Conclusioni :violazione dell’articolo 10 – Libertà di espressione- generale, Articolo 10-1 – Libertà di espressione, Danno morale – risarcimento
SECONDA SEZIONE
CAUSA BELPIETRO C. ITALIA
( Richiesta no 43612/10)
SENTENZA
STRASBURGO
24 settembre 2013
Questa sentenza diventerà definitiva nelle condizioni definite all’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire dei ritocchi di forma.
Nella causa Belpietro c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, riunendosi in una camera composta da:
Danutė Jočienė, presidentessa,
Guido Raimondi,
Peer Lorenzen,
András Sajó,
Işıl Karakaş,
Nebojša Vučinić,
Helen Keller, giudici ,e
di Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Dopo avere deliberato in camera del consiglio il 3 settembre 2013,
Rende la sentenza che ha, adottata a questa data,:
PROCEDIMENTO
1. All’origine della causa si trova una richiesta (no 43612/10) diretta contro la Repubblica italiana e di cui un cittadino di questo Stato, il Sig. M B. (“il ricorrente”), ha investito la Corte il 27 luglio 2010 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2. Il ricorrente è stato rappresentato da Me V. L., avvocato a Milano. Il governo italiano (“il Governo”) è stato rappresentato dal suo agente, la Sig.ra E. Spatafora.
3. Il ricorrente adduce che la sua condanna per diffamazione ha violato il suo diritto alla libertà di espressione.
4. Il 26 ottobre 2012, la richiesta è stata comunicata al Governo. Siccome lo permette l’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato deciso inoltre che la camera si sarebbe pronunciata sull’ammissibilità ed il fondo allo stesso tempo.
IN FATTO
5. Il ricorrente è nato nel 1958 e ha risieduto a Milano.
I. L’ARTICOLO PUBBLICATO IN IL QUOTIDIANO EGLI GIORNALE
6. All’epoca dei fatti, il ricorrente era il direttore del quotidiano Egli Giornale. Il 7 novembre 2004, questo ultimo pubblicò un articolo, firmato dal senatore R.I, intitolato “Mafia, tredici anni di dispute tra la procura ed i carabinieri” (Mafia, tredici anni di scontri tra P.M. e carabinieri, e sottotitolato “Ciò che si nasconde dietro il processo fa al generale Mori ed al colonnello “Ultimo” per il nascondiglio di Riina.” Nelle sue parti pertinenti, questo articolo si leggeva come segue:
“La guerra dei magistrati di Palermo contro i carabinieri ha cominciato il 16 febbraio 1991, quando il capitano Giuseppe Di Donno comunicò al procuratore Giovanni Falcone i conclusioni della sua inchiesta sulla mafia e l’attribuzione dei lavori pubblici. Di Donno aveva fatto un molto buono lavoro. Ma Falcone stava partendo per Roma e la pratica di Donno restò tra le mani della procuratori Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, che si chiamava “i gémeaux” (…), e durante sei mesi nessuno seppe niente al suo riguardo. (…) nella pratica era indicata i nomi di 44 uomini di cause e politici di tutto li partii, ivi compreso dell’opposizione, ma nessuno di essi fu disturbato. Al contrario, siccome l’ha dichiarato [Sig.] Li Pera già il 22 febbraio gli interessati, politici, imprenditori e mafiosi, erano stati avvertiti e messi in guardia: “fa’ attenzione”, avevano detto a Li Pera sé i dirigenti della sua società, ed un certo Angelo Silino gli aveva dato l’elenco dei lavori pubblici e dei nomi citati nella pratica del capitano Di Donno. Chi aveva dato i nomi e le cifre a Silino?
Non si lo saprà mai. Ma nel frattempo la pratica di Donno è stata selezionata e è stata impoverita, gli imprenditori ed i politici sono usciti della scena, si è messo in fallimento i piccoli pesci e Li Pera e Silino sono stati arrestati. Li Pera conferma le sue accuse contro la procura di Palermo dinnanzi ai magistrati di Caltanissetta ed il capitano Di Donno comunicherà agli stessi magistrati le registrazioni delle sue conversazioni con Silino in che Silino sé parla del procuratore Lo Forte come se era il suo informatore. Ma Silino giustificati sostenendo che i carabinieri l’hanno spinto ad accusare Lo Forte. Lo Forte sporge querela per accuse calunniose contro Donno, e Giancarlo Caselli interrogo il colonnello Mario Mori, (…). Egli ne non sarà niente, Mori e Di Donno non sarà incriminato e parallelamente la procura di Caltanissetta archivierà senza seguito le registrazioni con le accuse di Silino. (…).
La seconda disputa ha luogo durante il processo contro Giulio Andreotti. I carabinieri, per verificare le accuse di Tommaso Buscetta, vanno ad interrogare il boss che è detenuto nelle prigioni americane. Si rende il maresciallo Antonino Lombardo, accompagnato dal capitano Mario Obinu, e convincono il boss che ha contraddetto fermamente Buscetta, di venire a manifestare al processo in Italia. Nel rapporto che registra alla stazione dei carabinieri, il capitano Obinu, scrive in lettere che il procuratore di Palermo che ha partecipato alla missione gli ha sconsigliato di insistere per convincere Badalamenti a venire a testimoniare in Italia perché ciò potrebbe indebolire la “tesi dell’accusa” contro Andreotti. I carabinieri insistono però ed il maresciallo Lombardo è incaricato di tornare negli Stati Uniti per cercare Badalamenti e portarlo al processo. Lombardo prepara le carte, preleva alla cassa il denaro per i biglietti di aereo e va’ alla casa per fare le sue valigie. La sera stessa, durante l’emissione teletrasmessa di Michele Santoro, il vecchio sindaco di Palermo Leoluca Orlando accusa il maresciallo Lombardo di connivenza con la mafia. Il comandante generale del carabinieri telefono in vano per intervenire durante l’emissione ed il comandante dei carabinieri di Palermo chieda in vano alla procura di difendere Lombardo. Il maresciallo che viene anche a temere di essere arrestato, mette fine ai suoi giorni nella corte della caserma in traendo si una palla con la sua arma da servizio: nella sua lettera di addio alla sua famiglia ha scritto che le sue noie hanno cominciato coi “viaggi americani” e che è stato vittima di un “clash di poteri.”
Il tenente dei carabinieri Carmelo Canale-cognato di Lombardo, e vecchio collaboratore principale di Paolo Borsellino-, testimoniando dinnanzi alla Commissione parlamentare per la lotta contro la mafia, sostiene che si è voluto impedire Lombardo di portare Badalamenti a testimoniare per smentire le accuse di Buscetta verso Andreotti, e che Leoluca Orlando è stato informato dalla procura della missione del maresciallo negli Stati Uniti. Canale sarà accusato da sette “pentiti” di essere stato al suo turno un collaboratore della mafia e di avere dato ai mafiosi, dei politici e degli imprenditori la pratica di Donno sulla mafia ed i lavori pubblici. Il suo processo è ancora in corso.
La terza disputa tra le procure di Palermo ed i carabinieri hanno luogo a casa Balduccio Di Maggio, il “pentito” che ha visto dei suoi propri occhi Andreotti e Totò Riina che si baciavano. Mentre tutti credono che Di Maggio vive protetto e vigilato in una località segreta del continente, si scopre grazie ad una serie di ascolti telefonici che il boss è ritornato in Sicilia per ricostituire il suo clan e pianifichi di assassinare i membri del clan avverso. Le trascrizioni degli ascolti, che i carabinieri affermano avere registrato regolarmente alla procura, giungono al Parlamento ed ai giornali, provocando degli scoppi. Ma il procuratore Caselli scritto al presidente della Commissione per la lotta contro la mafia che niente è vero che tutto è in regola e che si tratta solamente di “la gestione dinamica del pentita.” Ed al posto di arrestare Di Maggio, si inserisce nel registro degli imputati per [il reato di] connivenza personale il colonnello Carlo Giovanni Meli, responsabile degli ascolti ed anche consulente della Commissione per la lotta contro la mafia, ed incrimina, per calunnia contro Di Maggio, il “pentito” Giovanni Brusca che, avendo letto nei giornali gli ascolti dei carabinieri, racconta nel dettaglio ai magistrati ciò che Di Maggio sta facendo e preparati a fare. Questo è unicamente quando si trova i cadaveri delle persone assassinate da Di Maggio che si decide di catturarlo. E quando, [una volta questo] condotto all’udienza, gli avvocati di Andreotti gli chiedono perché si era permesso di fare ciò che aveva fatto, il “pentito” risponde che era sicuro dell’impunità, perché aveva i “cani incatenati”, ciò che notifica che i magistrati della procura di Palermo non avrebbero osato il tocco. E chi sarebbero, precisamente, secondo lui, questi “cani incatenati?” Questo è mentre Di Maggio, girandosi verso i tre procuratori dell’accusa al processo Andreotti e guardandoli bene in faccia, ne menziona i nomi: “Lo Forte, Scarpinato e Natoli… .”
In questo contesto, quello di una guerra ai carabinieri che non è finita mai, si trova la persecuzione del generale Mario Mori (….).
Tutto come per Donno, per Canale, per Lombardo, per Obinu, per Meli, l ‘ “reato” presunto di connivenza personale [commessa con] Di Caprio e Mori non esisto. La storia del “papello”, il pezzo di carta con le domande della mafia che sarebbe stata il protocollo del “negoziato” con lo stato, è per una grande parte inventata, e è del resto pubblica e senza importanza: i mafiosi proclamano ad ogni volta che compaiono nelle sale di udienza che rifiutano la tortura del regime penitenziario ad alta sicurezza dell’articolo 41bis e che ne chiedono l’abolizione. E comunque ciò non ha niente da vedere col tentativo di Mori di riuscire ad arrestare Riina col verso di Vito Ciancimino.
Per ciò che riguarda la storia del “nascondiglio” di Riina che non fu perquisito dopo il suo arresto subito, si tratta di una scelta strategica che mira a catturare gli altri perciò, ed egli fu deciso ed approvato con tutti i magistrati della procura, cominciando dal procuratore Caselli. E solo un matto può pensare che Mori e Di Caprio l’ha lasciato senza sorveglianza durante 19 giorni in seguito ad un “accordo” con la mafia: se si trattasse di permettere agli amici di Riina di prendere i “documenti” che erano nascosti perché essi dare 19 giorni, un tempo di una lunghezza singolare al punto di essere ne “esagerata?” 19 ore non sarebbero bastate ? E vi sapete ciò che risponde a questa semplice, elementare obiezione, questo giudice di Palermo che ha respinto la domanda di archiviazione della procura? Scrive questo: “Sembra superfluo di osservare che un accordo come lo si immagina, passi durante un periodo dove lo stato era prostrato, non avrebbe visto certo le “parti contraenti” in una situazione di uguaglianza, la parte delle istituzioni che non hanno un potere contrattuale di natura tale da permettergli di imporre delle condizioni di ogni tipo.” (…).
Le 93 pagine dell’ordinanza del giudice Vincenzina Massa sono piene di perle di questo tipo. Ma è forse erroneo di prendere ne si alla Sig.ra Ammassò che ha fatto qualche cosa di meritoria: col suo colpo di testa, imprevisto ed imprevedibile, ha fatto saltare il piccolo gioco che la procura di Palermo mette in scena da dieci anni: io, mi inserisco il tuo nome nel registro delle persone imputate ed indago su te durante due anni, lo permette tanto quanto la legge, poi non trovando di elementi sufficienti per chiedere il rinvio in giudizio, chiedo l’archiviazione, ma, chiedendolo, ti ricopro di ingiurie e di insulti (contumelie), in modo che “sia massacrato” in ogni caso, e poi riprendo e riapro l’inchiesta, e due anni più chiedo tardi, di nuovo l’archiviazione, ma sempre nel colorante di ingiurie e di insulti, e così via per l’eternità… Per l’eternità, ti tengo sui carboni ardenti e continui a denigrarti (sputtanarti)…
Questa volta, per la procura che chiedeva di nuovo l’archiviazione, le cose hanno girato male. E la Sig.ra Ammassò ha detto no: adesso questo ne è finito delle inchieste aperte e è richiuso all’infinito e delle vero-falso archiviazioni, [puramente] provvisori. L’ha forse fa apposta, per annullargli il suo giocattolo. Ed egli non è detto che tutto il male venga per nuocere. Adesso bisogna giudicarli sul serio, Mori e Di Caprio, e condannarli ed incarcerarli, e metterli nella stessa unità che Totò Riina, col capo della mafia ed i carabinieri che l’hanno arrestato. E forse il Paese che ha mostrato già che non ne può più, farà infine qualche cosa, obbligherà il suo ministro della Giustizia, il suo governo, il suo Parlamento, o anche il suo Consiglio superiore della magistratura ad intervenire per fare cessare questa vergogna, e per sbarazzarci per sempre di questi professionisti della lotta contro la mafia. E, comunque, per essi deve valere la secca e nobile dichiarazione contenendo la reazione del colonnello Sergio Di Caprio, il “ultimo capitano”,: “Mi sembra evidente che c’è una convergenza obiettiva tra questo approccio giudiziale ed i plausibili interessi di Salvatore Riina e della sua organizzazione. Voglio però indirizzarmi ai giovani, dicendo che alla raffinatezza dell’intrigo di Corleone, si deve continuare ad opporre la purezza, la semplicità e l’onestà, siccome me l’hanno insegnato i vecchi soldati dell’arma [dei carabinieri].”
II. IL PROCEDIMENTO PER DIFFAMAZIONE CONTRO IL RICORRENTE ED IL SIG. R.I.
7. Stimando che l’articolo in questione recava offesa al loro onore, i procuratori Lo Forte e Caselli sporsero querela per diffamazione verso il senatore R.I. ed il ricorrente. Questo ultimo era accusato sul fondamento dell’articolo 57 del codice penale (qui di seguito, il “CP”) che si legge così: “(…) il direttore o direttivo aggiunge responsabile che omette di esercitare sul contenuto del periodico che dirige il controllo necessario per impedire che dei reati non siano commessi dal verso della stampa è, in caso di commissione di una [tale] reato, punito a titolo della sua mancanza della pena stabilita per questa violazione, sminuito di non più di uno terzo.”
8. Il procedimento contro il senatore R.I. si è separata da quella contro il ricorrente. Con una deliberazione del 18 gennaio 2006, il Senato considerò che le affermazioni del Sig. R.I. erano coperte dall’articolo 68 § 1 della Costituzione, ai termini del quale “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni e voti espressi da essi nell’esercizio delle loro funzioni.” Il giudice delle investigazioni preliminari (qui di seguito, il “GIP”) di Milano attaccò questa deliberazione dinnanzi alla Corte costituzionale, nella cornice di un conflitto tra poteri dello stato. Però, con un’ordinanza no 253 del 20 giugno 2007, la Corte costituzionale dichiarò questo ricorso inammissibile per tardività.
9. Con un giudizio del 14 novembre 2007 di cui il testo fu depositato alla cancelleria il 21 novembre 2007, il GIP di Milano, avendo preso atto della deliberazione del Senato, pronunciò un non luogo a procedere al riguardo del Sig. R.I.
A. Il processo di prima istanza contro il ricorrente
10. Il 18 novembre 2005, il ricorrente fu rinviato in giudizio dinnanzi al tribunale di Milano. Questo ultimo intese Sigg. Lo Forte e Caselli che si erano costituiti parti civili, così come i testimoni a scarica invocata dalla difesa, Sigg. Fabio Lombardo, Carmelo Canale, Mario Mori e Giuseppe Di Donno.
11. Con un giudizio del 26 novembre 2007, il tribunale di Milano rilasciò il ricorrente.
12. Il tribunale osservò che il ricorrente era accusato di non avere esercitato il controllo necessario per evitare la commissione del reato di diffamazione col Sig. R.I. ; però, l’articolo scrive da questo ultimo non era costitutivo di una tale violazione perché si analizzava nell’esercizio del diritto di critica storica e giornalistica.
13. L’articolo incriminato conteneva un’esposizione di quattro avvenimento-chiavi della lotta contro la mafia, che l’autore dell’articolo vedeva come i sintomi di una “guerra” dei magistrati di Palermo contro i carabinieri. Questi avvenimenti erano stati caratterizzati dalla molteplicità dei procedimenti penali impegnati contro i carabinieri e dei magistrati, come il Sig. R.I. lo sottolineava. L’articolo non abbordava la questione di sapere se i magistrati miravano una scopo politica o un scopo altro che il loro dovere istituzionale di ricercare la verità. Allo visto del suo ruolo, un magistrato doveva aspettarsi di ciò che le sue attività siano osservate pubblicamente; allo stesso tempo, non era legittimo addurre, senza avere ne le prove che tale magistrato perseguiva degli strategie politici od organizzava dei complotti. Nello specifico, c’era un interesse pubblico a conoscere i fatti in questione, la loro esposizione era corretta nella forma, non si analizzava in un attacco gratuito contro la reputazione di altrui, e le informazione date erano obiettivamente vere.
14. Il tribunale di Milano esaminò a questo riguardo il contenuto di parecchi atti giudiziali o altri relativi alle persone citate nell’articolo che dimostrava che una certa diffidenza ed una mancanza di collaborazione erano esistite, nella cornice degli episodi riferiti nell’articolo, tra i carabinieri e le procure.
15. Certo, il Sig. R.I. aveva dato la sua interpretazione personale di questi episodi ed aveva, in modo passionale, preso partito per i carabinieri, che stimava, in sostanza, vittime di un accanimento della procura. C’era da parte sua un’evidente antipatia ed una mancanza di stima verso questo ultimo mentre una fiducia profonda ed una solidarietà sincera erano espresse in favore dei carabinieri. Se alcune inesattezze erano presenti nell’articolo, non costituivano però un’alterazione significativa dei fatti storici esposti, e le opinioni-discutibili e non divise dal tribunale di Milano-del Sig. R.I. erano una manifestazione della libertà di espressione di cui i cittadini in generale, ed i membri del Parlamento in particolare, godevano.
16. Era vero che il Sig. R.I. aveva utilizzato delle espressioni sgarbate, in particolare quando aveva menzionato il “piccolo gioco che la procura di Palermo mette in scena da dieci anni”; tuttavia, non aveva addotto l’esistenza di un complotto o di una strategia politica della procura contro i carabinieri.
B. Il procedimento di appello
17. La procura di Milano e le parti civili interposero appello contro questo giudizio.
18. Con una sentenza del 16 gennaio 2009 di cui il testo fu depositato alla cancelleria il 10 marzo 2009, la corte di appello di Milano condannò il ricorrente a quattro mesi di detenzione col beneficio della condizionale ed al pagamento degli oneri dei procedimenti di primo e seconda istanza. Condannò anche solidalmente il ricorrente e la società di edizione Società europea di edizioni S.p.a. a versare a ciascuna delle parti civili il seguente è: ha, 50 000 EUR a titolo di risarcimento del danno subito; b, 5 000 euros (EUR) a titolo del compenso pecuniario addizionale previsto dall’articolo 12 della legge no 47 di 1948; c, 18 000 EUR a titolo di onere di procedimento.
19. Stimò che il tribunale di Milano non aveva preso in considerazione il fatto che la responsabilità del direttore del giornale dipendeva da una carenza di controllo e che questo era responsabile della presentazione grafica di un articolo, dell’importanza e dello spazio assegnata a questo così come dei suoi titoli e sottotitoli. Di più, il tribunale aveva a torto “frazionato” l’articolo in quattro episodi (quelli riferito dal Sig. R.I). siccome essendo sintomatici di una guerra tra la procura ed i carabinieri, ed isolate certe frasi. Del parere della corte di appello, invece, l’articolo doveva leggere si nel suo insieme; una tale lettura mostrava chiaramente che l’autore era animato dall’intenzione di denigrare la procura di Palermo. Questo risultava del titolo, così come di certe affermazioni (per esempio, queste relative al fatto che la pratica Di Donno sarebbe restata al frigorifero durante sei mesi, alla “persecuzione” di cui il generale Mori sarebbe stato vittima, al “piccolo gioco” presumibilmente praticato dalla procura di aprire dei procedimenti penali destinati ad essere archiviate senza seguito. I magistrati della procura erano oggetto di accuse gravi, in particolare quella di avere utilizzato i loro poteri per le ragioni altri che il loro scopo istituzionale; così, avrebbero omesso di indagare su 44 politici ed imprenditori ed avrebbero permesso al pentito Di Maggio di commettere degli omicidi.
20. Peraltro, l’articolo era accompagnato da una fotografia che mostrava il generale Mori dinnanzi ad un edificio della polizia del fisco, accompagnata del seguente leggenda: “La persecuzione del generale. Gli attacchi verso Mario Mori si inseriscono nella cornice della guerra fatta ai carabinieri. Con lui fu implicato anche Giuseppe Di Donno, considerato come il collaboratore più affidabile di Giovanni Falcone.” Questo poteva avere solamente un valore suggestivo.
21. In quanto al tenore dell’articolo, superava una critica obiettiva ed aspra, e si analizzava in un’aggressione gratuita della sfera giuridica di altrui. In particolare, le espressioni utilizzate davano l’impressione che i magistrati della procura avevano condannato a morte il loro collega Paolo Borsellino, che avevano spinto al suicidio il maresciallo Lombardo, che erano dei “cani incatenati” del pentito Di Maggio.
22. Anche i membri del Parlamento non avevano il diritto di offendere e di ingiuriare; peraltro, prima di essere eletto senatore, il Sig. R.I. aveva scritto un libro intitolato “Il processo del secolo” in che riferiva degli episodi simili a quelli comparsa nell’articolo. Ora, questo libro era stato oggetto di numerosi procedimenti penali di cui certe si erano chiusi dalle condanne del Sig. R.I. chi aveva acquisito l’autorità della cosa giudicata.
23. IL SIG. R.I. non aveva menzionato la circostanza, risultando degli atti dei processi, che i carabinieri avevano omesso di mettere in opera un “dispositivo di osservazione” del “nascondiglio” del Sig. Riina, come la procura l’aveva chiesto, e che il generale Mori sé aveva dichiarato che c’era sempre stata collaborazione con la procura.
24. C’era probabilmente un interesse ad informare il pubblico in quanto ai possibili conflitti tra gli organi dello stato; però, nell’espressione delle sue opinioni su questi conflitti, il Sig. R.I. non aveva avuto la posizione di un “terzo osservatore dei fatti”, ma aveva accusato in modo puntuale Sigg. Caselli e Lo Forte di avere agito di malafede nell’esercizio delle loro funzioni. L’articolo conteneva delle insinuazioni gratuite che mirano a nuocere alla reputazione professionale dei magistrati in questione.
25. L’immunità di cui il Sig. R.I. beneficiava ai termini dell’articolo 68 § 1 della Costituzione non si dilungava al direttore del giornale che era tenuto di verificare il contenuto degli articoli che pubblicava anche quando questi erano stati scritti dai membri del Parlamento. Nello specifico, il ricorrente non aveva tenuto debitamente conto delle caratteristiche personali del Sig. R.I che da parecchi anni pubblicava degli scritti provocatori su questi stessi motivi e contro questi stessi magistrati, ciò che gli era valso delle condanne definitive per diffamazione.
26. Infine, la forza particolare del titolo, dei sottotitoli e delle leggende esigeva una più grande attenzione in quanto al controllo sulla veridicità di ciò che era affermato.
C. Il procedimento in cassazione
27. Il ricorrente si ricorse in cassazione.
28. Con una sentenza del 5 marzo 2010 di cui il testo fu depositato alla cancelleria il 8 aprile 2010, la Corte di cassazione, stimando che la corte di appello aveva motivato in modo corretta e logico tutti i punti controversi, respinse il ricorrente del suo ricorso. Lo condannò al rimborso degli oneri esposti in cassazione con le parti civili, o la somma totale di 3 000 EUR, ed al pagamento dei suoi oneri di procedimento.
29. La Corte di cassazione notò, in particolare, che la responsabilità penale del direttore del giornale era distinta di quella dell’autore dell’articolo e che l’immunità riconosciuta ad un membro del Parlamento non poteva essere estesa al direttore della pubblicazione.
IN DIRITTO
I. SULLA VIOLAZIONE ADDOTTA DELL’ARTICOLO 10 DELLA CONVENZIONE
30. Il ricorrente adduce che la sua condanna per diffamazione ha violato il suo diritto alla libertà di espressione, come previsto con l’articolo 10 della Convenzione, così formulata,:
“1. Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare delle informazione o delle idee senza che possa esserci ingerenza di autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente articolo non impedisce gli Stati di sottoporre le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione ad un regime di autorizzazioni.
2. L’esercizio di queste libertà che comprendono dei doveri e delle responsabilità può essere sottomesso a certe formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge che costituiscono delle misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla sicurezza pubblica, alla difesa dell’ordine ed alla prevenzione del crimine, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazione confidenziali o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziale. “
31. Il Governo si oppone a questa tesi.
A. Sull’ammissibilità
32. La Corte constata che la richiesta non è manifestamente mal fondata al senso dell’articolo 35 § 3 ha, della Convenzione. La Corte rileva peraltro che non cozza contro nessuno altro motivo di inammissibilità. Conviene dichiararla ammissibile dunque.
B. Sul fondo
1. Argomenti delle parti
a) Il ricorrente
33. Se ammette che l’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione era prevista dalla legge e che inseguiva un scopo legittimo, il ricorrente contesta la sua necessità in una società democratica. Adduce che l’articolo incriminato aveva per scopo di informare la collettività in quanto alle opinioni del senatore R.I. in materia di giustizia e di lotta contro le organizzazioni criminali. In quanto direttore del quotidiano, non gli apparteneva di censurare le opinioni del senatore di cui la libertà di espressione era garantita dalla Costituzione lei stessa che contemplava un’immunità di principio dei parlamentare contro ogni responsabilità penale.
34. Il ricorrente sottolinea che il Senato ha riconosciuto bene a R.I. l’immunità contemplata 68 § 1 all’articolo della Costituzione e che ogni congettura in quanto alla decisione che la Corte costituzionale avrebbe potuto adottare a proposito di questa deliberazione rileva della pura speculazione. Peraltro, non apparterrebbe al Governo di giudicare della natura delle opinioni espresse da R.I. e le decisioni della Corte costituzionale citata col Governo, paragrafo 36 qui di seguito, non sarebbero pertinenti, perché relative ad altri articoli di stampa scritta con R.I.
35. Bisogna tenere conto per il fatto che l’autore dell’articolo faceva l’un politico che agisce nella cornice delle sue funzioni parlamentari, e che il ricorrente si è limitato a permettere che il quotidiano Egli Giornale pubblica le opinioni dell’interessato che riguardavano un motivo di interesse generale. Ogni intervento del ricorrente che mira a censurare l’articolo incriminato sarebbe stato visto come un tentativo di ridurre la libertà di espressione di un eletto del popolo. Lo scopo legittimo di proteggere la reputazione di due magistrati della procura non saprebbe, nello specifico, prevalere sul diritto del pubblico di essere informato. A questo riguardo, il ricorrente ricorda che l’articolo incriminato conteneva una critica della condotta di questi magistrati nella cornice di investigazioni concernente le organizzazioni criminali, e che avevano dato luogo ad una lite tra l’autorità giudiziale ed i carabinieri. Il senatore R.I. non si era concesso ad un attacco contro la magistratura nel suo insieme.
b) Il Governo
36. Il Governo nota a titolo preliminare che la deliberazione del Senato che riconosce l’immunità al senatore R.I. non è stata esaminata sul fondo con la Corte costituzionale, il conflitto tra poteri dello stato alzato dal GIP di Milano essendo stato dichiarato inammissibile per tardività, paragrafo 8 sopra. Si non può avere la certezza che il Senato non ha superato i suoi poteri dunque. A questo riguardo, il Governo ricorda che in un’altra causa che riguarda un articolo scrive dal Sig. R.I, diffamatorio contro un altro magistrato di Palermo, la Corte costituzionale, sentenza no 205 del 17 luglio 2012, ha stimato che le opinioni espresse dal senatore non erano legate all’esercizio delle sue funzioni parlamentari. È ragionevole pensare che la Corte costituzionale sarebbe giunta ai conclusioni simili nella presente causa, se il ricorso per conflitto tra poteri non fosse stato introdotto fuori termine.
37. La Corte lei stessa ha precisato peraltro che nella mancanza di un legame evidente tra i propositi incriminati ed un’attività parlamentare, l’immunità contemplata 68 § 1 all’articolo della Costituzione può violare il diritto di accesso ad un tribunale dello diffamato (vedere, in particolare, Cordova c. Italia, il nostro 1 e 2, i nostri 40877/98 e 45649/99, 30 gennaio 2003; Di Jorio c. Italia, no 73936/01, 3 giugno 2004; Ielo c. Italia, no 23053/02, 6 dicembre 2005; e CGIL e Cofferati c. Italia, no 46967/07, 24 febbraio 2009. Riconoscere la stessa immunità ad un motivo-il direttore del giornale-no membro del Parlamento priverebbe lo diffamato di ogni azione in giustizia, situazione che la Corte sarebbe portata immancabilmente a giudicare contrario all’articolo 6 della Convenzione.
38. Il Governo osserva per di più che il ricorrente adduce una violazione del suo diritto di informare il pubblico in quanto agli opinioni politici espressi da un senatore e che la sua responsabilità penale derivava dell’articolo 57 del CP, disposizione che punisce le negligenze nel controllo del contenuto di un giornale col suo direttore. L’immunità riconosciuta al Sig. R.I. non ledeva in niente l’esistenza del reato rimproverato al ricorrente. Peraltro, questa immunità non esclude la commissione di una diffamazione, ma implica semplicemente che l’autore di questa non può essere giudicato né punito.
39. L’ingerenza inseguiva due scopi legittimi: la protezione della reputazione o dei diritti di altrui e la garanzia dell’autorità e dell’imparzialità del potere giudiziale. I corsi di appello e di cassazione hanno considerato a buon diritto che l’articolo del senatore R.I. era offensivo e che si analizzava in un attacco gratuito ed ingiustificato contro il potere giudiziale e la reputazione personale e professionale di Sigg. Caselli e Lo Forte.
40. Per ciò che è della giustificazione e della necessità dell’ingerenza, il Governo nota che secondo la corte di appello, il Sig. R.I. aveva dato una visione deformata dei rapporti esistenti tra le procure di Palermo ed i carabinieri, menzionando una “guerra” tra queste due istituzioni ed un “persecuzioni” degli agenti che non si allineavano sui magistrati Caselli e Lo Forte. Di più, questi ultimi non avrebbero rispettato i loro doveri istituzionali. Il vocabolario utilizzato nell’articolo, le allusioni contenute e gli amalgami tra i differenti fatti riferiti che non corrispondevano fedelmente tutti alla realtà, sono stati presi anche in conto. Il tribunale di Milano aveva omesso di considerare che le opinioni espresse dovevano basarsi su dei fatti reali e probabili. La natura offensica dellìarticolo risulterebbe allo stesso modo dal titolo e dal sottotitolo dell’articolo (e dalla fotografia che l’accompagnava) , di cui il direttore del giornale avrebbe dovuto essre ritenuto responsabile. In più, il ricorrente non aveva tenuto sufficientemente conto della personalità del Sig. R.I. e dei suoi antecedenti.
41. L’obbligo di controllo che pesa sul direttore di un giornale non deve essere guardato come quella di esercitare una “censura” su un articolo scrive da un membro del Parlamento; si tratta semplicemente di evitare che i reati siano commessi dal verso della pubblicazione che dirige. La sola circostanza che un articolo è stato scritto da un senatore che beneficia dell’immunità contemplata 68 § 1 all’articolo della Costituzione non saprebbe esonerare il direttore del giornale del suo dovere di controllo.
42. Le giurisdizioni italiane hanno proceduto ad un esame dettagliato della causa, e hanno concluso a buon diritto che l’articolo incriminato offendeva gravemente la reputazione professionale di due magistrati di Palermo, presentata come inabile ad assolvere le loro funzioni e prestiti ad abusare di queste, e dell’autorità giudiziale considerata nel suo insieme, contribuendo con là a minare la fiducia del pubblico nell’amministrazione giudiziale. IL SIG. R.I. non aveva superato solamente i limiti della critica ammissibile in una società democratica, aveva assegnato anche ai magistrati in questione dei comportamenti specifici senza verificare i fatti e senza portare delle prove che corroborano le sue affermazioni. In quanto direttore del giornale, il ricorrente aveva il potere ed il dovere di evitare che la dibattito politica non degenera in insulti o attacchi personali.
2. Valutazione della Corte
ha, Sull’esistenza di un’ingerenza
43. Non suscita controversia tra le parti che la condanna del ricorrente ha costituito un’ingerenza nel diritto di questo ultimo alla libertà di espressione, come garantito con l’articolo 10 § 1 della Convenzione.
b, Sulla giustificazione dell’ingerenza,: la previsione con la legge ed il perseguimento di un scopo legittimo
44. Un’ingerenza è contraria alla Convenzione se non rispetta le esigenze contemplate al paragrafo 2 dell’articolo 10. C’è luogo dunque di determinare se era “prevista dalla legge”, se prevedeva uno o parecchi degli scopi legittimi enunciati in questo paragrafo e se fosse “necessaria in una società democratica” per raggiungere questo o questi scopi, Pedersen e Baadsgaard c. Danimarca, no 49017/99, § 67, CEDH 2004-XI.
45. Non è contestato che l’ingerenza era prevista sopra dalla legge, a sapere con l’articolo 57 del CP, paragrafo 7. La Corte non ha a ricercare se la condanna del ricorrente prevedeva lo scopo legittimo che costituisci la protezione del potere giudiziale perché ammette che ad ogni modo l’ingerenza poteva rivendicare si di un altro scopo legittimo, a sapere la protezione della reputazione o dei diritti di altrui, nell’occorrenza di Sigg. Caselli e Lo Forte (vedere, mutatis mutandis, Nikula c. Finlandia, no 31611/96, § 38, CEDH 2002-II; Perna c. Italia [GC], no 48898/99, § 42, CEDH 2003-V; ed Ormanni c. Italia, no 30278/04, § 57, 17 luglio 2007.
46. Resta a verificare se l’ingerenza era “necessaria in una società democratica.”
c) Sulla necessità dell’ingerenza in una società democratica
i. Principi generali
47. La stampa gioca un ruolo eminente in una società democratica: se non deve superare certi limiti, tenendo in particolare alla protezione della reputazione ed ai diritti di altrui, gli spetta tuttavia di comunicare, nel rispetto dei suoi doveri e delle sue responsabilità, delle informazione e delle idee su tutte le questioni di interesse generale, ivi compreso queste della giustizia, Di Haes e Gijsels c. Belgio, 24 febbraio 1997, § 37, Raccolta delle sentenze e decisioni 1997-I. Alla sua funzione che consiste in diffondere ne si aggiunge il diritto, per il pubblico, di ricevere ne. Se ne andasse diversamente, la stampa non potrebbe sostenere il suo ruolo indispensabile di “cane da guardia”, Thorgeir Thorgeirson c. Islanda, 25 giugno 1992, § 63, serie Ha no 239, e Bladet Tromsø e Stensaas c. Norvegia [GC], no 21980/93, § 62, CEDH 1999-III. Oltre la sostanza delle idee ed informazione espresse, l’articolo 10 protegge il loro modo di espressione, Oberschlick c. Austria (no1), 23 maggio 1991, § 57, serie Ha no 204. La libertà giornalistica comprende anche il ricorso possibile ad una certa dose di esagerazione, o addirittura di provocazione, Prager ed Oberschlick c. Austria, 26 aprile 1995, § 38, serie Ha no 313, e Thoma c. Lussemburgo, no 38432/97, §§ 45 e 46, CEDH 2001-III.
48. I limiti della critica ammissibile possono in certo caso essere più largo per i funzionari che agiscono nell’esercizio dei loro poteri che per i semplici particolari. Però, si saprebbe dire solamente i funzionari si esporsi volontariamente esattamente ad un controllo attento dei loro fatti e gesti come questo è il caso per i politici e dovrebbero essere trattati quindi su un piede di uguaglianza con questi ultimi quando sono in causa delle critiche del loro comportamento. I funzionari devono, per liberarsi dalle loro funzioni, beneficiare della fiducia del pubblico senza essere perturbati indebitamente ed egli può rivelarsi quindi necessario di proteggerli contro gli attacchi privi di fondamento serio, Janowski c. Polonia [GC], no 25716/94, § 33, CEDH 1999-I, e Nikula, precitata, § 48. A questo riguardo, conviene ricordare che l’azione dei tribunali che sono posteggiati della giustizia e di cui la missione è fondamentale in un Stato di diritto, ha bisogno della fiducia del pubblico per funzionare bene, Di Haes e Gijsels, precitata, § 37; Schöpfer c. Svizzera, 20 maggio 1998, § 29, Raccolta 1998-III; e Sgarbi c. Italia, déc.), no 37115/06, 21 ottobre 2008.
49. L’aggettivo “necessario”, al senso dell’articolo 10 § 2, implica l’esistenza di un “bisogno sociale imperioso.” Gli Stati contraenti godono di un certo margine di valutazione per giudicare dell’esistenza di un tale bisogno, ma questo margine va di pari in passo con un controllo europeo che cade al tempo stesso sulla legge e sulle decisioni che applicano questa, anche quando provengono di una giurisdizione indipendente. La Corte ha competenza per deliberare sul punto di sapere da ultimo dunque se una “restrizione” si concilia con la libertà di espressione protetta con l’articolo 10 (Janowski, precitata, § 30, ed Associazione Ekin c. Francia, no 39288/98, § 56, CEDH 2001-VIII.
50. In particolare, incombe sulla Corte di determinare se i motivi invocati dalle autorità nazionali per giustificare l’ingerenza appaiono “pertinenti e sufficienti” e se la misura incriminata era “proporzionata agli scopi legittimi perseguiti”, Chauvy ed altri c. Francia, no 64915/01, § 70, CEDH 2004-VI. Ciò che fa, la Corte deve convincersi che le autorità nazionali hanno, basandosi su una valutazione accettabile dei fatti pertinenti, applicato delle regole conformi ai principi consacrati dall’articolo 10 (vedere, tra molto altri, Zana c. Turchia, 25 novembre 1997, § 51, Raccolta 1997-VII; Di Diego Nafría c. Spagna, no 46833/99, § 34, 14 marzo 2002; Pedersen e Baadsgaard precitata, § 70.
51. Per valutare la giustificazione di una dichiarazione contestata, c’è luogo di distinguere tra dichiarazioni dei fatti e giudizi di valore. Se la fisicità dei fatti può dimostrarsi, i secondo non suscitano una dimostrazione della loro esattezza, Oberschlick c. Austria (no 2), 1 luglio 1997, § 33, Raccolta 1997-IV. L’attribuzione ad una dichiarazione della qualifica di fatto o di giudizio di valore rileva del margine di valutazione delle autorità nazionali in primo luogo, in particolare delle giurisdizioni interne, Prager ed Oberschlick, precitata, § 36. Tuttavia, anche quando una dichiarazione equivale ad un giudizio di valore, deve basarsi su una base factuelle sufficiente, mancanza di cui sarebbe eccessiva, Gerusalemme c. Austria, no 26958/95, § 43, CEDH 2001-II.
52. Il diritto dei giornalisti di comunicare delle informazione su delle questioni di interesse generale è protetto purché agiscono di buona fede, sulla base di fatti esatti, e forniscono delle informazione “affidabili e precise” nel rispetto dell’etica giornalistica (vedere, per esempio, le sentenze precitati Fressoz e Roire, § 54, Bladet Tromsø e Stensaas, § 58, e Prager ed Oberschlick, § 37. Il paragrafo 2 dell’articolo 10 della Convenzione sottolinea che l’esercizio della libertà di espressione comprende dei “doveri e responsabilità” che valgono anche anche per i media trattandosi di questioni di un grande interesse generale. Di più, questi doveri e responsabilità possono rivestire dell’importanza quando si rischia di recare per nome offesa alla reputazione di una persona citata e di nuocere ai “diritti di altrui.” Così, devono esistere dei motivi specifici per potere rilevare i media dell’obbligo che tocca loro in principio di verificare potenzialmente i dichiarazioni factuelles diffamatori contro individui. A questo riguardo, entrano specialmente in gioco la natura ed il grado della diffamazione in causa e la questione di sapere a che punto il media può considerare ragionevolmente le sue sorgenti come credibili per ciò che è delle affermazioni incriminate (vedere, entri altri, McVicar c. Regno Unito, no 46311/99, § 84, CEDH 2002-III, e Standard Verlagsgesellschaft MBH, (no 2, c,). Austria, no 37464/02, § 38, 22 febbraio 2007.
53. La natura e la pesantezza delle pene inflitte sono anche degli elementi a prendere in considerazione quando si tratta di misurare la proporzionalità dell’ingerenza (vedere, per esempio, Ceylon c. Turchia [GC], no 23556/94, § 37, CEDH 1999-IV, e Tammer c. Estonia, no 41205/98, § 69, CEDH 2001-I. In particolare, nel causa Cumpănă e Mazăre c. Romania ([GC], no 33348/96, §§ 113-115, CEDH 2004-XI, la Corte ha affermato i seguenti principi:
“113. Se gli Stati contraenti hanno la facoltà, addirittura il dovere, in virtù dei loro obblighi positivi a titolo dell’articolo 8 della Convenzione, di regolamentare l’esercizio della libertà di espressione in modo da garantire una protezione adeguata con la legge della reputazione degli individui, devono evitare ciò che fa di adottare delle misure proprie a dissuadere i media di assolvere il loro ruolo di allerta del pubblico in caso di abusi apparenti o supposti del potere pubblico. I giornalisti di investigazione rischiano di essere reticenti ad esprimersi su delle questioni che presentano un interesse generale se inseguono il pericolo di essere condannati, quando la legislazione contempla delle tali sanzioni per gli attacchi ingiustificati contro la reputazione di altrui, alle pene di prigione o di interdizione di esercizio della professione.
114. L’effetto dissuasivo che il timore delle uguali sanzioni porta per l’esercizio con questi giornalisti della loro libertà di espressione è manifesto. Nocivo per la società nel suo insieme, gli fa anche partire degli elementi a prendere in conto nella cornice della valutazione della proporzionalità-e dunque della giustificazione-delle sanzioni inflitte.
115. Se la determinazione delle pene è in principio l’appannaggio delle giurisdizioni nazionali, la Corte considera che una pena di prigione inflitta per una violazione commessa nella tenuta della stampa non è compatibile con la libertà di espressione giornalistica garantita dall’articolo 10 della Convenzione che nelle circostanze eccezionali, in particolare quando di altri diritti fondamentali sono stati raggiunti gravemente come nell’ipotesi, per esempio, della diffusione di un discorso di odio o di incitamento alla violenza. “
54. Conviene ricordare, infine che nelle cause siccome la presente che necessitano un collocamento in bilancia del diritto al rispetto della vita privata e del diritto alla libertà di espressione, la Corte considera che la conclusione della richiesta non saprebbe in principio variare a seconda che è stata portata dinnanzi a lei, sotto l’angolo dell’articolo 8 della Convenzione, con la persona che è oggetto del servizio o, sotto l’angolo dell’articolo 10, con l’editore che l’ha pubblicato. Difatti, i diritti rispettivamente garantiti con queste disposizioni meritano ha a priori un uguale rispetto. Quindi, il margine di valutazione dovrebbe in principio essere lo stesso nei due casi. Se il collocamento in bilancia con le autorità nazionali si è fatto nel rispetto dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, occorre delle ragioni serie affinché questa sostituisce il suo parere a quello delle giurisdizioni interne, MGN Limited c. Regno Unito, no 39401/04, §§ 150 e 155, 8 gennaio 2011; Palomo Sánchez ed altri c. Spagna [GC], nostri 28955/06, 28957/06, 28959/06 e 28964/06, § 57, ECHR 2011 -.. ; e Von Hannover c. Germania (no 2) [GC], i nostri 40660/08 e 60641/08, §§ 106-107, ECHR 2012 -..).
ii. Applicazione di questi principi al caso di specie
55. La Corte osserva innanzitutto che l’articolo del Sig. R.I. riguardava un motivo di interesse generale, a sapere i rapporti che esistono anche tra la procura ed i carabinieri di Palermo in una tenuta delicata che quello della lotta contro la mafia. La corte di appello di Milano ha ammesso peraltro che c’era un interesse ad informare il pubblico in quanto ai possibili conflitti tra gli organi dello stato, paragrafo 24 sopra.
56. In quanto al tenore dell’articolo incriminato, la Corte non saprebbe considerare come arbitrarietà o manifestamente erronea la valutazione della corte di appello di Milano secondo la quale il Sig. R.I. aveva assegnato ai magistrati della procura dei comportamenti che implicano un’utilizzazione deviata dai loro poteri istituzionali, come una “persecuzione” contro il generale Mori, il “piccolo gioco” che consiste nell’apertura di procedimenti penali destinati ad essere archiviate senza seguito, l’omissione di indagare su certi politici ed imprenditori e la possibilità, lasciate sopra al pentito Di Maggio, di commettere degli omicidi, paragrafo 19. Di più, l’articolo dava l’impressione che i magistrati in questione avevano spinto al suicidio il maresciallo Lombardo e che erano di un certi modo responsabile della morte di uno dei loro colleghi, paragrafo 21 sopra. Agli occhi della Corte, si tratta di accuse gravi contro funzionari dello stato, non supportate dagli elementi obiettivi. Difatti, i quattro episodi che secondo il Sig. R.I. erano sintomatici di una “guerra” tra le procure ed i carabinieri non potevano in loro stessi costituire sopra la prova dei comportamenti riassunti.
57. Sotto questo aspetto, la presente causa si avvicina del causa Perna, precitata che riguardava inoltre la condanna di un giornalista per avere messo in dubbio la fedeltà al principio di legalità, l’obiettività e l’indipendenza di un membro della procura, accusandolo, di avere esercitato il suo ufficio in modo scorretto e di avere avuto un comportamento illegale. In questa ultima mi affaccendo, la Grande Camera ha concluso alla no-violazione dell’articolo 10 della Convenzione osservando, entra altri, che il testo controverso, considerato nella sua globalità, “escludeva che il magistrato riguardato fosse rispettoso degli obblighi deontologici propri alla sua funzione e gli negava per di più i requisiti di imparzialità, di indipendenza e di obiettività che caratterizza l’esercizio dell’attività giudiziale”. Di più, le affermazioni del ricorrente si ridursi ad un attacco ingiustificato contro il querelante che era costantemente e denigrate sottilmente.
58. È vero che il causa Perna riguardava la condanna dell’autore dell’articolo, mentre la presente causa cade sulla condanna del direttore del giornale in che l’articolo era stato pubblicato, per avere omesso di esercitare il controllo necessario alla prevenzione della commissione di reati con via di stampa. Però, la Corte non saprebbe né considerare come contrario alla Convenzione l’articolo 57 del CP che pone questo dovere di controllo, paragrafo 7 sopra, né stimare che la qualità di membro del Parlamento dell’autore di un articolo possa esonerare automaticamente il direttore di un giornale di ogni obbligo di rifiutare la pubblicazione di affermazioni diffamatorie. Concludere equivarrebbe diversamente ad assegnare ai deputati ed ai senatori il dritto incondizionato di pubblicare e diffondere con la stampa ogni opinione legata all’esercizio del loro mandato parlamentare, così ingiurioso o lei. A questo riguardo, la Corte ricorda che la libertà di espressione degli eletti del popolo non è illimitata; ha stimato, in particolare, che non saprebbe giustificare un diniego totale di accesso alla giustizia quando delle affermazioni percepite come diffamatori con altrui sono fatte da un membro del Parlamento nella mancanza di un legame evidente con un’attività parlamentare (vedere, entra altri, Cordova (no 1), precitata, §§ 59-66. Il ricorrente non era esonerato del suo dovere di controllo dunque, e ciò di tanto più allo visto degli antecedenti del Sig. R.I. chi, in dispetto della sua qualità di senatore, era stato già oggetto di condanne penali definitive per diffamazione, paragrafi 22-25 sopra.
59. Bisogna avere anche riguardo al fatto che il direttore di un giornale è responsabile del modo di cui un articolo è presentato e dell’importanza che gli è assegnata in seno alla pubblicazione. Nello specifico, l’articolo del Sig. R.I. era corredato da una fotografia che mostrava il generale Mori dinnanzi ad un edificio della polizia del fisco con una leggenda che faceva riferimento alla “persecuzione” di questo ufficiale ed alla “guerra fatta ai carabinieri”, paragrafo 20 sopra. Del parere della Corte, questa presentazione grafica contribuiva a corroborare presso dei lettori le tesi esposte nell’articolo, ivi compreso queste potendo analizzarsi in un attacco verso la reputazione professionale dei magistrati della procura.
60. Alla luce di ciò che precede, la Corte saprebbe concludere solamente una condanna contro il ricorrente era in si contrario all’articolo 10 della Convenzione.
61. Non ne rimane meno che, come ricordato sopra al paragrafo 53, la natura e la pesantezza delle pene inflitte sono anche degli elementi a prendere in considerazione quando si tratta di misurare la proporzionalità dell’ingerenza. Ora, nello specifico, oltre il risarcimento dei danni, per un importo totale di 110 000 EUR, il ricorrente è stato condannato a quattro mesi di detenzione, paragrafo 18 sopra. Sebbene ci sia stato sospesi all’esecuzione di questa sanzione, la Corte considera che l’infliction in particolare di una pena di prigione ha potuto avere un effetto dissuasivo significativo. Peraltro, il caso di specifico, cadendo su una mancanza di controllo nella cornice di una diffamazione, non era segnato da nessuna circostanza eccezionale che giustifica anche il ricorso ad una sanzione severa. Questo permette di distinguere la presente causa del causa Perna, precitata, dove la pena inflitta era una semplice multa.
62. La Corte stima che, a causa della misura e della natura della sanzione imposta al ricorrente, l’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione di questo ultimo non era proporzionata agli scopi legittimi perseguiti (vedere, mutatis mutandis, Koprivica c. Montenegro, no 41158/09, §§ 73-74, 22 novembre 2011.
63. C’è stata dunque violazione dell’articolo 10 della Convenzione.
II. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
64. Ai termini dell’articolo 41 della Convenzione,
“Se la Corte dichiara che c’è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente permette di cancellare solo imperfettamente le conseguenze di questa violazione, la Corte accorda alla parte lesa, se c’è luogo, una soddisfazione equa. “
A. Danno
65. Il ricorrente richiede 10 000 EUR a titolo del danno morale che avrebbe subito.
66. Il Governo osserva che il ricorrente non ha fornito nessuna prova di questo danno e non ha precisato ne che cosa sarebbe consistito. Di più, non ha provato l’esistenza di un legame di causalità tra il preteso danno e le violazioni dell’articolo 10 della Convenzione.
67. La Corte considera che c’è luogo di concedere al ricorrente 10 000 EUR a titolo del danno morale.
B. Oneri e spese
68. Basandosi su una nota spese del suo consigliere, il ricorrente chiede anche 5 133,60 EUR per gli oneri e le spese impegnati dinnanzi alla Corte.
69. Il Governo stima questo importo eccessivo allo sguardo dell’attività compiuta dal consigliere del ricorrente e dalle tabelle di rimunerazione delle prestazioni giuridiche in vigore in Italia.
70. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso dei suoi oneri e spese solo nella misura in cui si stabilisca la loro realtà, la loro necessità ed il carattere ragionevole del loro tasso. Nello specifico e tenuto conto dei documenti in suo possesso e della sua giurisprudenza, la Corte stima ragionevole la somma di 5 000 EUR per il procedimento dinnanzi a lei e l’accorda al ricorrente.
C. Interessi moratori
71. La Corte giudica appropriato di ricalcare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse della facilità di prestito marginale della Banca centrale europea aumentato di tre punti percentuale.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,
1. Dichiara la richiesta ammissibile;
2. Stabilisce che c’è stata violazione dell’articolo 10 della Convenzione;
3. Stabilisce
a) che lo stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi a contare del giorno in cui la sentenza sarà diventata definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, il seguente somme:
i, 10 000 EUR, diecimila euro, più ogni importo che può essere dovuto a titolo di imposta, per danno morale,;
ii, 5 000 EUR, cinquemila euro, più ogni importo che può essere dovuto a titolo di imposta col ricorrente, per oneri e spese,;
b) che a contare dalla scadenza di suddetto termine e fino al versamento, questi importi saranno da aumentare di un interesse semplice ad un tasso uguale a quello della facilità di prestito marginale della Banca centrale europea applicabile durante questo periodo, aumentato di tre punti percentuale;
4. Respinge la domanda di soddisfazione equa per il surplus.
Fatto in francese, poi comunicato per iscritto il 24 settembre 2013, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 dell’ordinamento.
Stanley Naismith Danutė Jočienė
Cancelliere Presidentessa