGN Limited c. Regno Unito, no 39401/04, §§ 150 e 155, 8 gennaio 2011; Palomo Sánchez ed altri c. Spagna [GC], nostri 28955/06, 28957/06, 28959/06 e 28964/06, § 57, ECHR 2011 -.. ; e Von Hannover c. Germania (no 2) [GC], i nostri 40660/08 e 60641/08, §§ 106-107, ECHR 2012 -..).
ii. Applicazione di questi principi al caso di specie
55. La Corte osserva innanzitutto che l’articolo del Sig. R.I. riguardava un motivo di interesse generale, a sapere i rapporti che esistono anche tra la procura ed i carabinieri di Palermo in una tenuta delicata che quello della lotta contro la mafia. La corte di appello di Milano ha ammesso peraltro che c’era un interesse ad informare il pubblico in quanto ai possibili conflitti tra gli organi dello stato, paragrafo 24 sopra.
56. In quanto al tenore dell’articolo incriminato, la Corte non saprebbe considerare come arbitrarietà o manifestamente erronea la valutazione della corte di appello di Milano secondo la quale il Sig. R.I. aveva assegnato ai magistrati della procura dei comportamenti che implicano un’utilizzazione deviata dai loro poteri istituzionali, come una “persecuzione” contro il generale Mori, il “piccolo gioco” che consiste nell’apertura di procedimenti penali destinati ad essere archiviate senza seguito, l’omissione di indagare su certi politici ed imprenditori e la possibilità, lasciate sopra al pentito Di Maggio, di commettere degli omicidi, paragrafo 19. Di più, l’articolo dava l’impressione che i magistrati in questione avevano spinto al suicidio il maresciallo Lombardo e che erano di un certi modo responsabile della morte di uno dei loro colleghi, paragrafo 21 sopra. Agli occhi della Corte, si tratta di accuse gravi contro funzionari dello stato, non supportate dagli elementi obiettivi. Difatti, i quattro episodi che secondo il Sig. R.I. erano sintomatici di una “guerra” tra le procure ed i carabinieri non potevano in loro stessi costituire sopra la prova dei comportamenti riassunti.
57. Sotto questo aspetto, la presente causa si avvicina del causa Perna, precitata che riguardava inoltre la condanna di un giornalista per avere messo in dubbio la fedeltà al principio di legalità, l’obiettività e l’indipendenza di un membro della procura, accusandolo, di avere esercitato il suo ufficio in modo scorretto e di avere avuto un comportamento illegale. In questa ultima mi affaccendo, la Grande Camera ha concluso alla no-violazione dell’articolo 10 della Convenzione osservando, entra altri, che il testo controverso, considerato nella sua globalità, “escludeva che il magistrato riguardato fosse rispettoso degli obblighi deontologici propri alla sua funzione e gli negava per di più i requisiti di imparzialità, di indipendenza e di obiettività che caratterizza l’esercizio dell’attività giudiziale”. Di più, le affermazioni del ricorrente si ridursi ad un attacco ingiustificato contro il querelante che era costantemente e denigrate sottilmente.
58. È vero che il causa Perna riguardava la condanna dell’autore dell’articolo, mentre la presente causa cade sulla condanna del direttore del giornale in che l’articolo era stato pubblicato, per avere omesso di esercitare il controllo necessario alla prevenzione della commissione di reati con via di stampa. Però, la Corte non saprebbe né considerare come contrario alla Convenzione l’articolo 57 del CP che pone questo dovere di controllo, paragrafo 7 sopra, né stimare che la qualità di membro del Parlamento dell’autore di un articolo possa esonerare automaticamente il direttore di un giornale di ogni obbligo di rifiutare la pubblicazione di affermazioni diffamatorie. Concludere equivarrebbe diversamente ad assegnare ai deputati ed ai senatori il dritto incondizionato di pubblicare e diffondere con la stampa ogni opinione legata all’esercizio del loro mandato parlamentare, così ingiurioso o lei. A questo riguardo, la Corte ricorda che la libertà di espressione degli eletti del popolo non è illimitata; ha stimato, in particolare, che non saprebbe giustificare un diniego totale di accesso alla giustizia quando delle affermazioni percepite come diffamatori con altrui sono fatte da un membro del Parlamento nella mancanza di un legame evidente con un’attività parlamentare (vedere, entra altri, Cordova (no 1), precitata, §§ 59-66. Il ricorrente non era esonerato del suo dovere di controllo dunque, e ciò di tanto più allo visto degli antecedenti del Sig. R.I. chi, in dispetto della sua qualità di senatore, era stato già oggetto di condanne penali definitive per diffamazione, paragrafi 22-25 sopra.
59. Bisogna avere anche riguardo al fatto che il direttore di un giornale è responsabile del modo di cui un articolo è presentato e dell’importanza che gli è assegnata in seno alla pubblicazione. Nello specifico, l’articolo del Sig. R.I. era corredato da una fotografia che mostrava il generale Mori dinnanzi ad un edificio della polizia del fisco con una leggenda che faceva riferimento alla “persecuzione” di questo ufficiale ed alla “guerra fatta ai carabinieri”, paragrafo 20 sopra. Del parere della Corte, questa presentazione grafica contribuiva a corroborare presso dei lettori le tesi esposte nell’articolo, ivi compreso queste potendo analizzarsi in un attacco verso la reputazione professionale dei magistrati della procura.
60. Alla luce di ciò che precede, la Corte saprebbe concludere solamente una condanna contro il ricorrente era in si contrario all’articolo 10 della Convenzione.
61. Non ne rimane meno che, come ricordato sopra al paragrafo 53, la natura e la pesantezza delle pene inflitte sono anche degli elementi a prendere in considerazione quando si tratta di misurare la proporzionalità dell’ingerenza. Ora, nello specifico, oltre il risarcimento dei danni, per un importo totale di 110 000 EUR, il ricorrente è stato condannato a quattro mesi di detenzione, paragrafo 18 sopra. Sebbene ci sia stato sospesi all’esecuzione di questa sanzione, la Corte considera che l’infliction in particolare di una pena di prigione ha potuto avere un effetto dissuasivo significativo. Peraltro, il caso di specifico, cadendo su una mancanza di controllo nella cornice di una diffamazione, non era segnato da nessuna circostanza eccezionale che giustifica anche il ricorso ad una sanzione severa. Questo permette di distinguere la presente causa del causa Perna, precitata, dove la pena inflitta era una semplice multa.
62. La Corte stima che, a causa della misura e della natura della sanzione imposta al ricorrente, l’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione di questo ultimo non era proporzionata agli scopi legittimi perseguiti (vedere, mutatis mutandis, Koprivica c. Montenegro, no 41158/09, §§ 73-74, 22 novembre 2011.
63. C’è stata dunque violazione dell’articolo 10 della Convenzione.
II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
64. Ai termini dell’articolo 41 della Convenzione,
“Se la Corte dichiara che c’è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente permette di cancellare solo imperfettamente le conseguenze di questa violazione, la Corte accorda alla parte lesa, se c’è luogo, una soddisfazione equa. “
A. Danno
65. Il ricorrente richiede 10 000 EUR a titolo del danno morale che avrebbe subito.
66. Il Governo osserva che il ricorrente non ha fornito nessuna prova di questo danno e non ha precisato ne che cosa sarebbe consistito. Di più, non ha provato l’esistenza di un legame di causalità tra il preteso danno e le violazioni dell’articolo 10 della Convenzione.
67. La Corte considera che c’è luogo di concedere al ricorrente 10 000 EUR a titolo del danno morale.
B. Oneri e spese
68. Basandosi su una nota spese del suo consigliere, il ricorrente chiede anche 5 133,60 EUR per gli oneri e le spese impegnati dinnanzi alla Corte.
69. Il Governo stima questo importo eccessivo allo sguardo dell’attività compiuta dal consigliere del ricorrente e dalle tabelle di rimunerazione delle prestazioni giuridiche in vigore in Italia.
70. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso dei suoi oneri e spese solo nella misura in cui si stabilisca la loro realtà, la loro necessità ed il carattere ragionevole del loro tasso. Nello specifico e tenuto conto dei documenti in suo possesso e della sua giurisprudenza, la Corte stima ragionevole la somma di 5 000 EUR per il procedimento dinnanzi a lei e l’accorda al ricorrente.
C. Interessi moratori
71. La Corte giudica appropriato di ricalcare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse della facilità di prestito marginale della Banca centrale europea aumentato di tre punti percentuale.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,
1. Dichiara la richiesta ammissibile;

2. Stabilisce che c’è stata violazione dell’articolo 10 della Convenzione;

3. Stabilisce
a) che lo stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi a contare del giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, il seguente somme:
i, 10 000 EUR, diecimila euro, più ogni importo che può essere dovuto a titolo di imposta, per danno morale,;
ii, 5 000 EUR, cinquemila euro, più ogni importo che può essere dovuto a titolo di imposta col ricorrente, per oneri e spese,;
b) che a contare dalla scadenza di suddetto termine e fino al versamento, questi importi saranno da aumentare di un interesse semplice ad un tasso uguale a quello della facilità di prestito marginale della Banca centrale europea applicabile durante questo periodo, aumentato di tre punti percentuale;

4. Respinge la domanda di soddisfazione equa per il surplus.
Fatto in francese, poi comunicato per iscritto il 24 settembre 2013, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 dell’ordinamento.
Stanley Naismith Danutė Jočienė
Cancelliere Presidentessa

Testo Tradotto

Conclusions: Violation de l’article 10 – Liberté d’expression-{Générale} (Article 10-1 – Liberté d’expression)
Préjudice moral – réparation

DEUXIÈME SECTION

AFFAIRE BELPIETRO c. ITALIE

(Requête no 43612/10)

ARRÊT

STRASBOURG

24 septembre 2013

Cet arrêt deviendra définitif dans les conditions définies à l’article 44 § 2 de la Convention. Il peut subir des retouches de forme.

En l’affaire Belpietro c. Italie,
La Cour européenne des droits de l’homme (deuxième section), siégeant en une chambre composée de :
Danutė Jočienė, présidente,
Guido Raimondi,
Peer Lorenzen,
András Sajó,
Işıl Karakaş,
Nebojša Vučinić,
Helen Keller, juges,
et de Stanley Naismith, greffier de section,
Après en avoir délibéré en chambre du conseil le 3 septembre 2013,
Rend l’arrêt que voici, adopté à cette date :
PROCÉDURE
1. A l’origine de l’affaire se trouve une requête (no 43612/10) dirigée contre la République italienne et dont un ressortissant de cet Etat, M. M B. (« le requérant »), a saisi la Cour le 27 juillet 2010 en vertu de l’article 34 de la Convention de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentales (« la Convention »).
2. Le requérant a été représenté par Me V. L., avocat à Milan. Le gouvernement italien (« le Gouvernement ») a été représenté par son agent, Mme E. Spatafora.
3. Le requérant allègue que sa condamnation pour diffamation a violé son droit à la liberté d’expression.
4. Le 26 octobre 2012, la requête a été communiquée au Gouvernement. Comme le permet l’article 29 § 1 de la Convention, il a en outre été décidé que la chambre se prononcerait en même temps sur la recevabilité et le fond.
EN FAIT
5. Le requérant est né en 1958 et réside à Milan.
I. L’ARTICLE PUBLIÉ DANS LE QUOTIDIEN IL GIORNALE
6. A l’époque des faits, le requérant était le directeur du quotidien Il Giornale. Le 7 novembre 2004, ce dernier publia un article, signé par le sénateur R.I., intitulé « Mafia, treize ans de différends entre le parquet et les carabiniers » (Mafia, tredici anni di scontri tra P.M. e carabinieri) et sous titré « Ce qui se cache derrière le procès fait au général Mori et au colonel « Ultimo » pour la planque de Riina ». Dans ses parties pertinentes, cet article se lisait comme suit :
« La guerre des magistrats de Palerme contre les carabiniers a commencé le 16 février 1991, lorsque le capitaine Giuseppe De Donno communiqua au procureur Giovanni Falcone les conclusions de son enquête sur la mafia et l’attribution des travaux publics. De Donno (…) avait fait un très bon travail (…). Mais Falcone était en train de partir pour Rome (…) et le dossier de De Donno resta entre les mains des procureurs Guido Lo Forte et Giuseppe Pignatone, que l’on appelait « les gémeaux » (…), et pendant six mois personne ne sut rien à son égard. (…) dans le dossier étaient indiqués les noms de 44 hommes d’affaires et hommes politiques de tous les partis, y compris de l’opposition, mais aucun d’entre eux ne fut dérangé. Au contraire, comme l’a déclaré [M.] Li Pera (…) déjà le 22 février (…) les intéressés, hommes politiques, entrepreneurs et mafieux, avaient été avertis et mis en garde : « fais attention », avaient dit à Li Pera lui-même les dirigeants de sa société, et un certain Angelo Silino (…) lui avait donné la liste des travaux publics et des noms cités dans le dossier du capitaine De Donno. Qui avait donné à Silino les noms et les chiffres ?
On ne le saura jamais. Mais entre-temps le dossier de De Donno a été écrémé et appauvri, les entrepreneurs et les hommes politiques sont sortis de la scène, on a mis en échec les petits poissons et Li Pera et Silino ont été arrêtés. Li Pera confirme ses accusations contre le parquet de Palerme devant les magistrats de Caltanissetta et le capitaine De Donno communiquera aux mêmes magistrats les enregistrements de ses conversations avec Silino, dans lesquelles Silino lui-même parle du procureur Lo Forte comme s’il était son informateur. Mais Silino (…) se justifie en soutenant que les carabiniers l’ont poussé à accuser Lo Forte. Lo Forte porte plainte pour accusations calomnieuses contre De Donno, et Giancarlo Caselli interroge le colonel Mario Mori, (…). Il n’en sera rien, Mori et De Donno ne seront pas incriminés et parallèlement le parquet de Caltanissetta classera sans suite les enregistrements avec les accusations de Silino. (…).
Le deuxième différend a lieu au cours du procès contre Giulio Andreotti. Les carabiniers, afin de vérifier les accusations de Tommaso Buscetta (…) vont interroger le boss qui est détenu dans les prisons américaines. S’y rend le maréchal Antonino Lombardo (…), accompagné par le capitaine Mario Obinu, et ils convainquent le boss, qui a fermement contredit Buscetta, de venir témoigner au procès en Italie. Dans le rapport qu’il consigne à la station des carabiniers, le capitaine Obinu (…) écrit en toutes lettres que le procureur de Palerme qui a participé à la mission lui a déconseillé d’insister pour convaincre Badalamenti à venir témoigner en Italie car cela pourrait affaiblir la « thèse de l’accusation » contre Andreotti. Les carabiniers cependant insistent et le maréchal Lombardo est chargé de retourner aux Etats-Unis pour chercher Badalamenti et l’amener au procès. Lombardo prépare les papiers, prélève à la caisse l’argent pour les tickets d’avion et va à la maison pour faire ses valises. Le soir même, au cours de l’émission télévisée de Michele Santoro, l’ancien maire de Palerme Leoluca Orlando accuse le maréchal Lombardo de connivence avec la mafia. Le commandant général des carabiniers téléphone en vain pour intervenir au cours de l’émission et le commandant des carabiniers de Palerme demande en vain au parquet de défendre Lombardo. Le maréchal, qui en vient même à craindre d’être arrêté, met fin à ses jours dans la cour de la caserne en se tirant une balle avec son arme de service : dans sa lettre d’adieu à sa famille il a écrit que ses ennuis ont commencé avec les « voyages américains » et qu’il a été victime d’un « clash de pouvoirs ».
Le lieutenant des carabiniers Carmelo Canale – beau-frère de Lombardo, et ancien collaborateur principal de Paolo Borsellino –, témoignant devant la Commission parlementaire pour la lutte contre la mafia, soutient qu’on a voulu empêcher Lombardo d’amener Badalamenti à témoigner pour démentir les accusations de Buscetta envers Andreotti, et que Leoluca Orlando a été informé par le parquet de la mission du maréchal aux Etats-Unis. Canale sera accusé par sept « repentis » d’avoir été à son tour un collaborateur de la mafia et d’avoir donné à des mafieux, des hommes politiques et des entrepreneurs le dossier de De Donno sur la mafia et les travaux publics. Son procès est encore en cours.
Le troisième différend entre le parquet de Palerme et les carabiniers a lieu chez Balduccio Di Maggio, le « repenti » qui a vu de ses propres yeux Andreotti et Totò Riina qui s’embrassaient. Alors que tout le monde croit que Di Maggio (…) vit protégé et surveillé dans une localité secrète du continent, l’on découvre grâce à une série d’écoutes téléphoniques que le boss est rentré en Sicile pour reconstituer son clan et planifie d’assassiner les membres du clan adverse. Les transcriptions des écoutes, que les carabiniers affirment avoir régulièrement consignées au parquet, parviennent au Parlement et aux journaux, en provoquant des éclats. Mais le procureur Caselli écrit au président de la Commission pour la lutte contre la mafia que rien n’est vrai, que tout est en règle et qu’il s’agit seulement de « la gestion dynamique du repenti ». Et au lieu d’arrêter Di Maggio, il inscrit dans le registre des accusés pour [l’infraction de] connivence personnelle le colonel Carlo Giovanni Meli (…), responsable des écoutes et également consultant de la Commission pour la lutte contre la mafia, et incrimine, pour calomnie contre Di Maggio, le « repenti » Giovanni Brusca, qui, ayant lu dans les journaux les écoutes des carabiniers, raconte dans le détail aux magistrats ce que Di Maggio est en train de faire et se prépare à faire. C’est uniquement lorsqu’on trouve (…) les cadavres des personnes assassinées par Di Maggio (…) qu’on décide de le capturer. Et lorsque, [une fois celui-ci] conduit à l’audience, les avocats d’Andreotti lui demandent pourquoi il s’était permis de faire (…) ce qu’il avait fait, le « repenti » répond qu’il était sûr de l’impunité, car il avait les « chiens enchaînés », ce qui signifie que les magistrats du parquet de Palerme n’auraient pas osé le toucher. Et qui seraient, précisément, d’après lui, ces « chiens enchaînés » ? C’est alors que Di Maggio, se tournant vers les trois procureurs de l’accusation au procès Andreotti et les regardant bien en face, en mentionne les noms : « Lo Forte, Scarpinato et Natoli … ».
Dans ce contexte, celui d’une guerre aux carabiniers qui n’est jamais finie, on trouve la persécution du général Mario Mori (….).
Tout comme pour De Donno, pour Canale, pour Lombardo, pour Obinu, pour Meli, l’« infraction » présumée de connivence personnelle [commise par] De Caprio et Mori n’existe pas. L’histoire du « papello », le morceau de papier avec les demandes de la mafia, qui aurait été le protocole de la « négociation » avec l’Etat, est pour une grande partie inventée, et au demeurant est publique et sans importance : les mafieux proclament à chaque fois qu’ils comparaissent dans les salles d’audience qu’ils refusent la torture du régime pénitencier à haute sécurité de l’article 41bis et qu’ils en demandent l’abolition (…). Et de toute manière cela n’a rien à voir avec la tentative de Mori (…) de parvenir à arrêter Riina par le biais de Vito Ciancimino (…).
Pour ce qui concerne l’histoire de la « planque » de Riina qui ne fut pas perquisitionnée tout de suite après son arrestation, il s’agit d’un choix stratégique visant à capturer les autres aussi, et il fut décidé et approuvé par tous les magistrats du parquet, en commençant par le procureur Caselli. Et seul un fou peut penser que Mori et De Caprio l’ont laissé sans surveillance pendant 19 jours à la suite d’un « accord » avec la mafia : s’il s’agissait de permettre aux amis de Riina de prendre les « documents » qui y étaient cachés (…) pourquoi leur donner 19 jours, un temps d’une longueur singulière au point d’en être « outrancière » ? 19 heures n’auraient pas suffi (…) ? Et savez-vous ce qu’il répond à cette simple, élémentaire objection (…), ce juge de Palerme qui a rejeté la demande de classement du parquet ? Il écrit ceci : « Il semble superflu d’observer qu’un accord tel qu’on l’imagine, passé durant une période où l’Etat était prostré (…), n’aurait assurément pas vu les « parties contractantes » dans une situation d’égalité, la partie des institutions n’ayant pas un pouvoir contractuel de nature à lui permettre d’imposer des conditions de toute sorte ». (…).
Les 93 pages de l’ordonnance de la juge Vincenzina Massa sont pleines de perles de ce type (…). Mais il est peut-être erroné de s’en prendre à Mme Massa, qui a fait quelque chose de méritoire : avec son coup de tête, imprévu et imprévisible, elle a fait sauter le petit jeu que le parquet de Palerme met en scène depuis dix ans : moi, j’inscris ton nom dans le registre des personnes accusées et j’enquête sur toi pendant deux ans, autant que la loi le permet, puis ne trouvant pas d’éléments suffisants pour demander le renvoi en jugement, je demande le classement, mais, en le demandant, je te recouvre d’injures et d’insultes (contumelie), de manière à ce que tu en sois en tout cas « massacré », et puis je reprends et je rouvre l’enquête, et deux ans plus tard, je demande à nouveau le classement, mais toujours en le colorant d’injures et d’insultes, et ainsi de suite pour l’éternité… Pour l’éternité, je te tiens sur les charbons ardents et continue à te dénigrer (sputtanarti) …
Cette fois-ci, pour le parquet qui demandait à nouveau le classement, les choses ont tourné mal. Et Mme Massa a dit non : maintenant c’en est fini des enquêtes ouvertes et refermées à l’infini et des vrais-faux classements, [purement] provisoires. Peut-être l’a-t-elle fait exprès, pour lui casser son jouet. Et il n’est pas dit que tout le mal vienne pour nuire. Maintenant il faut les juger pour de vrai, Mori et De Caprio, et les condamner et les emprisonner, et les mettre dans la même cellule que Totò Riina, avec le chef de la mafia et les carabiniers qui l’ont arrêté. Et peut-être le Pays, qui a déjà montré qu’il n’en peut plus, fera enfin quelque chose, obligera son ministre de la Justice, son gouvernement, son Parlement, ou même son Conseil supérieur de la magistrature à intervenir pour faire cesser cette honte, et pour nous débarrasser à jamais de ces professionnels de la lutte contre la mafia. Et, de toute manière, pour eux doit valoir la sèche et noble déclaration contenant la réaction du colonel Sergio De Caprio, le « dernier capitaine » : « Il me paraît évident qu’il y a une convergence objective entre cette approche judiciaire et les plausibles intérêts de Salvatore Riina et de son organisation. Je veux cependant m’adresser aux jeunes, en disant qu’au raffinement de l’intrigue de Corleone, on doit continuer à opposer la pureté, la simplicité et l’honnêteté, comme me l’ont enseigné les anciens soldats de l’Arme [des carabiniers] ».
II. LA PROCÉDURE EN DIFFAMATION CONTRE LE REQUÉRANT ET M. R.I.
7. Estimant que l’article en question portait atteinte à leur honneur, les procureurs Lo Forte et Caselli portèrent plainte pour diffamation envers le sénateur R.I. et le requérant. Ce dernier était accusé sur le fondement de l’article 57 du code pénal (ci-après, le « CP »), qui se lit ainsi : « (…) le directeur ou directeur adjoint responsable qui omet d’exercer sur le contenu du périodique qu’il dirige le contrôle nécessaire afin d’empêcher que par le biais de la presse ne soient commises des infractions est, en cas de commission d’une [telle] infraction, puni au titre de sa faute de la peine établie pour cette infraction, diminuée de pas plus d’un tiers ».
8. La procédure contre le sénateur R.I. fut séparée de celle contre le requérant. Par une délibération du 18 janvier 2006, le Sénat considéra que les affirmations de M. R.I. étaient couvertes par l’article 68 § 1 de la Constitution, aux termes duquel « les membres du Parlement ne peuvent être appelés à répondre des opinions et votes exprimés par eux dans l’exercice de leurs fonctions ». Le juge des investigations préliminaires (ci après, le « GIP ») de Milan attaqua cette délibération devant la Cour constitutionnelle, dans le cadre d’un conflit entre pouvoirs de l’Etat. Cependant, par une ordonnance no 253 du 20 juin 2007, la Cour constitutionnelle déclara ce recours irrecevable pour tardiveté.
9. Par un jugement du 14 novembre 2007, dont le texte fut déposé au greffe le 21 novembre 2007, le GIP de Milan, ayant pris acte de la délibération du Sénat, prononça un non-lieu à l’égard de M. R.I.
A. Le procès de première instance contre le requérant
10. Le 18 novembre 2005, le requérant fut renvoyé en jugement devant le tribunal de Milan. Ce dernier entendit MM. Lo Forte et Caselli, qui s’étaient constitués parties civiles, ainsi que les témoins à décharge invoqués par la défense, MM. Fabio Lombardo, Carmelo Canale, Mario Mori et Giuseppe De Donno.
11. Par un jugement du 26 novembre 2007, le tribunal de Milan relaxa le requérant.
12. Le tribunal observa que le requérant était accusé de ne pas avoir exercé le contrôle nécessaire pour éviter la commission de l’infraction de diffamation par M. R.I. ; cependant, l’article écrit par ce dernier n’était pas constitutif d’une telle infraction car il s’analysait en l’exercice du droit de critique historique et journalistique.
13. L’article incriminé contenait un exposé de quatre événements-clés de la lutte contre la mafia, que l’auteur de l’article voyait comme les symptômes d’une « guerre » des magistrats de Palerme contre les carabiniers. Ces événements avaient été caractérisés par la multiplicité des procédures pénales engagées contre des carabiniers et des magistrats, comme M. R.I. le soulignait. L’article n’abordait pas la question de savoir si les magistrats visaient un but politique ou un but autre que leur devoir institutionnel de rechercher la vérité. Au vu de son rôle, un magistrat devait s’attendre à ce que ses activités soient publiquement observées ; en même temps, il n’était pas légitime d’alléguer, sans en avoir les preuves, que tel magistrat poursuivait des stratégies politiques ou organisait des complots. En l’espèce, il y avait un intérêt public à connaître les faits en question, leur exposé était correct en la forme, il ne s’analysait pas en une attaque gratuite contre la réputation d’autrui, et les informations données étaient objectivement vraies.
14. Le tribunal de Milan examina à cet égard le contenu de plusieurs actes judiciaires ou autres relatifs aux personnes citées dans l’article, qui démontraient qu’une certaine méfiance et un manque de collaboration avaient existé, dans le cadre des épisodes relatés dans l’article, entre les carabiniers et le parquet.
15. Certes, M. R.I. avait donné son interprétation personnelle de ces épisodes et avait, de manière passionnelle, pris parti pour les carabiniers, qu’il estimait, en substance, victimes d’un acharnement du parquet. Il y avait de sa part une évidente antipathie et un manque d’estime envers ce dernier alors qu’une confiance profonde et une solidarité sincère étaient exprimées en faveur des carabiniers. Si quelques inexactitudes étaient présentes dans l’article, elles ne constituaient cependant pas une altération significative des faits historiques y exposés, et les opinions – discutables et non partagées par le tribunal de Milan – de M. R.I. étaient une manifestation de la liberté d’expression, dont les citoyens en général, et les membres du Parlement en particulier, jouissaient.
16. Il était vrai que M. R.I. avait utilisé des expressions désobligeantes, notamment lorsqu’il avait mentionné le « petit jeu que le parquet de Palerme met en scène depuis dix ans » ; toutefois, il n’avait pas allégué l’existence d’un complot ou d’une stratégie politique du parquet contre les carabiniers.
B. La procédure d’appel
17. Le parquet de Milan et les parties civiles interjetèrent appel contre ce jugement.
18. Par un arrêt du 16 janvier 2009, dont le texte fut déposé au greffe le 10 mars 2009, la cour d’appel de Milan condamna le requérant à quatre mois d’emprisonnement avec sursis et au paiement des frais des procédures de première et deuxième instance. Elle condamna également solidairement le requérant et la société d’édition Società europea di edizioni S.p.a. à verser à chacune des parties civiles les sommes suivantes : a) 50 000 EUR à titre de réparation du préjudice subi ; b) 5 000 euros (EUR) au titre de la compensation pécuniaire additionnelle prévue par l’article 12 de la loi no 47 de 1948 ; c) 18 000 EUR à titre de frais de procédure.
19. Elle estima que le tribunal de Milan n’avait pas pris en considération le fait que la responsabilité du directeur du journal dépendait d’une carence de contrôle et que celui-ci était responsable de la présentation graphique d’un article, de l’importance et de l’espace attribués à celui-ci ainsi que de ses titres et sous-titres. De plus, le tribunal avait à tort « fractionné » l’article en quatre épisodes (ceux relatés par M. R.I. comme étant symptomatiques d’une guerre entre le parquet et les carabiniers) et isolé certaines phrases. De l’avis de la cour d’appel, par contre, l’article devait se lire dans son ensemble ; une telle lecture montrait clairement que l’auteur était animé par l’intention de dénigrer le parquet de Palerme. Ceci ressortait du titre, ainsi que de certaines affirmations (par exemple, celles relatives au fait que le dossier De Donno serait resté au réfrigérateur pendant six mois, à la « persécution » dont le général Mori aurait été victime, au « petit jeu » prétendument pratiqué par le parquet d’ouvrir des procédures pénales destinées à être classées sans suite). Les magistrats du parquet faisaient l’objet d’accusations graves, notamment celle d’avoir utilisé leurs pouvoirs pour des raisons autres que leur but institutionnel ; ainsi, ils auraient omis d’enquêter sur 44 hommes politiques et entrepreneurs et auraient permis au repenti Di Maggio de commettre des homicides.
20. Par ailleurs, l’article était accompagné par une photographie qui montrait le général Mori devant un édifice de la police du fisc, accompagnée de la légende suivante : « La persécution du général. Les attaques envers Mario Mori s’inscrivent dans le cadre de la guerre faite aux carabiniers. Avec lui fut aussi impliqué Giuseppe De Donno, considéré comme le collaborateur le plus fiable de Giovanni Falcone ». Ceci ne pouvait qu’avoir une valeur suggestive.
21. Quant à la teneur de l’article, elle dépassait une critique objective et âpre, et s’analysait en une agression gratuite de la sphère morale d’autrui. Notamment, les expressions utilisées donnaient l’impression que les magistrats du parquet avaient condamné à mort leur collègue Paolo Borsellino, qu’ils avaient poussé au suicide le maréchal Lombardo, qu’ils étaient des « chiens enchaînés » du repenti Di Maggio.
22. Même les membres du Parlement n’avaient pas le droit d’offenser et d’injurier ; par ailleurs, avant d’être élu sénateur, M. R.I. avait écrit un livre intitulé « Le procès du siècle », dans lequel il relatait des épisodes similaires à ceux figurant dans l’article. Or, ce livre avait fait l’objet de nombreuses procédures pénales, dont certaines s’étaient soldées par des condamnations de M. R.I. qui avaient acquis l’autorité de la chose jugée.
23. M. R.I. n’avait pas mentionné la circonstance, ressortant des actes des procès, que les carabiniers avaient omis de mettre en place un « dispositif d’observation » de la « planque » de M. Riina, comme le parquet l’avait demandé, et que le général Mori lui-même avait déclaré qu’il y avait toujours eu collaboration avec le parquet.
24. Il y avait sans doute un intérêt à informer le public quant à de possibles conflits entre les organes de l’Etat ; cependant, dans l’expression de ses opinions sur ces conflits, M. R.I. n’avait pas eu la position d’un « tiers observateur des faits », mais avait accusé de manière ponctuelle MM. Caselli et Lo Forte d’avoir agi de mauvaise foi dans l’exercice de leurs fonctions. L’article contenait des insinuations gratuites visant à nuire à la réputation professionnelle des magistrats en question.
25. L’immunité dont M. R.I. bénéficiait aux termes de l’article 68 § 1 de la Constitution ne s’étendait pas au directeur du journal, qui était tenu de vérifier le contenu des articles qu’il publiait même lorsque ceux-ci avaient été écrits par des membres du Parlement. En l’espèce, le requérant n’avait pas dûment tenu compte des caractéristiques personnelles de M. R.I., qui depuis plusieurs années publiait des écrits provocateurs sur ces mêmes sujets et contre ces mêmes magistrats, ce qui lui avait valu des condamnations définitives pour diffamation.
26. Enfin, la force particulière du titre, des sous-titres et des légendes exigeait une plus grande attention quant au contrôle sur la véridicité de ce qui était affirmé.
C. La procédure en cassation
27. Le requérant se pourvut en cassation.
28. Par un arrêt du 5 mars 2010, dont le texte fut déposé au greffe le 8 avril 2010, la Cour de cassation, estimant que la cour d’appel avait motivé de façon correcte et logique tous les points controversés, débouta le requérant de son pourvoi. Elle le condamna au remboursement des frais exposés en cassation par les parties civiles, soit la somme totale de 3 000 EUR, et au paiement de ses frais de procédure.
29. La Cour de cassation nota, en particulier, que la responsabilité pénale du directeur du journal était distincte de celle de l’auteur de l’article et que l’immunité reconnue à un membre du Parlement ne pouvait être étendue au directeur de la publication.
EN DROIT
I. SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L’ARTICLE 10 DE LA CONVENTION
30. Le requérant allègue que sa condamnation pour diffamation a violé son droit à la liberté d’expression, tel que prévu par l’article 10 de la Convention, ainsi libellé :
« 1. Toute personne a droit à la liberté d’expression. Ce droit comprend la liberté d’opinion et la liberté de recevoir ou de communiquer des informations ou des idées sans qu’il puisse y avoir ingérence d’autorités publiques et sans considération de frontière. Le présent article n’empêche pas les Etats de soumettre les entreprises de radiodiffusion, de cinéma ou de télévision à un régime d’autorisations.
2. L’exercice de ces libertés comportant des devoirs et des responsabilités peut être soumis à certaines formalités, conditions, restrictions ou sanctions prévues par la loi, qui constituent des mesures nécessaires, dans une société démocratique, à la sécurité nationale, à l’intégrité territoriale ou à la sûreté publique, à la défense de l’ordre et à la prévention du crime, à la protection de la santé ou de la morale, à la protection de la réputation ou des droits d’autrui, pour empêcher la divulgation d’informations confidentielles ou pour garantir l’autorité et l’impartialité du pouvoir judiciaire. »
31. Le Gouvernement s’oppose à cette thèse.
A. Sur la recevabilité
32. La Cour constate que la requête n’est pas manifestement mal fondée au sens de l’article 35 § 3 a) de la Convention. La Cour relève par ailleurs qu’elle ne se heurte à aucun autre motif d’irrecevabilité. Il convient donc de la déclarer recevable.
B. Sur le fond
1. Arguments des parties
a) Le requérant
33. S’il admet que l’ingérence dans son droit à la liberté d’expression était prévue par la loi et qu’elle poursuivait un but légitime, le requérant conteste sa nécessité dans une société démocratique. Il allègue que l’article incriminé avait pour but d’informer la collectivité quant aux opinions du sénateur R.I. en matière de justice et de lutte contre les organisations criminelles. En tant que directeur du quotidien, il ne lui appartenait pas de censurer les opinions du sénateur, dont la liberté d’expression était garantie par la Constitution elle-même, qui prévoyait une immunité de principe des parlementaires contre toute responsabilité pénale.
34. Le requérant souligne que le Sénat a bien reconnu à R.I. l’immunité prévue à l’article 68 § 1 de la Constitution et que toute conjecture quant à la décision que la Cour constitutionnelle aurait pu adopter à propos de cette délibération relève de la pure spéculation. Par ailleurs, il n’appartiendrait pas au Gouvernement de juger de la nature des opinions exprimées par R.I. et les décisions de la Cour constitutionnelle citée par le Gouvernement (paragraphe 36 ci-après) ne seraient pas pertinentes, car relatives à d’autres articles de presse écrits par R.I.
35. Il faut tenir compte du fait que l’auteur de l’article était un homme politique agissant dans le cadre de ses fonctions parlementaires, et que le requérant s’est borné à permettre que le quotidien Il Giornale publie les opinions de l’intéressé, qui concernaient un sujet d’intérêt général. Toute intervention du requérant visant à censurer l’article incriminé aurait été vue comme une tentative de réduire la liberté d’expression d’un élu du peuple. Le but légitime de protéger la réputation de deux magistrats du parquet ne saurait, en l’espèce, prévaloir sur le droit du public d’être informé. A cet égard, le requérant rappelle que l’article incriminé contenait une critique de la conduite de ces magistrats dans le cadre d’investigations concernant des organisations criminelles, et qui avaient donné lieu à une querelle entre l’autorité judiciaire et les carabiniers. Le sénateur R.I. ne s’était pas livré à une attaque contre la magistrature dans son ensemble.
b) Le Gouvernement
36. Le Gouvernement note à titre liminaire que la délibération du Sénat reconnaissant l’immunité au sénateur R.I. n’a pas été examinée sur le fond par la Cour constitutionnelle, le conflit entre pouvoirs de l’Etat élevé par le GIP de Milan ayant été déclaré irrecevable pour tardiveté (paragraphe 8 ci dessus). On ne peut donc pas avoir la certitude que le Sénat n’a pas excédé ses pouvoirs. A cet égard, le Gouvernement rappelle que dans une autre affaire concernant un article écrit par M. R.I., diffamatoire à l’encontre d’un autre magistrat de Palerme, la Cour constitutionnelle (arrêt no 205 du 17 juillet 2012) a estimé que les opinions exprimées par le sénateur n’étaient pas liées à l’exercice de ses fonctions parlementaires. Il est raisonnable de penser que la Cour constitutionnelle serait parvenue à des conclusions similaires dans la présente affaire, si le recours pour conflit entre pouvoirs n’avait pas été introduit hors délai.
37. La Cour elle-même a par ailleurs précisé qu’en l’absence d’un lien évident entre les propos incriminés et une activité parlementaire, l’immunité prévue à l’article 68 § 1 de la Constitution peut violer le droit d’accès à un tribunal du diffamé (voir, notamment, Cordova c. Italie (nos 1 et 2), nos 40877/98 et 45649/99, 30 janvier 2003 ; De Jorio c. Italie, no 73936/01, 3 juin 2004 ; Ielo c. Italie, no 23053/02, 6 décembre 2005 ; et CGIL et Cofferati c. Italie, no 46967/07, 24 février 2009). Reconnaître la même immunité à un sujet – le directeur du journal – non membre du Parlement priverait le diffamé de toute action en justice, situation que la Cour serait immanquablement amenée à juger contraire à l’article 6 de la Convention.
38. Le Gouvernement observe de surcroît que le requérant allègue une violation de son droit d’informer le public quant aux opinions politiques exprimées par un sénateur et que sa responsabilité pénale découlait de l’article 57 du CP, disposition punissant les négligences dans le contrôle du contenu d’un journal par son directeur. L’immunité reconnue à M. R.I. n’affectait en rien l’existence de l’infraction reprochée au requérant. Par ailleurs, cette immunité n’exclut pas la commission d’une diffamation, mais implique simplement que l’auteur de celle-ci ne peut être ni jugé ni puni.
39. L’ingérence poursuivait deux buts légitimes : la protection de la réputation ou des droits d’autrui et la garantie de l’autorité et de l’impartialité du pouvoir judiciaire. Les cours d’appel et de cassation ont à juste titre considéré que l’article du sénateur R.I. était offensant et qu’il s’analysait en une attaque gratuite et injustifiée contre le pouvoir judiciaire et la réputation personnelle et professionnelle de MM. Caselli et Lo Forte.
40. Pour ce qui est de la justification et de la nécessité de l’ingérence, le Gouvernement note que selon la cour d’appel, M. R.I. avait donné une vision déformée des rapports existants entre le parquet de Palerme et les carabiniers, évoquant une « guerre » entre ces deux institutions et une « persécution » des agents qui ne s’alignaient pas sur les magistrats Caselli et Lo Forte. De plus, ces derniers n’auraient pas respecté leurs devoirs institutionnels. Le vocabulaire utilisé dans l’article, les allusions y contenues et les amalgames entre les différents faits relatés (qui ne correspondaient pas tous fidèlement à la réalité) ont également été pris en compte. Le tribunal de Milan avait omis de considérer que les opinions exprimées devaient se fonder sur des faits réels et probables. La nature offensante de l’article ressortait également du titre et du sous-titre de l’article (et de la photographie qui l’accompagnait), dont le directeur du journal devait être tenu pour responsable. De plus, le requérant n’avait pas suffisamment tenu compte de la personnalité de M. R.I. et de ses antécédents.
41. L’obligation de contrôle qui pèse sur le directeur d’un journal ne doit pas être regardée comme celle d’exercer une « censure » sur un article écrit par un membre du Parlement ; il s’agit simplement d’éviter que des infractions soient commises par le biais de la publication qu’il dirige. La seule circonstance qu’un article a été écrit par un sénateur bénéficiant de l’immunité prévue à l’article 68 § 1 de la Constitution ne saurait exonérer le directeur du journal de son devoir de contrôle.
42. Les juridictions italiennes ont procédé à un examen détaillé de l’affaire, et ont à juste titre conclu que l’article incriminé offensait gravement la réputation professionnelle de deux magistrats de Palerme (présentés comme inaptes à remplir leurs fonctions et prêts à abuser de celles-ci), et de l’autorité judiciaire considérée dans son ensemble, contribuant par là à miner la confiance du public dans l’administration judiciaire. M. R.I. n’avait pas seulement dépassé les limites de la critique admissible dans une société démocratique, il avait aussi attribué aux magistrats en question des comportements spécifiques sans vérifier les faits et sans apporter des preuves corroborant ses affirmations. En tant que directeur du journal, le requérant avait le pouvoir et le devoir d’éviter que le débat politique ne dégénère en insultes ou attaques personnelles.
2. Appréciation de la Cour
a) Sur l’existence d’une ingérence
43. Il ne prête pas à controverse entre les parties que la condamnation du requérant a constitué une ingérence dans le droit de ce dernier à la liberté d’expression, tel que garanti par l’article 10 § 1 de la Convention.
b) Sur la justification de l’ingérence : la prévision par la loi et la poursuite d’un but légitime
44. Une ingérence est contraire à la Convention si elle ne respecte pas les exigences prévues au paragraphe 2 de l’article 10. Il y a donc lieu de déterminer si elle était « prévue par la loi », si elle visait un ou plusieurs des buts légitimes énoncés dans ce paragraphe et si elle était « nécessaire dans une société démocratique » pour atteindre ce ou ces buts (Pedersen et Baadsgaard c. Danemark, no 49017/99, § 67, CEDH 2004-XI).
45. Il n’est pas contesté que l’ingérence était prévue par la loi, à savoir par l’article 57 du CP (paragraphe 7 ci-dessus). La Cour n’a pas à rechercher si la condamnation du requérant visait le but légitime que constitue la protection du pouvoir judiciaire car elle admet qu’en tout état de cause l’ingérence pouvait se revendiquer d’un autre but légitime, à savoir la protection de la réputation ou des droits d’autrui, en l’occurrence de MM. Caselli et Lo Forte (voir, mutatis mutandis, Nikula c. Finlande, no 31611/96, § 38, CEDH 2002-II ; Perna c. Italie [GC], no 48898/99, § 42, CEDH 2003-V; et Ormanni c. Italie, no 30278/04, § 57, 17 juillet 2007).
46. Il reste à vérifier si l’ingérence était « nécessaire dans une société démocratique ».
c) Sur la nécessité de l’ingérence dans une société démocratique
i. Principes généraux
47. La presse joue un rôle éminent dans une société démocratique : si elle ne doit pas franchir certaines limites, tenant notamment à la protection de la réputation et aux droits d’autrui, il lui incombe néanmoins de communiquer, dans le respect de ses devoirs et de ses responsabilités, des informations et des idées sur toutes les questions d’intérêt général, y compris celles de la justice (De Haes et Gijsels c. Belgique, 24 février 1997, § 37, Recueil des arrêts et décisions 1997-I). A sa fonction qui consiste à en diffuser s’ajoute le droit, pour le public, d’en recevoir. S’il en allait autrement, la presse ne pourrait jouer son rôle indispensable de « chien de garde » (Thorgeir Thorgeirson c. Islande, 25 juin 1992, § 63, série A no 239, et Bladet Tromsø et Stensaas c. Norvège [GC], no 21980/93, § 62, CEDH 1999-III). Outre la substance des idées et informations exprimées, l’article 10 protège leur mode d’expression (Oberschlick c. Autriche (no1), 23 mai 1991, § 57, série A no 204). La liberté journalistique comprend aussi le recours possible à une certaine dose d’exagération, voire même de provocation (Prager et Oberschlick c. Autriche, 26 avril 1995, § 38, série A no 313, et Thoma c. Luxembourg, no 38432/97, §§ 45 et 46, CEDH 2001 III).
48. Les limites de la critique admissible peuvent dans certains cas être plus larges pour les fonctionnaires agissant dans l’exercice de leurs pouvoirs que pour les simples particuliers. Cependant, on ne saurait dire que les fonctionnaires s’exposent sciemment à un contrôle attentif de leurs faits et gestes exactement comme c’est le cas pour les hommes politiques et devraient dès lors être traités sur un pied d’égalité avec ces derniers lorsque sont en cause des critiques de leur comportement. Les fonctionnaires doivent, pour s’acquitter de leurs fonctions, bénéficier de la confiance du public sans être indûment perturbés et il peut dès lors s’avérer nécessaire de les protéger contre des attaques dénuées de fondement sérieux (Janowski c. Pologne [GC], no 25716/94, § 33, CEDH 1999-I, et Nikula, précité, § 48). A cet égard, il convient de rappeler que l’action des tribunaux, qui sont garants de la justice et dont la mission est fondamentale dans un Etat de droit, a besoin de la confiance du public pour bien fonctionner (De Haes et Gijsels, précité, § 37 ; Schöpfer c. Suisse, 20 mai 1998, § 29, Recueil 1998 III ; et Sgarbi c. Italie (déc.), no 37115/06, 21 octobre 2008).
49. L’adjectif « nécessaire », au sens de l’article 10 § 2, implique l’existence d’un « besoin social impérieux ». Les Etats contractants jouissent d’une certaine marge d’appréciation pour juger de l’existence d’un tel besoin, mais cette marge va de pair avec un contrôle européen portant à la fois sur la loi et sur les décisions appliquant celle-ci, même quand elles émanent d’une juridiction indépendante. La Cour a donc compétence pour statuer en dernier lieu sur le point de savoir si une « restriction » se concilie avec la liberté d’expression protégée par l’article 10 (Janowski, précité, § 30, et Association Ekin c. France, no 39288/98, § 56, CEDH 2001-VIII).
50. En particulier, il incombe à la Cour de déterminer si les motifs invoqués par les autorités nationales pour justifier l’ingérence apparaissent « pertinents et suffisants » et si la mesure incriminée était « proportionnée aux buts légitimes poursuivis » (Chauvy et autres c. France, no 64915/01, § 70, CEDH 2004-VI). Ce faisant, la Cour doit se convaincre que les autorités nationales ont, en se fondant sur une appréciation acceptable des faits pertinents, appliqué des règles conformes aux principes consacrés par l’article 10 (voir, parmi beaucoup d’autres, Zana c. Turquie, 25 novembre 1997, § 51, Recueil 1997-VII ; De Diego Nafría c. Espagne, no 46833/99, § 34, 14 mars 2002 ; Pedersen et Baadsgaard précité, § 70).
51. Afin d’évaluer la justification d’une déclaration contestée, il y a lieu de distinguer entre déclarations factuelles et jugements de valeur. Si la matérialité des faits peut se prouver, les seconds ne se prêtent pas à une démonstration de leur exactitude (Oberschlick c. Autriche (no 2), 1er juillet 1997, § 33, Recueil 1997 IV). L’attribution à une déclaration de la qualification de fait ou de jugement de valeur relève en premier lieu de la marge d’appréciation des autorités nationales, notamment des juridictions internes (Prager et Oberschlick, précité, § 36). Toutefois, même lorsqu’une déclaration équivaut à un jugement de valeur, elle doit se fonder sur une base factuelle suffisante, faute de quoi elle serait excessive (Jerusalem c. Autriche, no 26958/95, § 43, CEDH 2001-II).
52. Le droit des journalistes de communiquer des informations sur des questions d’intérêt général est protégé à condition qu’ils agissent de bonne foi, sur la base de faits exacts, et fournissent des informations « fiables et précises » dans le respect de l’éthique journalistique (voir, par exemple, les arrêts précités Fressoz et Roire, § 54, Bladet Tromsø et Stensaas, § 58, et Prager et Oberschlick, § 37). Le paragraphe 2 de l’article 10 de la Convention souligne que l’exercice de la liberté d’expression comporte des « devoirs et responsabilités », qui valent aussi pour les médias même s’agissant de questions d’un grand intérêt général. De plus, ces devoirs et responsabilités peuvent revêtir de l’importance lorsque l’on risque de porter atteinte à la réputation d’une personne nommément citée et de nuire aux « droits d’autrui ». Ainsi, il doit exister des motifs spécifiques pour pouvoir relever les médias de l’obligation qui leur incombe en principe de vérifier les déclarations factuelles potentiellement diffamatoires à l’encontre de particuliers. A cet égard, entrent spécialement en jeu la nature et le degré de la diffamation en cause et la question de savoir à quel point le média peut raisonnablement considérer ses sources comme crédibles pour ce qui est des allégations incriminées (voir, entres autres, McVicar c. Royaume-Uni, no 46311/99, § 84, CEDH 2002-III, et Standard Verlagsgesellschaft MBH (no 2) c. Autriche, no 37464/02, § 38, 22 février 2007).
53. La nature et la lourdeur des peines infligées sont aussi des éléments à prendre en considération lorsqu’il s’agit de mesurer la proportionnalité de l’ingérence (voir, par exemple, Ceylan c. Turquie [GC], no 23556/94, § 37, CEDH 1999-IV, et Tammer c. Estonie, no 41205/98, § 69, CEDH 2001-I). En particulier, dans l’affaire Cumpănă et Mazăre c. Roumanie ([GC], no 33348/96, §§ 113-115, CEDH 2004-XI), la Cour a affirmé les principes suivants :
« 113. Si les Etats contractants ont la faculté, voire le devoir, en vertu de leurs obligations positives au titre de l’article 8 de la Convention, de réglementer l’exercice de la liberté d’expression de manière à assurer une protection adéquate par la loi de la réputation des individus, ils doivent éviter ce faisant d’adopter des mesures propres à dissuader les médias de remplir leur rôle d’alerte du public en cas d’abus apparents ou supposés de la puissance publique. Les journalistes d’investigation risquent d’être réticents à s’exprimer sur des questions présentant un intérêt général (…) s’ils courent le danger d’être condamnés, lorsque la législation prévoit de telles sanctions pour les attaques injustifiées contre la réputation d’autrui, à des peines de prison ou d’interdiction d’exercice de la profession.
114. L’effet dissuasif que la crainte de pareilles sanctions emporte pour l’exercice par ces journalistes de leur liberté d’expression est manifeste (…). Nocif pour la société dans son ensemble, il fait lui aussi partie des éléments à prendre en compte dans le cadre de l’appréciation de la proportionnalité – et donc de la justification – des sanctions infligées (…).
115. Si la fixation des peines est en principe l’apanage des juridictions nationales, la Cour considère qu’une peine de prison infligée pour une infraction commise dans le domaine de la presse n’est compatible avec la liberté d’expression journalistique garantie par l’article 10 de la Convention que dans des circonstances exceptionnelles, notamment lorsque d’autres droits fondamentaux ont été gravement atteints, comme dans l’hypothèse, par exemple, de la diffusion d’un discours de haine ou d’incitation à la violence (…). »
54. Il convient de rappeler, enfin, que dans des affaires comme la présente, qui nécessitent une mise en balance du droit au respect de la vie privée et du droit à la liberté d’expression, la Cour considère que l’issue de la requête ne saurait en principe varier selon qu’elle a été portée devant elle, sous l’angle de l’article 8 de la Convention, par la personne faisant l’objet du reportage ou, sous l’angle de l’article 10, par l’éditeur qui l’a publié. En effet, les droits respectivement garantis par ces dispositions méritent a priori un égal respect. Dès lors, la marge d’appréciation devrait en principe être la même dans les deux cas. Si la mise en balance par les autorités nationales s’est faite dans le respect des critères établis par la jurisprudence de la Cour, il faut des raisons sérieuses pour que celle-ci substitue son avis à celui des juridictions internes (MGN Limited c. Royaume-Uni, no 39401/04, §§ 150 et 155, 8 janvier 2011 ; Palomo Sánchez et autres c. Espagne [GC], nos 28955/06, 28957/06, 28959/06 et 28964/06, § 57, ECHR 2011-.. ; et Von Hannover c. Allemagne (no 2) [GC], nos 40660/08 et 60641/08, §§ 106-107, ECHR 2012-..).
ii. Application de ces principes au cas d’espèce
55. La Cour observe tout d’abord que l’article de M. R.I. concernait un sujet d’intérêt général, à savoir les rapports existant entre le parquet et les carabiniers de Palerme dans un domaine aussi délicat que celui de la lutte contre la mafia. La cour d’appel de Milan a par ailleurs admis qu’il y avait un intérêt à informer le public quant à de possibles conflits entre les organes de l’Etat (paragraphe 24 ci-dessus).
56. Quant à la teneur de l’article incriminé, la Cour ne saurait considérer comme arbitraire ou manifestement erronée l’appréciation de la cour d’appel de Milan, selon laquelle M. R.I. avait attribué aux magistrats du parquet des comportements impliquant une utilisation détournée de leurs pouvoirs institutionnels, tels qu’une « persécution » à l’encontre du général Mori, le « petit jeu » consistant en l’ouverture de procédures pénales destinées à être classées sans suite, l’omission d’enquêter sur certains hommes politiques et entrepreneurs et la possibilité, laissée au repenti Di Maggio, de commettre des homicides (paragraphe 19 ci-dessus). De plus, l’article donnait l’impression que les magistrats en question avaient poussé au suicide le maréchal Lombardo et qu’ils étaient d’une certaine façon responsables de la mort de l’un de leurs collègues (paragraphe 21 ci-dessus). Aux yeux de la Cour, il s’agit d’accusations graves à l’encontre de fonctionnaires de l’Etat, non étayées par des éléments objectifs. En effet, les quatre épisodes qui selon M. R.I. étaient symptomatiques d’une « guerre » entre le parquet et les carabiniers ne pouvaient en eux-mêmes constituer la preuve des comportements résumés ci-dessus.
57. Sous cet aspect, la présente affaire se rapproche de l’affaire Perna, précitée, qui concernait la condamnation d’un journaliste pour avoir mis en doute la fidélité au principe de légalité, l’objectivité et l’indépendance d’un membre du parquet, en l’accusant, en outre, d’avoir exercé son office de manière incorrecte et d’avoir eu un comportement illégal. Dans cette dernière affaire, la Grande Chambre a conclu à la non-violation de l’article 10 de la Convention en observant, entre autres, que le texte litigieux, considéré dans sa globalité, « excluait que le magistrat concerné fût respectueux des obligations déontologiques propres à sa fonction et lui déniait de surcroît les qualités d’impartialité, d’indépendance et d’objectivité qui caractérisent l’exercice de l’activité judiciaire ». De plus, les affirmations du requérant se réduisaient à une attaque injustifiée contre le plaignant, qui était constamment et subtilement dénigré.
58. Il est vrai que l’affaire Perna concernait la condamnation de l’auteur de l’article, alors que la présente affaire porte sur la condamnation du directeur du journal dans lequel l’article avait été publié, pour avoir omis d’exercer le contrôle nécessaire à la prévention de la commission d’infractions par voie de presse. Cependant, la Cour ne saurait ni considérer comme contraire à la Convention l’article 57 du CP, qui pose ce devoir de contrôle (paragraphe 7 ci-dessus), ni estimer que la qualité de membre du Parlement de l’auteur d’un article puisse automatiquement exonérer le directeur d’un journal de toute obligation de refuser la publication d’affirmations diffamatoires. Conclure autrement équivaudrait à attribuer aux députés et aux sénateurs le droit inconditionné de publier et diffuser par la presse toute opinion liée à l’exercice de leur mandat parlementaire, si insultante soit-elle. A cet égard, la Cour rappelle que la liberté d’expression des élus du peuple n’est pas illimitée ; elle a estimé, notamment, qu’elle ne saurait justifier un déni total d’accès à la justice lorsque des affirmations perçues comme diffamatoires par autrui sont faites par un membre du Parlement en l’absence d’un lien évident avec une activité parlementaire (voir, entre autres, Cordova (no 1), précité, §§ 59-66). Le requérant n’était donc pas exempté de son devoir de contrôle, et cela d’autant plus au vu des antécédents de M. R.I. qui, en dépit de sa qualité de sénateur, avait déjà fait l’objet de condamnations pénales définitives pour diffamation (paragraphes 22-25 ci-dessus).
59. Il faut également avoir égard au fait que le directeur d’un journal est responsable de la manière dont un article est présenté et de l’importance qui lui est attribuée au sein de la publication. En l’espèce, l’article de M. R.I. était accompagné d’une photographie qui montrait le général Mori devant un édifice de la police du fisc avec une légende qui faisait référence à la « persécution » de cet officier et à la « guerre faite aux carabiniers » (paragraphe 20 ci-dessus). De l’avis de la Cour, cette présentation graphique contribuait à corroborer auprès des lecteurs les thèses exposées dans l’article, y compris celles pouvant s’analyser en une attaque envers la réputation professionnelle des magistrats du parquet.
60. A la lumière de ce qui précède, la Cour ne saurait conclure qu’une condamnation à l’encontre du requérant était en soi contraire à l’article 10 de la Convention.
61. Il n’en demeure pas moins que, comme rappelé au paragraphe 53 ci dessus, la nature et la lourdeur des peines infligées sont aussi des éléments à prendre en considération lorsqu’il s’agit de mesurer la proportionnalité de l’ingérence. Or, en l’espèce, outre la réparation des dommages (pour un montant total de 110 000 EUR), le requérant a été condamné à quatre mois d’emprisonnement (paragraphe 18 ci-dessus). Bien qu’il y ait eu sursis à l’exécution de cette sanction, la Cour considère que l’infliction en particulier d’une peine de prison a pu avoir un effet dissuasif significatif. Par ailleurs, le cas d’espèce, portant sur un manque de contrôle dans le cadre d’une diffamation, n’était marqué par aucune circonstance exceptionnelle justifiant le recours à une sanction aussi sévère. Ceci permet de distinguer la présente affaire de l’affaire Perna, précitée, où la peine infligée était une simple amende.
62. La Cour estime que, à cause de la mesure et de la nature de la sanction imposée au requérant, l’ingérence dans le droit à la liberté d’expression de ce dernier n’était pas proportionnée aux buts légitimes poursuivis (voir, mutatis mutandis, Koprivica c. Monténégro, no 41158/09, §§ 73-74, 22 novembre 2011).
63. Il y a donc eu violation de l’article 10 de la Convention.
II. SUR L’APPLICATION DE L’ARTICLE 41 DE LA CONVENTION
64. Aux termes de l’article 41 de la Convention,
« Si la Cour déclare qu’il y a eu violation de la Convention ou de ses Protocoles, et si le droit interne de la Haute Partie contractante ne permet d’effacer qu’imparfaitement les conséquences de cette violation, la Cour accorde à la partie lésée, s’il y a lieu, une satisfaction équitable. »
A. Dommage
65. Le requérant réclame 10 000 EUR au titre du préjudice moral qu’il aurait subi.
66. Le Gouvernement observe que le requérant n’a fourni aucune preuve de ce préjudice et n’a pas précisé en quoi il aurait consisté. De plus, il n’a pas prouvé l’existence d’un lien de causalité entre le prétendu dommage et la violation de l’article 10 de la Convention.
67. La Cour considère qu’il y a lieu d’octroyer au requérant 10 000 EUR au titre du préjudice moral.
B. Frais et dépens
68. Se fondant sur une note de frais de son conseil, le requérant demande également 5 133,60 EUR pour les frais et dépens engagés devant la Cour.
69. Le Gouvernement estime ce montant excessif au regard de l’activité accomplie par le conseil du requérant et des barèmes de rémunération des prestations juridiques en vigueur en Italie.
70. Selon la jurisprudence de la Cour, un requérant ne peut obtenir le remboursement de ses frais et dépens que dans la mesure où se trouvent établis leur réalité, leur nécessité et le caractère raisonnable de leur taux. En l’espèce et compte tenu des documents en sa possession et de sa jurisprudence, la Cour estime raisonnable la somme de 5 000 EUR pour la procédure devant elle et l’accorde au requérant.
C. Intérêts moratoires
71. La Cour juge approprié de calquer le taux des intérêts moratoires sur le taux d’intérêt de la facilité de prêt marginal de la Banque centrale européenne majoré de trois points de pourcentage.
PAR CES MOTIFS, LA COUR, À L’UNANIMITÉ,
1. Déclare la requête recevable ;

2. Dit qu’il y a eu violation de l’article 10 de la Convention ;

3. Dit
a) que l’Etat défendeur doit verser au requérant, dans les trois mois à compter du jour où l’arrêt sera devenu définitif conformément à l’article 44 § 2 de la Convention, les sommes suivantes :
i) 10 000 EUR (dix mille euros), plus tout montant pouvant être dû à titre d’impôt, pour dommage moral ;
ii) 5 000 EUR (cinq mille euros), plus tout montant pouvant être dû à titre d’impôt par le requérant, pour frais et dépens ;
b) qu’à compter de l’expiration dudit délai et jusqu’au versement, ces montants seront à majorer d’un intérêt simple à un taux égal à celui de la facilité de prêt marginal de la Banque centrale européenne applicable pendant cette période, augmenté de trois points de pourcentage ;

4. Rejette la demande de satisfaction équitable pour le surplus.
Fait en français, puis communiqué par écrit le 24 septembre 2013, en application de l’article 77 §§ 2 et 3 du règlement.
Stanley Naismith Danutė Jočienė
Greffier Présidente

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